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mercoledì 23 dicembre 2015

Dal Vietnam all’Iraq. Colloqui con Patricia Lombroso, Noam Chomsky


Gli Stati Uniti son ben consapevoli che la conduzione della loro politica estera è da criminali. Siamo in presenza di una nazione violenta che si arroga il diritto di commettere impunemente gravi crimini.

Questa raccolta di interviste, pubblicata dalla Manifestolibri nel 2003, che vanno dal 1975 al 2003, al filosofo americano Noam Chomsky, impegnato sin dagli anni Sessanta nella lotta politica ed intellettuale contro la politica di potenza americana, getta un’inquietante luce sulla strategia imperialista e militarista condotta dagli Stati Uniti negli ultimi cinquant’anni, che coinvolge l’intero pianeta, dall’America latina al Medioriente, dall’Europa meridionale all’Indocina.

Sin dalla guerra in Vietnam, una vera e propria “invasione del Vietnam del Sud”,  gli Stati Uniti hanno condotto una grande guerra, perpetua e universale, animata da un’unica e sola logica, quella del profitto. Questa tragica e interminabile guerra si declina diversamente a seconda del contesto geopolitico e storico, adduce cause sempre diverse, ma tenendo presente l’obiettivo, l’unico e solo che anima la condotta politica di questa superpotenza: sopprimere ogni tentativo di indipendenza politica ed economica, di emancipazione democratica, disseminando in tutto il mondo governi fantoccio tenuti da élite compiacenti. Eliminare ogni forma di opposizione al regime economico statunitense è stato il punto fermo della politica estera americana, sia dei presidenti democratici che di quelli repubblicani. Tanto Kennedy, quanto Reagan, tanto Clinton quanto Bush sono responsabili delle atrocità commesse in tutto il mondo da una politica serva degli interessi delle grandi corporations, sono responsabili degli squilibri politici, economici e sociali che continuano a persistere tra il mondo Occidentale e il Terzo Mondo. Sono responsabili della disuguaglianza e dell’orrore disseminato ovunque.

Se le interviste degli anni Settanta e Ottanta ci consegnano un quadro storico  complesso e critico, che getta luce sul nostro recente passato – è molto interessante l’analisi di Chomsky sul periodo della “distensione” durante la Guerra Fredda, in cui USA e URSS stabiliscono un accordo di non interferenza nelle reciproche zone d’influenza – quelle degli ultimi vent’anni, dalla caduta del muro di Berlino in poi, descrivono il progressivo imporsi del modello economico e sociale americano in tutto l’Occidente, l’affinarsi del sistema di manipolazione mediatica, necessaria a legittimare il conflitto tra “mondo industrializzato e paesi detentori delle risorse energetiche”, il retrocedere dell’ex Unione Sovietica a paese del terzo mondo.

Gli anni Novanta sono gli “anni felici”, sul modello degli anni Venti: il rinnovato e rinvigorito liberismo americano attua una politica di potenza sempre più aggressiva. Il primo passo per rafforzare il potere delle grandi corporazioni è procedere con lo “smantellamento del contratto sociale”. Il potere politico, democratico e repubblicano, procede in questi anni a ridurre i diritti dei lavoratori (Chomsky ci dice che negli anni Novanta i lavoratori americani non avevano ferie pagate ed erano sottoposti ad orari di lavoro più pesanti rispetto ai lavoratori europei), ad abbattere lo stato sociale, negando il diritto alla sanità e all’istruzione. Le condizioni di povertà negli Stati Uniti sono paragonabili a quelle del Terzo Mondo. Chomsky parla di crisi degli anni Novanta: se consideriamo come parametro economico il PIL, allora dobbiamo ammettere che in quegli anni l’economia statunitense era in crescita. Ma ci sono altri parametri di cui le agenzie statistiche non tengono conto: la mortalità infantile, il costo del lavoro, l’abuso e la violenza sui minori; l’ultima analisi di questo tipo fu fatta
negli USA nel 1930.  Dichiara il filosofo in un’intervista del 2000:

…gli Stati Uniti non sono così prosperi come si vorrebbe far credere, anzi attraversano una vera e propria recessione. Basta guardare agli indici relativi alla mortalità infantile e alla povertà dei bambini al di sotto dei cinque anni: c’è da vergognarsi. Non si possono dimenticare poi i due milioni di cittadini in carcere – di cui il 90% afroamericani e latini -, o i 44 milioni di americani privi oggi di assistenza sanitaria – nel 1996 ne erano privi 38 milioni. Dal 1975, il prodotto nazionale lordo ha continuato a crescere, ma contemporaneamente c’è stato un collasso totale delle infrastrutture del sistema sociale. E qui la discesa continua.

L’imperialismo militarista si fonda su un apparato ideologico e repressivo che ha come scopo quello di  legittimare il modello di ingiustizia attraverso la manipolazione mediatica e l’imposizione con la forza di politiche che altrimenti sarebbero tollerate con molta difficoltà da parte dell’opinione pubblica. La propaganda americana crea dei mostri, dei nemici, dei capri espiatori. In questo modo gli Stati Uniti assumono il ruolo dei “buoni”, dei protettori dei diritti umani, dei custodi della democrazia, e allo stesso tempo immobilizzano l’opinione pubblica nella paura del mostro, del nemico, impedendo il sorgere di movimenti di protesta.
Dalla paura al “terrore”, dal “terrore” al “terrorismo”: una parola che Chomsky non esita a definire “inventata”. I governi americani hanno inventato la parola terrorismo per legittimare la propria politica di potenza: terroristi sono i cubani, terrorista è Saddam nel momento in cui attua politiche che non sono gradite agli USA. Perché Saddam è un terrorista se colpisce alleati degli Stati Uniti e non è un terrorista nel momento in cui non lede gli interessi americani con le sue atrocità?
Terrorismo, fondamentalismo islamico, esportazione della democrazia, tutela dei diritti umani sono concetti che l’ideologia americana utilizza per rendere tollerabile all’opinione pubblica il suo imperialismo militarista, alternando la persuasione, l’insistenza sui valori e sull’identità occidentale, al terrore e alla paura. Chomsky non parla di una strategia del terrore, ma sicuramente siamo di fronte ad una strategia mediatica del terrore.
Terrore che non esita a riversarsi anche sulla politica interna: la discriminazione razziale, l’individuazione di capri espiatori è fondamentale per abbattere ogni diversità, all’interno e all’esterno del confine statunitense. Nel terrore della criminalità, del narcotraffico, che l’apparato ideologico fomenta quotidianamente attraverso l’informazione, risiede la legittimazione di una politica repressiva nei confronti di alcune etnie, come quella africana e latina. Al momento dell’elezione di Clinton, e poi di Bush, una grossa fetta di questa popolazione sarà in carcere, sarà privata del diritto di voto. Questo, dichiara Chomsky, è forse più scandaloso della vergognosa vicenda delle schede elettorali di molti afroamericani annullate durante le elezioni di Bush figlio.

Terrorismo e fondamentalismo sono sicuramente i concetti più attuali, utilizzati dalla propaganda di tutti i governi occidentali. Chomsky ci spiega in maniera molto chiara che il problema non è certo il fondamentalismo islamico, dato che uno degli alleati dell’Occidente contro suddetto fondamentalismo è l’Arabia Saudita, un paese fondamentalista. Il problema è l’indipendenza dei popoli dal modello americano, che è il modello del Capitale, è l’indipendenza, la “devianza” di alcuni gruppi etnici e sociali rispetto al prototipo dell’uomo bianco consumatore e lavoratore. Per abbattere ogni differenza, che costituisce un pericolo per la stabilità del sistema, fondato sull’omologazione, sull’abbattimento di ogni forma di individualità e specificità, il potere utilizza ogni mezzo possibile. Con le bombe e col “Drive In” si è uccisa ogni alternativa. Chomsky ci mette in guardia. Il suo impegno costituisce un esempio di lotta ma soprattutto di esercizio del pensiero critico e libero.

In altre interviste Chomsky ha dichiarato che l’esercizio di un pensiero critico richiede semplicemente un po’ di apertura mentale e una buona dose di scetticismo. Non richiede particolari competenze, né preparazione politica o filosofica. Il trucco sta nel cogliere argutamente le discrepanze tra la narrazione ideologica e i fatti così come sono. L’intento del filosofo è quello di criticare l’intelligencija che si arroga il monopolio delle interpretazioni degli eventi politici e dei fenomeni sociali, mettendo queste interpretazioni al servizio di interessi particolari.
Su questo punto non si può che essere d’accordo con Chomsky. Tuttavia, bisogna tener conto della complessità del sistema mediatico d’informazione e di propaganda delle società occidentali. È un sistema pluralistico, articolato in modo complesso, in cui è davvero difficile stabilire quali siano i fatti ed elaborare un giudizio sulla base di dati oggettivi. È possibile elaborare un giudizio critico sulla base dei dati di cui siamo forniti, essendo questi narrati sempre sulla base di un interesse particolare?
A mio avviso, l’esercizio delle proprie facoltà critiche non richiede particolare erudizione, e su questo sono pienamente d’accordo con Chomsky. Ma ritengo che la critica sia frutto di una scelta politica precisa, che ci spinge a non accontentarci delle informazioni che impacchettano appositamente per noi poveri uomini-massa, che ci invita a dubitare, e dunque a cercare, e forse, a comprendere. Una scelta che precede l’analisi dei fatti. Una scelta che lo stesso Noam Chomsky ha compiuto.


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