Irène Némirovsy si sentiva portatrice di almeno tre
peccati originali, tre tare capaci di contaminarla e di farla apparire odiosa
ai propri stessi occhi: era ebrea, era borghese
ed era donna.
Tre categorie dalle quali la scrittrice, nata a
Kiev nel 1903 e subito condannata ad una vita di esili e sradicamenti che la
porteranno a Parigi (dove pure non si sentirà davvero a casa), tenta invano di
emanciparsi. Il suo disprezzo per il popolo ebraico risulta ad un lettore di
oggi come minimo scandaloso e riprovevole, eppure non si devono dimenticare due
fattori. Innanzitutto, la Némirovsky descriveva gli ebrei come dei viscidi
omuncoli attaccati al denaro, usurai e taccagni fino al ridicolo: era la
caricatura (sebbene offensiva) di un popolo, non certo un’istigazione alla
violenza antisemita. In secondo luogo, e cosa ancora più
importante, quella
della Némirovsky non era semplice avversione per un popolo estraneo, ma era dissociazione: la scrittrice era ebrea. Non era osservante e in
seguito si converte al cattolicesimo e sposa un cattolico, ma nondimeno era
nata ebrea e conosceva il mondo ebraico dall’interno. Avversarlo equivaleva ad
avversare una parte di sé, forse quella parte che Némirovsky vedeva
rispecchiata dal proprio padre, che pure amava, ma che era troppo assente e
lontano perché dedito con più attenzione agli affari e al denaro (era un
banchiere) che alla famiglia. Infine, come per contrappasso, sarà proprio
l’essere ebrea di Irène Nemirovsky a siglarne la morte: nel 1942, ad appena
trentanove anni, la scrittrice muore ad Auschwitz.
Mentre il rigetto verso la propria origine ebraica
appare come una semplice antipatia della scrittrice, in Némirovsky cogliamo
un’altra avversione, coltivata e sviluppata fino ad essere una critica
tagliente: quella contro la classe borghese. Dopo aver vissuto la primissima
infanzia a San Pietroburgo, Irène è costretta dalla Rivoluzione d’Ottobre alla
fuga prima in Finlandia, poi a Stoccolma e solo nel luglio 1919 in Francia.
Motivo della fuga della famiglia dalla Russia fu certo l’appartenenza alla
classe borghese, che offrì alla giovanissima Irène dei privilegi ma seppe anche
disgustarla. A Parigi, nell’ambiente in cui la scrittrice cercò e credette di
sentirsi a casa, si confrontò con altri borghesi suoi pari e con quella sottocategoria
particolarmente pacchiana e gretta, quella dei parvenu o arricchiti. Il quadro d’insieme di questa classe sociale
offerto dalla Némirovsky è desolante fino alla commedia: gente soggetta in
maniera meccanica, quasi disumanamente, alla legge del più forte; attaccata
come ad un Vangelo al motto hobbesiano per cui l’uomo è un lupo per il suo
simile; disposta a sopraffare e ingannare, mercificare ogni cosa, speculare e
ostentare la propria ricchezza, il proprio gusto, la propria superiorità. Gente
piccola e gretta, per cui la facciata è più importante di ogni altra cosa.
Rosine nel racconto Il ballo incarna
perfettamente questa tipologia umana: privatamente da del tu al marito e si
comporta come faceva prima di arricchirsi, ma in presenza dei domestici dà al
marito del lei, si dà dei modi aristocratici e si indigna se il marito ardisce
addirittura di restare in maniche di camicia.
Infine, quello che si configura come un autentico
trauma esistenziale nella Némirovsky è il suo odio per il genere femminile o
almeno per alcune sue esponenti. Non era una misogina o una maschilista, e in
ogni caso il contrappasso arrivò puntuale anche in questo settore, regalandole
due figlie femmine. Eppure, nelle diverse opere della scrittrice ucraina (o
meglio francese) vediamo emergere un tema ricorrente: quello della
madre-matrigna che odia la figlia perché vede in essa una propria copia più
giovane e attraente, che vessa la giovinetta e le tarpa le ali perché la
invidia e la teme come rivale in amore. E, inscindibile da questo ruolo odioso
e ad esso complementare, ritroviamo costantemente quello della figlia: la
ragazzina (come la Antoinette de Il ballo)
patisce per l’atteggiamento della madre fino alle lacrime, fino a desiderare la
propria morte, fino ad augurarla a lei, e infine fino a procacciarsi una
vendetta. In Némirovsky, la figlia è sempre una Elettra vendicatrice, che non
si fa scrupoli di schiacciare e annichilire la genitrice per vendicare il male
da essa ricevuto, che senza pietà si prepara a rimpiazzare la madre, a
succederle nel suo ruolo, a godere il trionfo dell’avvicendarsi delle
generazioni. Naturalmente, l’origine di questo acre sentimento si annida nel
vissuto tragico di Némirovsky, che subì la propria madre come una nemica
tirannica e distaccata, capace solo di disamore e vanità, e perfettamente
sovrapponibile a quella donnetta alto borghese interessata solo al benessere,
affatto umiliata dall’essere mantenuta negli agi dal ricco marito, pronta senza
alcuna remora a cercare un amante più giovane e aitante.
Irène con l'altra figlioletta, Denise |
Eppure, a volte la storia è capace di riconciliare
le fratture con una grazia poetica e insieme geometrica: Irène Némirovsky si è
fatta portatrice di un modello di rapporto madre-figlia incentrato sul
tentativo reciproco di sopraffazione e annullamento; è morta giovane, lasciando
due figlie bambine; la minore, Élisabeth Gille, che la conobbe e ricordava
appena (aveva cinque anni quando la scrittrice fu deportata), studiò tutti i
suoi diari, i suoi appunti, le sue bozze, i suoi taccuini di lavoro per farsene
un quadro preciso. E poi, con tutte queste informazioni, scrisse (nel 1992) Mirador, una biografia di Irène
Némirovsky, in prima persona. Gille
ha spezzato la catena di rivalità tra madri e figlie, non ha annichilito la
propria madre secondo la dinamica a cui Némirovsky credeva non si potesse
sfuggire, ma al contrario ha contribuito alla sua memoria e lo ha fatto
scrivendo intimamente di lei, come fosse lei, sovrapponendosi a lei in una
riconciliazione, in una pacificazione che ha davvero del poetico.
Il ballo è un racconto spietato e gustoso. Protagonisti sono
i Kampf, famiglia di parvenu che cerca di fare il proprio ingresso trionfale
nell’alta società dando una serata danzante. Alla quattordicenne Antoinette
manca ancora un anno per il proprio debutto in società, eppure già brama
ardentemente la vita adulta. Vive con un senso di oppressione e lacerazione i
sentimenti più propriamente adolescenziali: volontà di autoaffermazione,
insofferenza per le maniere repressive dei genitori, desiderio di sbocciare
come donna adulta e desiderabile.
Centrale è, ovviamente, l’odio viscerale per la
madre frivola e capricciosa, capace solo di vessare la ragazzina, deriderla,
allontanarla.
«Poteva
piangere o ridere sotto i loro occhi, non si sarebbero degnati di vedere
niente… Una figlia di quattordici anni, una ragazzina, qualcosa di spregevole e
basso come un cane… Con quale diritto la mandavano a dormire, la punivano, la
insultavano?»
Quando Rosine Kampf decide di dare un ballo,
Antoinette vede in esso la possibilità di crescere, «spiccare il volo», mostrarsi pubblicamente per la donna adulta che
aspira ad essere, servendosi di una serata mondana che pure tanto
significherebbe per lei.
«E che lei
dovesse coricarsi proprio quella sera, come tutte le altre, alle nove come un
bambino… Forse alcuni uomini sapendo che i Kampf avevano una figlia avrebbero
domandato dov’era; e sua madre avrebbe risposto con la sua solita risatina
odiosa: “Oh, è tanto che dorme…”. Eppure cosa le costava che anche Antoinette
avesse la sua parte di felicità su questa terra?... Ah, Dio mio, ballare una
volta, una sola volta, con un bel vestito, come una vera signorina, stretta tra
le braccia di un uomo…»
Antoinette esprime il desiderio di partecipare al
ballo, ma sua madre preferisce ridicolizzarla, negarle il permesso deridendone
la sfacciataggine, ammettendo infine di non volere tra i piedi una ragazza in
età da marito proprio quella sera, il cui fine è fare brillare lei, Rosine,
suscitando invidia nelle invitate e ammirazione negli uomini. Naturalmente, la
nemesi di Némirovsky è in agguato: Antoinette non rimarrà vittima passiva
dell’ennesimo sopruso, ma saprà trarsi fuori dall’adolescenza con uno scatto
imperioso e spietato della volontà, saprà prendersi la sua vendetta.
Il ballo è una lettura che scivola giù, grazie allo stile
leggero e frizzante (sostenuto anche da una traduzione molto agile e moderna…
Non ho parole per esprimere quanto mi sia piaciuta l’espressione «tirare il
bidone»!). La trama è semplicissima, gracile se vogliamo, ma perfettamente
riuscita e geometrica, fino al finale lucido e spietato. Il racconto è un
perfetto archetipo delle dinamiche ricorrenti in Irène Némirovsky ed esemplare
dello spirito che anima le sue opere; per quanto breve e leggero, è illuminante
e soddisfacente.
Una lettura che consiglio davvero, soprattutto
corredata dalla ricca e interessante prefazione di Maria Nadotti, presente
nell’edizione super-economica della Newton
Compton.
Questa autrice mi era del tutto sconosciuta ora mi avete fatto venir voglia di conoscerla meglio.
RispondiEliminaUn abbraccio :)
Te la consiglio! Io l'ho conosciuta da pochissimo, e devo ringraziare la Newton Compton, casa editrice discutibile, ma che ha avuto la grandiosa e superdemocratica idea di mettere alcuni grandi titoli (tra cui questo) a 0,99 centesimi... Non potevo perdere l'occasione ;) E poi si legge in un pomeriggio, è sulle 120 pagine...
RispondiElimina