mercoledì 8 giugno 2016

"L'amore è il cuore di tutte le cose": Vladimir Majakovskij e Lili Brik

"L'amore è il cuore di tutte le cose", Neri Pozza Editore, è la raccolta più completa apparsa finora in lingua italiana di lettere, biglietti e telegrammi privati, inviati e ricevuti da Vladimir Majakovskij tra il 1915 e l'anno della morte. Faccio per aggiungerlo al mio scaffale di Anobii e leggo la recensione poco entusiasta (due sole stelline) di un utente:

Ma è necessario - mi chiedo - pubblicare in un libro delle comunissime lettere quotidiane solo perché le ha scritte uno scrittore?

Salto su stizzita e così rispondo, testualmente, alla bell'e meglio:


Necessario no, ma è interessante, utile e bello per diversi motivi. Il primo, e più banale di tutti, prescinde dal fatto che l'autore sia un artista della statura di Majakovskij, e risiede nel mero valore storico e documentario di un epistolario originale e personale. Come si viveva in URSS in quegli anni? Com’erano vissute davvero la questione degli alloggi e altre che riempiono, piene di argomentazioni, i libri di storia come quelli di narrativa di diverso indirizzo e carattere (ne sia un esempio “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov)? Come si muoveva, e con quali tempistiche, la corrispondenza? Com'erano i rapporti tra gli intellettuali, i critici, il governo, l'editoria? Come si lavorava nell’ambito culturale? Un insieme di lettere e biglietti di contenuto quotidiano, scritti per uso esclusivamente privato e quindi scevri da qualsivoglia interesse e da ostentazioni di sorta, non sarà in questo senso di gran lunga più sincero, autentico e dotato di valore storico rispetto a testi stilati appositamente al fine di “denigrare” o “difendere”?
Secondo motivo per cui saluto con gioia la pubblicazione di questa raccolta, analogo al precedente ma fondato sull'importanza della figura storica e artistica di Majakovskij: da questa corrispondenza apprendiamo dei rapporti personali e professionali tra lui e Gor'kij (e li scopriamo tutt’altro che idilliaci), tra lui e Lunačarskij, e ancora degli amici della sua cerchia (oltre agli ovvi Lilja e Osip Brik, Kamenskij, Pasternak, Šklovskij, Jokobson e altri) con questi e tra di loro. Davvero tutto questo non aggiunge nulla alla notizia meramente storica di questa declamazione pubblica tenuta da due o tre di loro al “Cane Randagio” di Pietroburgo o di quell’articolo sul “Novaja žizn’” in cui uno prende le distanze dall’altro? I pettegolezzi (infondati) di Gor’kij sulla presunta sifilide (mai) contratta da Majakovskij davvero non hanno inciso in alcun modo sulla freddezza dei loro rapporti professionali? La condivisione di spazi, idee, progetti e bevute, non ha mai influito su questo o quel progetto all’interno di una redazione, su un incontro del Lef o sull’organizzazione di una mostra o di un evento pubblico?
Infine, terza motivazione, relegata all’ambito squisitamente letterario: questo epistolario così vero contribuisce in modo insostituibile ad edificare quel che Schleiermacher chiama “circolo ermeneutico”. Senza conoscere i particolari della prima notte di nozze di Lilja e Osip Brik, quel «Nel morbido letto/ lui,/ la frutta/ il vino nei palmi del tavolino da notte» del poema “A tutto”, che significato potrebbe avere per noi? I continui riferimenti alla vita quotidiana di cui Majakovskij infarciva le poesie (Lilja allettata con la febbre, il Cucciolo che viveva in casa Brik-Majakovskij, i due mesi di separazione tra Volodja e Lilja a cavallo tra il 1922 e il 1923, le visite che Lilja riceveva in determinati giorni, gli uccellini in gabbia che lui le regalò, gli acquisti di lei durante il soggiorno a Riga) non sarebbero per noi insipidi dettagli privi di un significato poetico, se non conoscessimo i dettagli dei luoghi e dei tempi in cui determinate poesie videro la luce (sui fogli manoscritti, non in tipografia)? Sapere che un determinato poema è stato scritto durante un periodo di amore idilliaco tra Majakovskij e Lilja Brik, o alla fine di un litigio straziante, o nell’apice dell’innamoramento tra il poeta e la Yakovleva?
Una biografia “ufficiale” , un saggio di critica letteraria, una pagina di Wikipedia (!) non potranno mai essere esaurienti circa il vissuto e la personalità di Majakovskij quanto questa finestra spalancata brutalmente sulla sua vita reale, che solo i più intimi ebbero modo di conoscere davvero.

Certo, avrei potuto formulare meglio, ma alla ridicola domanda mi è davvero scattata l'ignoranza (citazione più alta, per nobilitarmi). Il punto è: dopo Cicerone, Abelardo ed Eloisa, John Keats e Funny Brawne, Antonio Gramsci, ci si può davvero chiedere ancora a cosa valga leggere delle lettere?
È noto a tutti come quello epistolare sia un vero e proprio genere letterario, che si tratti di corrispondenze reali o di finzione. Il romanticismo, con la sua esaltazione dell'interiorità e dei conflitti che la agitano, con il suo interesse per la nascita e l'evoluzione delle idee a partire dal vissuto degli autori, ha fatto assurgere la materia epistolare all'olimpo degli scritti "ufficiali", poetici, quasi come ogni lettera potesse farsi manifesto. Non a caso, leggiamo di quegli autori romantici che scrivevano le proprie missive private bellamente al fine di rendere, un giorno, pubblico l'epistolario intero: e perché si potesse seguire di lettera in lettera il percorso poetico, la maturazione stilistica, l'elaborazione del pensiero, e (ultimo ma non per importanza) perché si potesse anche negli scritti privati apprezzare della prosa la bellezza, lo spessore, la profondità della scrittura.
Niente di tutto questo ha luogo nell'epistolario di Majakovskij: le lettere e i telegrammi, come lamenta il deluso utente di Anobii, sono comunissimi messaggi quotidiani, che non lasciano spazio alla condivisione e all'elaborazione teorica, né palesano l'intenzione di farsi, un giorno, materiale di pubblico dominio. Proprio questa carenza rappresenta la forza della raccolta: la sua autenticità, la sua spontaneità, il suo mettere a nudo le tre persone coinvolte, Majakovskij e i due Brik, senza tener conto della loro statura, del loro ruolo, dell'"immagine" che di loro si potrebbe voler costruire. Nella ricca e utilissima (sebbene per certi versi molto discutibile) nota preliminare, Bengt Jangfeldt scrive puntualmente che:

«La corrispondenza tra Majakovskij e Lili [...] non è un esempio di grande arte epistolare. A differenza dei simbolisti, Majakovskij (e gli altri futuristi) non consideravano lo scrivere lettere come un genere letterario particolare, il che non era, tuttavia, il frutto di una "polemica" cosciente con la generazione precedente: le lettere non avevano alcuna funzione nella poetica di Majakovskij (nel senso più ampio della parola) [...]. Egli non ebbe una posizione ben delineata nei confronti delle lettere come genere artistico: semplicemente, per lui questa questione non si poneva [...]. Questo fatto diventa inconscia espressione della tensione dei futuristi verso l'"abbassamento" e la "deestetizzazione" nell'arte.»


Osip e Lilja Brik, Vladimir Majakovskij

Queste, alcune considerazioni sull'utilità del ficcare il naso nelle corrispondenze altrui. Mai come leggendo un epistolario autentico si prende atto della semplice e solidissima verità di María Zambrano: non esiste parola disincarnata. Ogni scrittura, ogni pensiero, ogni ideale è sempre storicamente determinato, radicato in un contesto sociale e storico, in un vissuto fatto di desideri, passioni, sofferenze, paure. Ogni filosofia e letteratura è fatta di carne, di carattere, di esperienza, di vissuto quotidiano, e non potrebbe in nessun modo essere altrimenti. Affiancare la lettura della parola di Majakovskij a quella della sua vita ci restituisce la cifra di questa identificazione immancabile tra arte e vita, tra ideale e materiale, tra struttura e sovrastruttura. Quanto al contenuto di questo ricco epistolario, all'immagine antiretorica di Majakovskij che se ne trae, della sua straordinaria esperienza di "famiglia" insieme ai Brik, alle sue tendenze suicide che fin da giovanissimo fanno spesso capolino, nel privato come nell'arte, al suo amore senza regole e alla sua immensa passione politica... Su tutto questo, che nel suo epistolario si delinea e arricchisce di aneddoti e dettagli, mi dilungherò un'altra volta.

giovedì 2 giugno 2016

Il "Bestiario" metafisico di Julio Cortázar

Il viaggio nei racconti di Cortázar scorre come sotto effetto di peyote: l'amplificazione dei sensi del lettore attraverso la pagina lo porta a non perdersi una briciola del realismo quotidiano che incornicia le follie dello scrittore argentino. Attraversiamo le stanze delle case ora impolverate ora invase da misteriosi occupanti ora abitate da tigri invisibili, percorriamo in omnibus peripli assolati e imbarazzati di una città fitta di passanti curiosi e muti, soggiorniamo in un allevamento di mancuspie e quasi, se siamo un pizzico ipocondriaci, ci sentiamo addosso i primi sintomi di quei disturbi psichici che non esistono ma da cui i personaggi sono affetti.
Il realismo magico, tutto sudamericano, di Cortázar richiama inevitabilmente quello di Borges e di García Márquez, ma si pone su di un binario parallelo e indipendente. In lui vediamo una fusione spettacolare, forse senza pari, di reale e fantastico, e la lega che ne risulta ci fa perdere di vista i confini, ci fa dimenticare il vizio dei lettori adulti ed accademici: l'attaccamento da ragioniere alle parole, alla continuità logica, alle necessità narrative. Cortázar ci guida in un delirio del quale non sente il bisogno di giustificarsi: intuizione metafisica, allucinazione fantastica, caduta a vite nell'abisso psicologico dell'umano ci spalancano davanti visuali enigmatiche e misteriose, belle e angoscianti come quadri di Salvador Dalí e, proprio come delle immagini, assolutamente indipendenti da spiegazioni, commenti, glosse a margine. "Lettera a una signorina a Parigi" può forse dare la cifra di questo "fantastico" tanto duramente conficcato nel reale da non distinguersene.

«Feci il trasloco giovedì scorso, alle cinque del pomeriggio, nella nebbia e nel tedio. Ho chiuso tante valigie in vita mia, ho passato tante ore a fare bagagli che non portavano da nessuna parte, che giovedì fu un giorno pieno di ombre e di cinghie, perché quando vedo le cinghie delle valigie è come se vedessi ombre, elementi di una sferza che mi colpisce indirettamente, nel modo più sottile e più orribile. Comunque, feci le valigie, avvisai la sua cameriera che mi sarei sistemato qui, e salii nell'ascensore. Arrivato fra il primo e il secondo piano sentii che stavo per vomitare un coniglietto. Non gliene avevo mai detto niente, e non per slealtà creda, solo perché come fa uno a mettersi a spiegare alla gente che di tanto in tanto gli viene da vomitare un coniglietto?»

Del perché, del percome, a Cortázar non importa nulla. Si passeggia per Buenos Aires, si rincasa, si entra in ascensore e si vomitano conigli a raffica (nota bene: quasi tutti bianchi). Così, come in un sogno in cui non ci si stupisce di nessun sortilegio, o in una associazione libera di idee, che non conosce nessi logici, spiegazioni, significati altri dall'accostare liberamente ispirazioni, vezzi, suggestioni. I racconti di Cortázar sono libertà e incubo, automatismo psichico ed estrema cura nella composizione, sono inconscio e gusto da antropologo per il dettaglio nell'arredamento, nel gesto, nell'oggettistica, nella descrizione urbana, nell'aspetto. Se la scrittura non fosse così bella e rotonda, così formalmente compiuta con un che di barocco e un che di romantico, a causa dei suoi conigli vomitati in ascensore, dei suoi spettri scorti nel fumo delle sale da ballo, delle reazioni assurde e prive di logica davanti all'apparente occupazione da parte di estranei della propria casa, la si potrebbe quasi definire dada. Dada, almeno quanto a contenuto: almeno di fronte all'assurdo ritagliare ed incollare frammenti pittoreschi e fuori luogo, liberi dai vincoli del razionalismo e del fas est, pieni di fantasia e carattere. Un pizzico antipatici. Assolutamente da non perdere.
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