E
c’era lì a pascolare pel monte un gran branco di porci; e lo scongiurarono a
permetter loro di entrare in quelli. Ed egli permise. Allora i demoni, usciti
da quell’uomo, entrarono nei porci e con grande impeto la mandria si precipitò
nel lago e ivi affogò. Appena videro quanto era accaduto, i mandriani fuggirono
a portare la notizia in città e per le campagne. E la gente uscì a vedere
l’accaduto, e, venuti a Gesù, trovarono l’uomo, dal quale erano usciti i
demoni, seduto ai piedi di Gesù, rivestito, in sé, e s’impaurirono. E quelli
che avevano vista la cosa, raccontarono anche loro come l’ossesso era stato
liberato.
VANGELO DI SAN LUCA, Cap. VIII, 32-37
La citazione
che costituisce l’incipit del romanzo racchiude ermeticamente il senso
dell’intera vicenda narrata da Dostoevskij, ispirata ai movimenti anarchici
russi di metà Ottocento e, in particolare, all’anarchismo di Nečaev.
La vicenda
si svolge in una provincia russa nella quale una “cinquina” di anarchici,
capeggiata da Piotr Stepanovic Verchovenski si insinua, dapprima pacificamente,
nella politica della comunità, accattivandosi il ceto dirigente, in particolare
la moglie del governatore, Elizaveta Prokofevna, con un piano machiavellico
scrupolosamente architettato: sabotare le iniziative politiche e sociali della
classe dominante, insidiare i rapporti personali tra i membri del ceto
dirigente, con l’intento di creare scompiglio, disorientamento. Fare abbassare
la guardia ai custodi dell’ordine pubblico, in modo da creare situazioni di
disordine violento e porre le condizioni per un abbattimento totale delle
istituzioni del potere. Il tono del narratore segue un drammatico crescendo: la
sedizione strisciante, nascosta, mascherata, rete che si avvinghia attorno ai
protagonisti della vicenda, fino a stringerli in una morsa che non risparmierà
nessuno, né le vittime, né i carnefici, distinzione che nella narrazione si fa
sempre più sottile; e poi l’esplosione finale, l’incendio della provincia,
culmine catartico di un piano che sembra non avere né autori né responsabili,
in cui l’orrore e la violenza si distribuiscono ambiguamente tra i protagonisti
della vicenda.
Tralascerò in questa sede l’esposizione più dettagliata delle
vicende che intessono la trama del racconto, e mio malgrado, dovrò anche
tralasciare una descrizione dettagliata della psicologia dei singoli
personaggi, che pure meriterebbe una profonda riflessione. Ciò su cui intendo
soffermarmi principalmente è il percorso dell’Idea, a mio avviso autentica
protagonista del romanzo: dapprima parla con voce flebile alla coscienza umana,
una voce talmente debole che richiede concentrazione e attenzione per poter
essere udita, che va isolata da tutte le altri voci della coscienza. L’Idea si
insinua gradualmente, dolce e inarrestabile, come un tarlo che comincia a
scavare un tunnel profondo nei nostri pensieri, creando labirinti che conducono
sempre allo stesso punto, all’Idea. Ogni concetto dalla mente elaborato, ogni
dubbio, ogni domanda costituiscono per l’Idea il nutrimento che le permette di crescere, una
sorta di massa tumorale che occupa e divora tutta quanta la materia cerebrale. È
il momento della possessione demoniaca: l’Idea vuole uscire da sé, diventare
azione, realtà. E allora ci ordina di agire in suo nome: l’Idea guida tutte le
nostre azioni, è fonte assoluta di legittimazione della nostra condotta morale.
In nome dell’Idea si può ingannare, tradire, raggirare l’altro. Solo in nome
dell’Idea si può uccidere. Il nesso istituito da Dostoevskij tra un’idea che
agisce ossessivamente nel suo portatore e il delitto che il soggetto si ritiene
legittimato a compiere, è un motivo ricorrente nella narrazione dell’autore:
penso a Delitto e castigo, in cui il
protagonista vive un tormento che lo affligge sia prima di uccidere la vecchia
usuraia, sia dopo. Il protagonista teorizza che il delitto sia legittimo nel
caso in cui si voglia combattere un’ingiustizia, e in nome di questa idea che
si impossessa di lui in maniera sempre più prepotente, egli uccide, salvo poi
espiare con la malattia, con la sofferenza inconsolabile la sua colpa. Fino
alla catarsi, quando “alla dialettica si sostituisce l’amore”. Penso ai Fratelli Karamazov: Ivan Karamazov
teorizza che “se Dio non esiste, tutto è concesso”. L’Idea che diventa realtà
morale e intellettuale in Ivan, diventa realtà fisica in Smerdiakov, che
ammazzerà il loro spregevole padre. Questa dimensione del “demoniaco” è una
costante nei romanzi di Dostoevskij, ed è forse il punto focale in cui
convergono le varie prospettive dalle quali l’autore guarda alla natura umana.
Ma la particolarità de I demonî sta
nella natura collettiva dell’ossessione: dal singolo, la possessione demoniaca
si trasferisce ai “porci”, coinvolge una collettività.
Se non ho
ancora precisato di quale idea si tratti non è per dimenticanza, ma perché ritengo che la natura dell’idea non
sia fondamentale nella descrizione di un’ossessione o di una possessione
demoniaca. Si è ossessionati, si è “posseduti” nel momento in cui un’unica e
sola idea diventa l’unica fonte del nostro agire, permea in tutti i molteplici
e contraddittori aspetti della nostra psiche, abbatte ogni luogo di resistenza.
Anche un’idea come quella di Ivan Karamazov, che sembra rimandare ad un
relativismo che molti definirebbero spregevole e moralmente deprecabile, è
un’idea che ha tutti i caratteri dell’assolutezza: Ivan uccide idealmente suo
padre non perché è un relativista, ma proprio in nome dell’assolutezza
imperativa della sua idea. È come se Dostoevskij ci dicesse che il mondo delle
idee non è in alcun modo conciliabile con la storia e, nel momento in cui si
cerca di far diventare realtà quell’Idea, l’individuo (o la collettività) si
ritrova stretto in una morsa, in una contraddizione che è impossibile sanare:
se si vuole realizzare un’idea nella sua purezza, così come essa è nella nostra
mente, si dovrà ammazzare, annientare quella realtà a cui l’idea dovrebbe dar
forma. L’idea sarà sempre in qualche modo tradita: nel momento in cui diventa
“fatto”, l’idea perde la sua assolutezza, la sua purezza e perfezione, per
divenire qualcosa di misero e aberrante. E il portatore dell’idea, che vede
tutto ciò in cui ha creduto sporcato e umiliato, non può far altro che pentirsi
ed espiare la sua colpa. Colui che invece vuole salvare la purezza dell’Idea ha
un solo modo per metterla in pratica: il suicidio.
L’idea
demoniaca dei maiali del romanzo è la Rivoluzione. Il rovesciamento totale e
sistematico delle istituzioni del potere, l’abbattimento della differenza di
classe, la libertà assoluta dell’uomo. Il piano di Piotr Stepanovic, uno dei
capi di un’organizzazione anarchica operante (a suo dire) in tutta la Russia,
organizzata in piccoli gruppi da cinque, è semplice e geniale: entrare nelle
grazie della moglie del governatore, dalle idee moderatamente liberali, e
sabotare la sua grande festa di beneficenza organizzata per le governanti
indigenti, con letture di intellettuali di spicco e gran ballo finale. La festa
è preceduta da uno sciopero di operai, succeduta da un incendio e sabotata da
ubriaconi e personaggi di dubbia reputazione che si intrufolano nella festa
creando scompiglio. In vista del suo progetto, Piotr Stepanovic ricorre a tutti
gli inganni e le prepotenze di cui è capace, esercita una tirannia sui suoi
compagni tale da spingerli ad assassinare un loro ex compagno, Sciatov, con
l’accusa, assai poco fondata, che egli avrebbe prima o poi denunciato. Piotr
Stepanovic è meschino, infido, vile, disposto a rovesciare “l’assoluta libertà
in assoluta schiavitù”, come ebbe a dire un suo compagno di lotta. L’aspetto
forse più interessante di questo personaggio è che, pur essendo l’artefice di
tutto il piano, l’intelligente demiurgo che imprime l’idea nella materia,
sembra essere il meno “indemoniato”. La sua spregevole condotta sembra più
legata a ragioni personali, soggettive (il suo rapporto con il padre, che
reputa indegno e vile, la sua antipatia personale per Sciatov, verso cui nutre
vecchi rancori che nulla hanno a che fare con la rivoluzione): Piotr non è uno
di quei porci che si getterà nel lago, ma fuggirà con destrezza una volta
portato a termine il suo progetto.
I veri
posseduti si ammazzeranno: Kirillov e Nikolai Stavroghin. Il primo per
affermare la sua assoluta libertà: il suicidio è l’esito nichilistico di una
scelta razionale, senza alcuna motivazione estranea alla propria libertà. Così
Kirillov motiva il suo suicidio, annunciato come proposito sin dall’inizio del
romanzo:
La vita è dolore, la vita è paura, e l’uomo è infelice.
Ora tutto è dolore e paura: l’uomo ama la vita perché ama il dolore e la paura.
Lo hanno fatto così. La vita viene concessa a prezzo di dolore e paura, e qui
sta tutto l’inganno. Ora l’uomo non è ancora quell’uomo che dovrà essere. Vi
sarà l’uomo nuovo, felice e superbo. Quello al quale sarà indifferente vivere,
quello sarà l’uomo nuovo! Chi vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio. E
l’altro Dio non vi sarà più.
La
descrizione dello stato d’animo di Stavroghin nel momento in cui decide di
impiccarsi, è decisamente diversa. Il narratore descrive il tormento che
trapela dalla lettera scritta da Stavroghin prima di morire:
Questo documento, secondo me, è opera di un uomo in
istato morboso, dettata dal demone che si era impadronito di lui. Pare il
dimenarsi di un malato che soffra di un dolore acuto, e si agiti nel letto col
desiderio di trovare una positura che gli allevii almeno per un attimo lo
spasimo. Colui, naturalmente, ha altro per la testa che la bellezza o la
ragionevolezza della posizione. L’idea fondamentale del documento è la
terribile, non simulata esigenza del castigo, l’esigenza della croce, del
pubblico supplizio. E tuttavia questa esigenza della croce si fa sentire in un
uomo che non crede nella croce, e già questo solo costituisce un’ “idea”, come
disse un giorno Stepan Trofimovic, del resto, a un altro proposito. Tutto il documento
è nello stesso tempo qualcosa di tempestoso e disperato, sebbene scritto,
evidentemente, con un altro scopo.
L’idea che
si impossessa di entrambi questi porci è quella del nichilismo, della
distruzione totale liberatrice, che si declina in due prassi differenti,
entrambe autodistruttive: quella suicida di Kirillov, razionale e filosofica, e
quella dissoluta di Stavroghin, che con la sua condotta immorale vuole
distruggere i dogmi del suo tempo, primo fra tutti il buon senso e la
morigeratezza. Entrambi realizzano e allo stesso tempo tradiscono e mortificano
il loro nichilismo, e allora la morte, come unico mezzo di liberazione dalla
contraddizione.
Le passioni,
le ossessioni che tormentano i personaggi di questo romanzo culminano in un
grande incendio, nella distruzione totale di sé, degli altri. Poi il nulla, la
cui dolce e pesante quiete graverà sulle future generazioni. La tragedia
appassionata del cammino dell’Idea distrugge tutto ciò che incontra lungo la
via, fino alla sua stessa dissoluzione.
Thank you
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