Gli Stati Uniti son
ben consapevoli che la conduzione della loro politica estera è da criminali.
Siamo in presenza di una nazione violenta che si arroga il diritto di
commettere impunemente gravi crimini.
Questa raccolta di interviste, pubblicata dalla Manifestolibri
nel 2003, che vanno dal 1975 al 2003, al filosofo americano Noam Chomsky,
impegnato sin dagli anni Sessanta nella lotta politica ed intellettuale contro
la politica di potenza americana, getta un’inquietante luce sulla strategia
imperialista e militarista condotta dagli Stati Uniti negli ultimi
cinquant’anni, che coinvolge l’intero pianeta, dall’America latina al
Medioriente, dall’Europa meridionale all’Indocina.
Sin dalla guerra in Vietnam, una vera e propria “invasione
del Vietnam del Sud”, gli Stati Uniti
hanno condotto una grande guerra, perpetua e universale, animata da un’unica e
sola logica, quella del profitto. Questa tragica e interminabile guerra si
declina diversamente a seconda del contesto geopolitico e storico, adduce cause
sempre diverse, ma tenendo presente l’obiettivo, l’unico e solo che anima la
condotta politica di questa superpotenza: sopprimere ogni tentativo di
indipendenza politica ed economica, di emancipazione democratica, disseminando
in tutto il mondo governi fantoccio tenuti da élite compiacenti. Eliminare ogni
forma di opposizione al regime economico statunitense è stato il punto fermo
della politica estera americana, sia dei presidenti democratici che di quelli
repubblicani. Tanto Kennedy, quanto Reagan, tanto Clinton quanto Bush sono
responsabili delle atrocità commesse in tutto il mondo da una politica serva
degli interessi delle grandi corporations,
sono responsabili degli squilibri politici, economici e sociali che continuano
a persistere tra il mondo Occidentale e il Terzo Mondo. Sono responsabili della
disuguaglianza e dell’orrore disseminato ovunque.
Se le interviste degli anni Settanta e Ottanta ci consegnano
un quadro storico complesso e critico,
che getta luce sul nostro recente passato – è molto interessante l’analisi di
Chomsky sul periodo della “distensione” durante la Guerra Fredda, in cui USA e
URSS stabiliscono un accordo di non interferenza nelle reciproche zone
d’influenza – quelle degli ultimi vent’anni, dalla caduta del muro di Berlino
in poi, descrivono il progressivo imporsi del modello economico e sociale
americano in tutto l’Occidente, l’affinarsi del sistema di manipolazione
mediatica, necessaria a legittimare il conflitto tra “mondo industrializzato e
paesi detentori delle risorse energetiche”, il retrocedere dell’ex Unione
Sovietica a paese del terzo mondo.
Gli anni Novanta sono gli “anni felici”, sul modello degli
anni Venti: il rinnovato e rinvigorito liberismo americano attua una politica
di potenza sempre più aggressiva. Il primo passo per rafforzare il potere delle
grandi corporazioni è procedere con lo “smantellamento del contratto sociale”.
Il potere politico, democratico e repubblicano, procede in questi anni a ridurre
i diritti dei lavoratori (Chomsky ci dice che negli anni Novanta i lavoratori
americani non avevano ferie pagate ed erano sottoposti ad orari di lavoro più pesanti
rispetto ai lavoratori europei), ad abbattere lo stato sociale, negando il
diritto alla sanità e all’istruzione. Le condizioni di povertà negli Stati
Uniti sono paragonabili a quelle del Terzo Mondo. Chomsky parla di crisi degli
anni Novanta: se consideriamo come parametro economico il PIL, allora dobbiamo
ammettere che in quegli anni l’economia statunitense era in crescita. Ma ci
sono altri parametri di cui le agenzie statistiche non tengono conto: la
mortalità infantile, il costo del lavoro, l’abuso e la violenza sui minori;
l’ultima analisi di questo tipo fu fatta
negli USA nel 1930. Dichiara il filosofo in un’intervista del
2000:
…gli Stati Uniti non
sono così prosperi come si vorrebbe far credere, anzi attraversano una vera e
propria recessione. Basta guardare agli indici relativi alla mortalità
infantile e alla povertà dei bambini al di sotto dei cinque anni: c’è da
vergognarsi. Non si possono dimenticare poi i due milioni di cittadini in
carcere – di cui il 90% afroamericani e latini -, o i 44 milioni di americani
privi oggi di assistenza sanitaria – nel 1996 ne erano privi 38 milioni. Dal
1975, il prodotto nazionale lordo ha continuato a crescere, ma
contemporaneamente c’è stato un collasso totale delle infrastrutture del
sistema sociale. E qui la discesa continua.
L’imperialismo
militarista si fonda su un apparato ideologico e repressivo che ha come scopo
quello di legittimare il modello di
ingiustizia attraverso la manipolazione mediatica e l’imposizione con la forza
di politiche che altrimenti sarebbero tollerate con molta difficoltà da parte
dell’opinione pubblica. La propaganda americana crea dei mostri, dei nemici,
dei capri espiatori. In questo modo gli Stati Uniti assumono il ruolo dei
“buoni”, dei protettori dei diritti umani, dei custodi della democrazia, e allo
stesso tempo immobilizzano l’opinione pubblica nella paura del mostro, del nemico,
impedendo il sorgere di movimenti di protesta.
Dalla paura
al “terrore”, dal “terrore” al “terrorismo”: una parola che Chomsky non esita a
definire “inventata”. I governi americani hanno inventato la parola terrorismo
per legittimare la propria politica di potenza: terroristi sono i cubani,
terrorista è Saddam nel momento in cui attua politiche che non sono gradite
agli USA. Perché Saddam è un terrorista se colpisce alleati degli Stati Uniti e
non è un terrorista nel momento in cui non lede gli interessi americani con le
sue atrocità?
Terrorismo,
fondamentalismo islamico, esportazione della democrazia, tutela dei diritti
umani sono concetti che l’ideologia americana utilizza per rendere tollerabile
all’opinione pubblica il suo imperialismo militarista, alternando la
persuasione, l’insistenza sui valori e sull’identità occidentale, al terrore e
alla paura. Chomsky non parla di una strategia del terrore, ma sicuramente
siamo di fronte ad una strategia mediatica del terrore.
Terrore che
non esita a riversarsi anche sulla politica interna: la discriminazione
razziale, l’individuazione di capri espiatori è fondamentale per abbattere ogni
diversità, all’interno e all’esterno del confine statunitense. Nel terrore della
criminalità, del narcotraffico, che l’apparato ideologico fomenta
quotidianamente attraverso l’informazione, risiede la legittimazione di una
politica repressiva nei confronti di alcune etnie, come quella africana e
latina. Al momento dell’elezione di Clinton, e poi di Bush, una grossa fetta di
questa popolazione sarà in carcere, sarà privata del diritto di voto. Questo,
dichiara Chomsky, è forse più scandaloso della vergognosa vicenda delle schede
elettorali di molti afroamericani annullate durante le elezioni di Bush figlio.
Terrorismo e
fondamentalismo sono sicuramente i concetti più attuali, utilizzati dalla
propaganda di tutti i governi occidentali. Chomsky ci spiega in maniera molto
chiara che il problema non è certo il fondamentalismo islamico, dato che uno
degli alleati dell’Occidente contro suddetto fondamentalismo è l’Arabia
Saudita, un paese fondamentalista. Il problema è l’indipendenza dei popoli dal
modello americano, che è il modello del Capitale, è l’indipendenza, la
“devianza” di alcuni gruppi etnici e sociali rispetto al prototipo dell’uomo
bianco consumatore e lavoratore. Per abbattere ogni differenza, che costituisce
un pericolo per la stabilità del sistema, fondato sull’omologazione,
sull’abbattimento di ogni forma di individualità e specificità, il potere
utilizza ogni mezzo possibile. Con le bombe e col “Drive In” si è uccisa ogni
alternativa. Chomsky ci mette in guardia. Il suo impegno costituisce un esempio
di lotta ma soprattutto di esercizio del pensiero critico e libero.
In altre
interviste Chomsky ha dichiarato che l’esercizio di un pensiero critico
richiede semplicemente un po’ di apertura mentale e una buona dose di
scetticismo. Non richiede particolari competenze, né preparazione politica o
filosofica. Il trucco sta nel cogliere argutamente le discrepanze tra la
narrazione ideologica e i fatti così come sono. L’intento del filosofo è quello
di criticare l’intelligencija che si arroga il monopolio delle interpretazioni
degli eventi politici e dei fenomeni sociali, mettendo queste interpretazioni
al servizio di interessi particolari.
Su questo
punto non si può che essere d’accordo con Chomsky. Tuttavia, bisogna tener
conto della complessità del sistema mediatico d’informazione e di propaganda
delle società occidentali. È un sistema pluralistico, articolato in modo
complesso, in cui è davvero difficile stabilire quali siano i fatti ed
elaborare un giudizio sulla base di dati oggettivi. È possibile elaborare un
giudizio critico sulla base dei dati di cui siamo forniti, essendo questi
narrati sempre sulla base di un interesse particolare?
A mio
avviso, l’esercizio delle proprie facoltà critiche non richiede particolare
erudizione, e su questo sono pienamente d’accordo con Chomsky. Ma ritengo che
la critica sia frutto di una scelta politica precisa, che ci spinge a non
accontentarci delle informazioni che impacchettano appositamente per noi poveri
uomini-massa, che ci invita a dubitare, e dunque a cercare, e forse, a
comprendere. Una scelta che precede l’analisi dei fatti. Una scelta che lo
stesso Noam Chomsky ha compiuto.
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