Questo post non vuole essere una
recensione, ma una “presentazione on-line” del romanzo della nostra amica,
collega e compagna Alessia Franco, pubblicato recentemente dalla casa editrice
indipendente Eretica Edizioni. Recensire
questo libro avrebbe significato “valutarlo”, dare un giudizio che dubito
sarebbe stato oggettivo. Tuttavia, penso non sia affatto sconveniente
utilizzare questo nostro spazio per promuovere l’attività di una giovane
scrittrice emergente che, come tutti gli emergenti, fa fatica a trovare una
collocazione nel mondo editoriale, egemonizzato da criteri economici e
consumistici, che vede l’arte meramente come merce. L’autopromozione è l’unica
possibilità per i giovani scrittori di farsi conoscere, e in quanto blog letterario,
riteniamo doveroso far conoscere questo libro ai nostri lettori, che
qualitativamente supera di gran lunga il livello di tanta merda che troviamo
sugli scaffali delle librerie. Fatta questa premessa, mi accingo a mostrare
quelli che, a mio avviso, sono i punti essenziali del romanzo di Alessia
Franco, un romanzo che cerca di parlare della condizione in cui versano i
ventenni del Duemila dall’interno, senza retorica o luoghi comuni.
Maschere.
Le maschere ammorbano i miei
occhi, offuscano le mie pupille. Si frappongo fra me e lo sfondo. Mi stancano.
Scivolo tra esse, furtivo. Cerco
di non farmi notare. Mi sento minacciato.
Sono mascheroni bianchi,
inespressivi. La morte del volto.
Sguscio fra loro, alla ricerca di un
vero volto, un volto che sia vero. Non il mio, non posso guardare il mio stesso
volto. Me ne serve un altro, quello di un altro stronzo come me, che giri in
questa turba spettrale a volto scoperto. Una faccia pallida o rubizza o
olivastra, quello che sia, purché una macchia di colore vitale in questo bianco
sporco, in questo affastellarsi di facce-senza-faccia.
Il romanzo racconta diverse
storie di studenti universitari alle prese con i problemi, le difficoltà, le
gioie e i dolori che caratterizzano la vita quotidiana dei ragazzi della nostra
epoca. Storie diverse tra loro, ma che si intrecciano in un filo conduttore che
definirei “senso di vuoto”, vertigine, assenza. La vita quotidiana di questi
ragazzi oscilla tra i due poli dell’assenza di significato e della disperata e
speranzosa ricerca di un significato, di un qualcosa.
Nelle loro diverse esperienze, il rimpianto e il rimorso si intrecciano: da
un lato si rimpiange un tempo futuro che si considera già irrimediabilmente
perduto, e dall’altro i protagonisti di questa storia sono attanagliati da un
profondo senso di colpa, accusano se stessi di incapacità, di non aver saputo cogliere
quel futuro che viene loro negato.
Il fumo
si alza
dalla mia carne
putrida,
gravido di
moscerini.
Sfoglio ogni
pagina della vita,
questo
capitolo è solo una sfilata di parole,
lo strascico
sfilacciato di un passato
colori
accesi.
Anticipo il
finale
- o almeno
ci provo -
ma vedo solo
pagine bianche.
Pagine bianche fino alla fine
del libro,
decine di
pagine bianche.
Non intonse,
non fogli
nuovi
che
aspettano di essere scritti,
ancora
conservati nella risma.
Fogli
bianchi ma già vecchi,
già rilegati
col resto del libro,
con le
pagine già scritte.
Fogli vuoti
su cui non
si può scrivere più niente
- o forse
quel lucore che ferisce gli occhi,
quel pallore
mortale della pagina
è già una
scritta, è tutto quello che ci si può aspettare -
e che stanno
là.
Tutto ciò
che ho,
tutto ciò
che si può leggere se provo a saltare le pagine.
Il vuoto.
Leggevo
l’incipit,
da bambino,
e da ragazzo
sognavo col protagonista,
aspettavo il
suo avvenire.
Sto leggendo
- scrivendo
-
un capitolo
confuso,
intricato di
parole futili e chiassose.
Manca poco
al vuoto di quelle pagine
bianche come
un sudario,
il finale trafugato di una storia.
Ogni protagonista vive questa
contraddittoria polarità in modo diverso. Contraddizione nella quale ogni
ragazzo, o quasi ognuno di noi, può sentirsi stretto, come in una morsa: da un
lato il diritto allo studio, il dovere che diventa piacere, che dà senso,
pienezza, consistenza alla vita quotidiana, e dall’altro, la consapevolezza che
tutto questo ti sarà sottratto. La consapevolezza di un condannato a morte che
questo senso svanirà nel momento in cui il Presidente della commissione di
laurea ci proclamerà “Dottori in aria fritta”: il dopo è un mondo caotico,
anarchico, in cui c’è solo spietata e sleale concorrenza, in cui si è soli e
sperduti, in cui tutto ciò che nel piccolo e accogliente mondo universitario
era di fondamentale importanza, non ha alcun senso, è considerato superfluo,
improduttivo, inadeguato.
I ragazzi descritti da Alessia
Franco, vivono questo passaggio come una spada di Damocle sulle loro teste,
sentono già in anticipo che saranno gettati, che saranno inutili. Questo senso
di vuoto e inutilità si declina nelle diverse vicende dei protagonisti: Alyssa
è una ragazza alle prese con seri problemi economici. Studia, lavora, ingolla
continuamente “caffè di caffè”, l’elisir miracoloso che la tiene sveglia,
permettendole di conciliare tutti i suoi impegni. Vive un rapporto conflittuale
con sua madre, a cui non fa sapere nulla dei suoi sacrifici: Alyssa è
ossessionata dall’idea di dover essere sempre eccellente, ineccepibile di
fronte ai suoi genitori, perché è nata per caso, per errore. Trematerra è un
ragazzo che ha abbandonato gli studi per lavorare in fabbrica.
Dopo un periodo di frustrazioni e fatica, perde il lavoro, ritrovandosi a dover
ricominciare tutto daccapo. Tutto ciò che gli resta è il suo sogno di partire,
andare il più lontano possibile dall’Italia. Maria è una ragazza insicura,
bloccata dalla sua timidezza, incapace di agire. Cerca di lavorare in un call center, ma
alla prima telefonata la voce resta
bloccata nella gola. È soffocata dalle sue paure, asfissiata dal senso
ineluttabile e doloroso della sua mediocrità. È innamorata di un ragazzo,
Cantatore, ma non riesce neanche a porgergli un saluto: si rifugia nella
lettura, unico luogo in cui lei si senta sicura e a suo agio, per il semplice
fatto che lei non c’è, che nessuno lì può vederla. E poi c’è Cantatore, il
narratore, il poeta della nostra storia. È Cantatore che ci proietta
nell’interiorità di una generazione profondamente scossa dalla crisi economica,
dal crollo definitivo di tutti i paradigmi politici e culturali, dalla perdita
di punti di riferimento: le sue poesie, le sue riflessioni, costituiscono i
passaggi del romanzo in cui si abbandona la narrazione per scavare nelle
profondità di questa condizione, che è banale definire “disagio giovanile”. Non
a caso, a mio avviso, Cantatore soffre di una grave balbuzie: non riesce a
parlare con gli altri, come Maria, è bloccato da un impedimento fisico e
psicologico allo stesso tempo. Se Maria si rifugia nella lettura, Cantatore si
rifugia nella scrittura: si rifugia nel suo mondo fatto di versi, di immagini,
di concetti e sentimenti. Siede curvo, sempre in disparte, guardando gli altri
da lontano, e il nutrimento che trae dall’umanità diventa poesia, ispirazione.
Vivo uno strano disagio.
Mi tallona. Mi rifugio nei sogni,
nelle pagine che da bianche diventano fitte di lettere, gravide di pensieri,
stillanti parole vibranti. Ma quando si rompe la comunione con la tastiera o
con la penna, quando mi sveglio e mi ritrovo solo, il disagio affonda le unghie
nel mio braccio. Mi costringe a guardarlo in faccia.
Che farai dopo?
Dopo cosa? Dopo aver finito questo
paragrafo? Dopo aver scritto la nuova poesia? Dopo aver cenato? Dopo cosa?
Maria e Cantatore sono due
personaggi simili, vicini, le loro personalità si intrecciano e si compensano:
entrambi isolati, incapaci di stare al mondo, esseri troppo delicati e
sensibili, finiscono con l’incontrarsi, con l’innamorarsi. L’amore di Maria e
Cantatore è un amore che nasce con un semplice sguardo: lo sguardo dell’avida
lettrice che cerca uno scrittore nel quale rifugiarsi, e lo scrittore, che ha
bisogno di qualcuno che posi lo sguardo su di lui, che lo legga. La lettrice e
lo scrittore sono due metà che si cercano disperatamente. Nel momento in cui si
incontrano, in quel muro spesso e opaco di solitudine e insensatezza si apre
una crepa, irrompe la speranza del domani.
Non so cosa
sarà della mia vita. Forse finirò a mendicare sotto un portico, ultimo tra gli
invisibili, oppure mi ridurrò a morire solo come un cane in preda al delirium
tremens. Forse concluderò qualcosa di buono.
Una cosa è
certa: quando rivedrò la ragazza con gli occhiali, la saluterò. Le tenderò la
mano e mi presenterò. E la effe del mio nome non mi spaventerà, e io la
pronuncerò, balbuzie o meno.
Ho trovato
il mio grumo di reale. Mi ci sono issato sopra. Quello che mi strangolava non
era un bianco nulla, era solo un mare pallido di nebbia. Da qui si vedono delle
cime affioranti al di sopra di esso.
Da qui si
vede la speranza.
Ciò che sembra emergere dalle
righe di questo romanzo è che non c’è via d’uscita dall’insensatezza, se non il
rabbioso rifiuto di una vita inautentica e l’ostinata ricerca di qualcosa che
dia senso: di un volto, di un amore, di un amico. Il movimento incontrollabile
che prepotente ci spinge verso gli altri è l’unica forza per rompere il muro
della solitudine. Muro invisibile quanto spesso, eretto da una società in cui
vige l’individualismo e la competitività. Oltre ad essere uno spaccato della
nostra epoca, questo romanzo costituisce, a mio avviso, un inno all’amicizia,
all’amore, alla solidarietà.
Se siete interessati all’acquisto
del libro, allego il link dal quale è possibile effettuare l'ordine. Sempre
per ragioni di autopromozione! Buona lettura…
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