lunedì 30 settembre 2013

"Mondo piccolo - Don Camillo e il suo gregge" di Giovannino Guareschi




Il mondo della Bassa è bucolico e sanguigno: il Grande Fiume scorre negli argini, serpeggia tra i campi coltivati e i pascoli, portando con sé «incredibili favole vere». Ne sono protagonisti i lavoratori della Bassa, gli abitanti dell'anonimo paesello che nei film sarà ribattezzato Brescello, i Rossi "trinariciuti" e soprattutto Don Camillo. Il pretone di campagna è celeberrimo in Italia e all'estero (Guareschi è l'autore italiano più tradotto), tanto da non abbisognare affatto di presentazione. Sagace fino all'acidità, astuto fino all'inganno, irascibile fino ad essere manesco, è un personaggio così spropositato da apparire del tutto verosimile. Epiche le sue rispostacce, come il suo innocente sventolarsi con una panca quando le provocazioni dei rossi lo fanno accaldare. Accattivante ed indimenticabile, incarnato da uno strepitoso Fernandel, è il giusto ed intramontabile monumento alla memoria di un autore straordinariamente dotato e brillante. La penna di Guareschi è straordinaria, i suoi racconti impareggiabilmente piacevoli, spesso brillanti e spassosi, talvolta commoventi. Quelli di Guareschi furono un ingegno, un talento letterario e una felice ispirazione purtroppo asserviti ad una causa discutibile.
Nei film di Duvivier, Gallone e Comencini (la cui visione, nel mio caso, ha preceduto la lettura dei racconti) Don Camillo risulta generalmente vincitore nelle diatribe ideologiche e politiche che lo contrappongono al sindaco comunista Peppone, ma non mancano compromessi, pareggi, momentanee sconfitte. Soprattutto, le due parti sono sostenute in un modo quasi equilibrato: a trionfare non è una fazione o l'altra, ma sempre e comunque la comune umanità che precede e fonda le ideologie. La profonda umanità dei personaggi è corroborata da una salda amicizia, nata per caso durante la Resistenza, e screzi, dispetti e finanche scazzottate non sono che il grazioso ornamento di un rapporto litigarello ma in fin dei conti armonioso.
Nei racconti la situazione è molto meno equilibrata, arrivando ad essere esplicitamente schierata.
Di fronte ad una provocazione:

«Peppone voleva dire un sacco di cose ma gli si ingolfò il carburatore e si limitò a farsi venire le vene del collo grosse come bastoni

Ci sembra di riconoscere l'adorabile sindaco delle pellicole: uomo volenteroso e impulsivo, con la miccia un po' troppo corta e qualche sbavatura impacciata e timida nel comportamento, tale da suscitare solo tenerezza. Ebbene, il compagno Bottazzi dei racconti devia da questo identikit: non è solo simpaticamente goffo, ma un autentico pusillanime (in uno dei racconti arriva a votare il candidato della DC alle elezioni per il nuovo sindaco, in preda ad un attacco 
di insicurezza; in un altro racconto, intimorito dalla linea del proprio partito e dall'eccessiva disciplina pretesa dai suoi superiori, medita a lungo nella cabina elettorale per poi consegnare la scheda bianca; del resto, è stato Guareschi a coniare in altra sede lo storico slogan "Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no"). I passi indietro e le piccole contraddizioni di Peppone costituiscono nei film delle divertenti gag, paradossali e spensierate; nei racconti, i suoi atteggiamenti contraddittori ed ipocriti sono delle precise armi ideologiche utilizzate da Guareschi per fare apparire i comunisti di Brescello come privi di spina dorsale, opportunisti, disonesti, ottusi, violenti, creduli. Gli uomini di Peppone si comportano come degli autentici delinquenti, arrivando ad intimidazioni e atteggiamenti di tipo marcatamente mafioso (un rosso di un paese vicino con l'aiuto dei suoi uomini e il tacito consenso di Peppone, uccide un rivale in amore etichettandolo genericamente come "nemico del popolo" e ne fa sparire il corpo, seppellendolo nei campi). 

Guareschi impernia la sua narrazione su un tripode dottrinario chiaramente manifesto: anticomunismo, simpatie filomonarchiche (la bandiera con lo stemma sabaudo si presenta nei racconti prima di coprire la sua stessa bara, durante il funerale che sarà disertato dalle autorità) e aderenza abbastanza ortodossa al cattolicesimo. Animato da una volontà quasi catechizzatrice, Guareschi prende talvolta degli sgradevoli scivoloni. Se il Crocifisso dell'altar
Fernandel e Gino Cervi nei panni di
Don Camillo e Peppone
maggiore interloquisce con Don Camillo in continui siparietti dal tono infantile e spesso umoristico, costituendo un elemento vincente e praticamente cult della serie, Guareschi sciupa il risultato, straripando dagli argini molto elastici della finzione letteraria, e approda al luogo comune: nel Mondo Piccolo ci sono miracoli come se piovesse. Un tentativo poco elegante di mostrare la superiorità dell'approccio cattolico rispetto a quello razionale propugnato dai rossi di Peppone (che passano davanti alla chiesa gridando «Medioevo!») conduce ad un'autentica overdose di interventi divini: ogni inezia viene risolta grazie a fenomeni ultraterreni. Si deve spostare una statua pesantissima? Provvede il Signore ad infondere forza sovrannaturale in chi di dovere. Un comunista si impunta per avere il rito funebre civile e fare tirare dritto il carro davanti alla chiesa? No problem, per intercessione divina il motore si guasterà proprio sul sagrato. 
Credo che Guareschi, in questo senso, prenda uno scivolone dal piano della fede (autentica, intima e assolutamente inopinabile) a quello molto più grossolano dell'apparenza, per cui un futile miracolo ad ogni pagina manifesterebbe la potenza divina e ricondurrebbe sulle vie del Signore anche i più scettici miscredenti. Il tutto spolverato da abbondanti "Dio lo vuole". In effetti, si sente un po' di puzza di medioevo.

Quanto all'anticomunismo, Guareschi forse cerca (invano) di "avanzare mascherato" alla maniera cartesiana. Inserisce le sue morali della favola nei racconti, ma purtroppo lo fa in modo spesso grossolano: quelle che forse era sua intenzione rendere delle frecciatine sottilissime e taglienti, in realtà sono prese di posizione esplicite e molto dozzinali.
Parlando della linea filomonarchica e fortemente conservatrice del suo giornale Candido, Guareschi puntualizzò di essere animato da ideali di destra, senza con ciò essere fascista, né del resto antifascista. Questo inutile sbandierare la propria ignavia crolla come un castello di carte nel leggere i suoi racconti.
In particolare, la linea dell'avversione politica (del tutto legittima) si stempera in direzione di un generale disprezzo per la classe operaia in quanto tale, e qui Guareschi a parer mio prende una grave cantonata.
Guareschi in un proprio "autoritratto" sull'argine del Po
Che Guareschi non fosse antifascista, sì, è chiaro come il sole. Ma in uno dei racconti, "L'anello", lo scrittore e giornalista parmense arriva ad esaltare la figura del Podestà del paese, strettamente ammanicato col personaggio di Don Camillo (che perde punti). Niente di incontrovertibilmente "male" in questo, se la posizione rimanesse quella delle considerazioni sul "personale" e sul privato di un personaggio che, seppur fascista, a quanto pare era bello-buono-bravo. Guareschi toppa laddove rincara la dose: pur di fare apparire il Podestà come una povera vittima, l'autore inizia a lanciare strali polemici contro le pretese totalmente ingiuste da parte del popolo di migliori condizioni di vita. I lavoratori che rasentano la miseria vengono in questo racconto presentati come assassini, ladri, ingannatori, servitori infidi ed ingrati. Insomma, Guareschi compone una profusione di insulti ed immagini sprezzanti del popolo, per esaltare di contro l'opulenta classe dominante, con tutti i suoi pregi e le sue virtù. Atteggiamento alquanto miope e puerile che ritroviamo in diversi racconti, in cui lo stesso Don Camillo appare irritante, nel suo dare torto a prescindere a qualunque tipo di rivendicazione sociale da parte dei lavoratori, che, come Guareschi molto esplicitamente insegna, dovrebbero invece subire ingiustizie e soprusi, continuando a sguazzare serenamente e silenziosamente nella propria giusta miseria. Inoltre, dall'essere un saggio pastore, Don Camillo scade spesso in quella scadente «propaganda clericale» contro cui Peppone punta il dito ad ogni occasione.

Ognuno abbia le sue opinioni: quello che rimprovero a Guareschi è solo la mancata eleganza in numerosi passaggi. Avrebbe potuto far passare i suoi (discutibili) messaggi in modi più raffinati, meno offensivi, rifuggendo alcuni cliché ed evitando facili generalizzazioni e atteggiamenti talvolta infantili. 
Il mio commento sulle storie del Mondo Piccolo in una parola sola: "Peccato".

domenica 22 settembre 2013

"Presagio triste" di Banana Yoshimoto

«Chiusi gli occhi, mi concentrai nell'ascolto e immaginai di trovarmi nelle verdi profondità del mare. Tutto il mondo sembrava risplendere in quel verde luminoso. La corrente fluiva lenta e trasparente, e lì in fondo tutte le pene non facevano più male dei banchi di pesci che mi sfioravano la pelle nuotando. Ebbi un triste presagio, come se il buio fosse sceso di colpo mentre ero lì da sola, e trascinata lontano dalla marea, avessi corso il rischio di perdermi

La storia si snoda come un'ellissi, attorno a due fuochi: Yayoi, protagonista diciannovenne e inquieta, e Yukino, zia giovane ed eccentrica. La prima vive fin dall'infanzia profondi turbamenti, è resa malinconica da strane tristezze e nostalgie come ereditate da un passato dimenticato. La seconda si limita a sopravvivere, trascurando le faccende domestiche e abitando mollemente una casa desolata e una costante condizione di abbandono.

Ad agitare Yayoi non è solo un'irrequietezza adolescenziale né un'ansia giovanile per il futuro: a inquietarla e immalinconirla è piuttosto la costante sensazione di essere sul punto di ricordare un segreto legato alla propria infanzia, qualcosa che possa turbare la sua identità e la sua percezione di sé stessa.

Un viaggio attraverso i misteri della propria famiglia e oscure sensazioni premonitrici accompagna la giovane Yayoi verso una consapevolezza e una serenità frutto della verità più cristallina. La accompagnano verso la conquista della nuova sé stessa la volubile, indipendente e affascinante zia Yukino, e Tetsuo, fratello verso il quale la protagonista nutre sentimenti amorosi che spaventano la ragazza, costringendola ad affrontare il tabù più antico del mondo e a resistergli.

Sullo sfondo, il mito, il sogno e insieme lo spauracchio di un'infanzia annegata in un'innaturale amnesia, della quale emergono talvolta degli sprazzi di ricordi e delle sensazioni profetiche, come di presagi post eventum. Yayoi ricerca le origini della propria personalità in questo passato misterioso ma insieme le teme, come rimpiange e teme insieme la propria straordinaria sensibilità che tocca la sfera inquietante e macabra degli esp, dei poteri extrasensoriali.

Il breve romanzo è pieno di spunti accattivanti e suggestivi, quasi nessuno dei quali è purtroppo sviluppato fino in fondo: percezioni extrasensoriali, turbamenti esistenziali e amorosi, coppie scoppiate, complicate e dolorose vicende familiari vengono piacevolmente sciorinate nel corso del romanzo, si guadagnano l'attenzione e la curiosità del lettore per poi lasciarle in parte inappagate. La lettura è senza dubbio intrigante e piacevole, eppure la sensazione conclusiva che ne ho ricevuto è stata un senso di incompiutezza, quasi come di un discorso lasciato in sospeso.

Tra le pagine si susseguono ambientazioni e suggestioni tipicamente giapponesi, che la Yoshimoto ricrea con una capacità descrittiva straordinariamente vivida ed incisiva, felicemente globale (non trascura gli stimoli olfattivi né quelli uditivi). Il trasporto provocato nel lettore è unico. Banana Yoshimoto possiede l'apprezzata capacità di raccontare quello stillicidio di piccole e superflue sensazioni che ognuno di noi sperimenta ogni giorno: la malinconia indotta dal mangiare una certa pietanza di sera, la tristezza indotta dalla vista di un dettaglio innocente come l'inclinazione di un viso o la tensione di un braccio. Dettagli e situazioni emotive fugaci e del tutto superficiali nell'economia del racconto e per questo straordinariamente preziose: laddove gli scrittori tendono a soffermarsi sulle emozioni e sui pensieri più incisivi e di maggiore peso nella trama dei loro romanzi, Banana Yoshimoto si sofferma su quelle emozioni sostanzialmente "inutili", perché ingiustificate, senza seguito o senza significato. Questo rende i personaggi di "Presagio triste" estremamente umani e l'immedesimazione scatta in un modo assolutamente inevitabile. Questo è probabilmente il fattore di maggior peso nel coinvolgimento emotivo del lettore.

«Che creatura triste, l'essere umano, pensai. Non c'è nessuno che riesca a fuggire del tutto l'incantesimo dell'infanzia

domenica 15 settembre 2013

"Fabbrica" di Ascanio Celestini

La lunga lettera che un operaio assunto per sbaglio scrive alla propria madre ci accompagna, con un linguaggio colorito e grezzo, diretto e spontaneo, lungo cinquant'anni di storia italiana.


«Mi hanno messo agli alti forni, alla fonderia.» scrive alla madre. «mansione di scovazzino: devo scopare il carbone nell'altoforno. Mi hanno detto che il mio capoturno è Fausto. Si chiama Fausto quello che devo incontrare. Lui deve impararmi il lavoro

Il padre di questo capoturno Fausto si chiamava anch'egli Fausto, e anche il padre di questi prima di lui. Tre uomini simboli di tre generazioni di operai, di tre ere "geologiche" delle fabbrica.

«Cara madre,
il tempo del nonno di Fausto, che pure lui si chiamava Fausto, è la prima età della fabbrica: l'"età dei giganti"


Quell'era lontana viene raccontata dall'operaio-narratore con toni nostalgici e mitici: a quei tempi gli operai erano alti dieci metri e si chiamavano Veraspiritanova, Dinamo, Acciaio, Guerriero, Germinal. Ascanio Celestini ha pescato a piene mani dalla tradizione orale e popolare, ha trasferito nel suo spettacolo teatrale (e nella sua trasposizione cartacea, il libro "Fabbrica") i frammenti di quell'epoca che sono stati conservati dall'immaginario e tramandati con la vividezza e l'esaltazione di un racconto epico. Il racconto prende toni e forma simili alle memorie della lotta partigiana, gli operai sono ricordati dai posteri come "giganti" e la loro epoca è quasi puro mito.
L'epoca successiva, incarnata dal Fausto padre, è molto diversa: è il tempo dell'"aristocrazia operaia". L'operaio-narratore ci racconta dei bombardamenti, della visita di Mussolini alla fabbrica, delle armi prodotte clandestinamente e vendute a Inghilterra e Jugoslavia. Ci racconta degli operai talmente abili e versati nel proprio mestiere da essere diventati indispensabili alla produzione, e pertanto risparmiati allo scempio della guerra e tenuti nel seno operativo e produttivo della fabbrica, da loro dominato grazie ai ferri che si facevano da soli, ai "capolavori" che dimostravano la loro indispensabile competenza. L'epoca dell'aristocrazia operaia è come il miraggio di un ribaltamento, l'illusione di vedere ripristinata una gerarchia di sogno in cui è il lavoratore a primeggiare sullo sfruttatore e anche Pietrasanta (il proprietario, il padrone, il capitalista, il Mazzarò che vuole possedere tutto ciò su cui si posano i suoi occhi) deve riconoscere quello statuto appunto "aristocratico" ai suoi migliori operai. È il tempo dei lavoratori comunisti e anarchici, che cercano di affermare la dignità del proprio lavoro e della propria persona.
Infine, arriva l'epoca di Fausto figlio e del nostro narratore. È il tempo della fabbrica contemporanea, in cui del passato mitico si conservano appena le memorie, tramandate e deformate dall'epos collettivo. È un tempo in cui alla fabbrica gli operai non servono neanche più, la macchina primeggia assoluta e incontrastata, l'abilità e la competenza non sono più richieste. La maggior parte degli operai viene licenziata o cassaintegrata, i pochi che restano vedono contrarsi il loro tempo di lavoro necessario e dilatarsi quello dedicato alla produzione del plusvalore, in una morsa disumanizzante di sfruttamento. Diminuiscono i lavoratori ma aumenta la produzione. Centinaia e migliaia di operai vengono scoperti superflui e licenziati: restano solo quelli che non è possibile mandare a casa, quelli che hanno «la disgrazia». Gli operai che hanno perso le dita tra gli ingranaggi, quelli assordati dal fischio dell'aria compressa, quelli mutilati, deformati e avvelenati dal lavoro: gli "storpi". Di quelli non si parla, perché «se lo sanno i sindacati che questa è una fabbrica che taglia le dita... ci fanno pure la vertenza e ci mettono su un bello sciopero!», però li si tiene a lavorare e neanche Gesucristo li può mandare via. Come Fausto figlio, il capoturno contemporaneo del nostro narratore: lui in fabbrica ha perso una gamba.
Nella nota introduttiva, Celestini spiega che si tratta di una forzatura narrativa che non corrisponde precisamente a verità: gli operai infortunati o resi invalidi dal lavoro sono i primi ad essere messi da parte. È precisamente qui che rinvengo la grandezza di Celestini, ciò che rende "Fabbrica" un'opera incantevole e toccante: c'è un significato ben preciso dietro questa forzatura artistica. Le dita, le gambe, l'udito persi nella fabbrica rappresentano l'estremo sacrificio dell'operaio, quello che lui deve compiere per poter continuare a lavorare: il sacrificio della propria identità. L'integrità dell'operaio viene immolata all'idolo della fabbrica, e non si tratta solo di integrità fisica: essa è il rispecchiamento dell'integrità identitaria dell'operaio che deve rimodellarsi, reinventarsi non più uomo ma appunto operaio. L'operaio del racconto "decide" di procurarsi una disgrazia per poter continuare a lavorare e la scelta cade su una mutilazione ben precisa: l'anulare della mano sinistra, un dito che non serve a niente... Il dito dell'anello nuziale. Fausto «dice che è una disgrazia che porta bene. Dice che con l'anulare sinistro è come se mi sposo la fabbrica...».

Friedrich Engels ha esposto in una maniera quasi documentaria la condizione della classe operaia in Inghilterra, soffermandosi sulla dimensione sociale ed economica. Simone Weil ha scritto pagine ricercate e raffinate sull'atrofizzazione dell'io spirituale ed intellettuale dell'operaio. Ascanio Celestini ci racconta degli operai nella loro dimensione più umana e toccante: quella della corporeità.
Il lavoro dell'operaio si "impara a rubeccio", guardando ed imitando i movimenti come delle scimmie ammaestrate. Celestini racconta che nel raccogliere memorie e testimonianze spesso si è trovato di fronte operai che accompagnavano i racconti con i gesti, in un modo spontaneo e praticamente inevitabile. L'esperienza della fabbrica è innanzitutto una esperienza fisica, fatta di movimenti assorbiti e meccanizzati, svincolati dal ragionamento (ottusi, appunto da scimmia ammaestrata, perché ciechi rispetto all'oggetto finale della produzione, semplice lavorazione di un semilavorato che priva l'operaio anche della consapevolezza e della soddisfazione del prodotto finale del proprio lavoro) e pressoché impossibili da esprimere verbalmente. La competenza e l'abilità sono fisiche, fisica è la fatica, fisiche le mutilazioni riportate dai personaggi di "Fabbrica" per rappresentare il loro assoggettarsi alla logica disumanizzante della condizione operaia.
Gran parte del racconto e della riflessione è costretta a rimanere nel margine bianco della pagina, nello spazio indicibile intraducibile destinato al corpo. Ascanio Celestini ci suggerisce aneddoti e scorci che ci facciano immaginare il mondo chiuso della fabbrica, una città nella città o uno Stato nello Stato, e lo fa gettandoci davanti agli occhi scene semplici e vivide, straordinariamente efficaci; raccontandoci storie reali e storie fantastiche attraverso il linguaggio schietto e diretto, gergale e colloquiale di una lunga lettera informale. Il libro è accompagnato dal cd audio in cui Celestini interpreta altre cinque lettere, ricercando «un suono che fosse il meno curato possibile, che rendesse l'immediatezza della scrittura e l'oralità dello spettacolo teatrale».
Per quanto mi riguarda, credo che i fini proposti da Celestini siano stati ampiamente perseguiti. "Fabbrica" è una lettura incredibilmente efficace, talvolta brillante e talaltra toccante. È una storia che interessa e ispira, e che mette in luce la grande sensibilità di Celestini, la sua enorme cultura e il suo raro talento. Una storia che, dipanandosi tra gli operai morti nella scia delle camionette della celere, altri licenziati perché trovati in possesso della tessera del sindacato, altri ancora resi «storpi» dal lavoro, fa riflettere sul passato della fabbrica, sul suo presente e sul suo avvenire, che ci si augura più giusto e rispettoso della dignità umana.

mercoledì 11 settembre 2013

Paradisi artificiali, Charles Baudelaire

Opera in prosa del celeberrimo poeta, Paradisi Artificiali è un interessante saggio sul consumo di vino, hashish ed oppio. Un saggio sul vizio, sulla debolezza dell'uomo, sui suoi limiti e contraddizioni. L'uomo è mortale, finito, legato indissolubilmente alla materia, limitato nelle percezioni, inibito nella volontà; eppure tende al sublime, al superamento di se stesso, del suo stesso corpo: è come se ci fosse una sproporzione tra la vista, il tatto, l'olfatto, il gusto, l'udito presi in senso assoluto, nella loro massima potenzialità, e gli organi di senso preposti a queste funzioni. La nostra anima vede e sente più di quanto possa fare il nostro corpo: il sublime è quel superamento, l'affermarsi dei sensi dell'anima sui sensi del corpo. Il sublime è il paradiso di Charles Baudelaire. L'alcol, le droghe, sono dei treni ad alta velocità che ci conducono nella terra merovigliosa e terribile del sublime, sono delle montagne russe che ci portano in vetta, e ci catapultano nell'abisso.
In questo saggio Baudelaire parla della sua esperienza personale e non solo, del rapporto tra droga e arte, dei paradisi artificiali, e di come questi possano trasformarsi in inferno.
La prima parte del saggio "Del vino e dell'hashish", oltre a decantare le gioie e i dolori del vino, mette a confronto i diversi "paradisi".
"Oh gioie profonde del vino, chi non vi ha conosciute? Chiunque abbia avuto un rimorso da placare, un ricordo da evocare, un dolore da annegare, o abbia fatto castelli in aria, tutti hanno finito per invocarti, o dio misterioso celato nelle fibre della vite. Quanto sono grandiosi gli spettacoli del vino, illuminati dal sole interiore! Quanto vera e ardente quella seconda giovinezza che l'uomo attinge da lui! Ma quanto temibili anche sono le sue folgoranti voluttà, e i suoi snervanti incantesimi. [...] Il vino assomiglia all'uomo: non si saprà mai fino a qual punto lo si possa stimare o disprezzare, amare o odiare, né di quali azioni sublimi o di quali mostruosi misfatti sia capace."
 Il vino è sangue che pulsa nelle vene, rinvigorisce la volontà, rende forti;  ha una sua "personalità", è amico e nemico dell'uomo, lotta con lui. Chi "beve solo latte" è in genere un uomo mediocre, superficiale, se non addirittura malvagio. Gli effetti del vino si legano con la personalità del bevitore, il vino scorre nelle profondità dell'anima, dà luce, e fa emergere le ombre.
Esclusivamente all'hashish è dedicata invece la seconda parte del saggio, "Il poema dell'hashish".
Rispetto alla parte dedicata al vino, il linguaggio è più freddo, oggettivo, tecnico. Se l'ebbrezza del vino è conosciuta da tutti, "il vino piace a tutti", l'hashish è poco conosciuta, quindi l'intento principale è quello di informare i lettori.
Si ripercorre la storia dell'hashish: gli effetti della canapa erano già conosciuti nell'antico Egitto, Marco Polo nel Milione narra di come il Veglio della Montagna, dopo averli inebriati con l'hashish, rinchiudesse i suoi discepoli in un giardino, per far conoscere loro il paradiso, ricompensarli di un'obbedienza assoluta e passiva; nell'Arabia felix, l'hashish era chiamata erba per antonomasia; Erodoto narra di come gli Sciti gettassero delle pietre roventi sui semi di canapa e ne aspirassero il vapore. Si elencano i diversi nomi di questa droga, in base alla composizione e all'area geografica di provenienza. Si racconta di episodi di contadini francesi, che dopo aver falciato la canapa, avvertivano strani sintomi, e persino del comportamento euforico delle galline che avevano mangiato i semi di questa pianta!
Minuziosa è la descrizione degli effetti e delle modalità d'uso (un secolo dopo, nel 1954, Aldous Huxley darà un'impostazione molto simile al suo saggio sugli effetti della mescalina, The doors of percepition, e nel 1998 Terry Gilliam girerà Paura e delirio a Las Vegas). L'hashish, a differenza del vino, inibisce la volontà, la capacità di muoversi, ma apre a delle esperienze percettive, sensoriali, assolutamente originali: le pupille si dilatano e i colori diventano sempre più nitidi, accesi. Dalle estremità, una sensazione di freddo pervade tutto il corpo, il quale si abbandona, la soggettività si annulla, fino a raggiungere uno stato di assoluta pace, felicità, che Baudelaire chiama dell'"Uomo-Dio": nirvana, atarassia, kief, è un'esperienza che espande l'anima oltre i confini del corpo, in una una unione panteistica, mistica, con il mondo. Gesti, esperienze quotidiane, assumono un volto magico, si riempiono di senso:
"La musica, altra lingua cara agli ignavi o alle menti profonde che cercano lo svago nella varietà del lavoro, vi parla di voi stessi e vi racconta il poema della vostra vita: s'incarna in voi, e voi vi infondete con lei. Essa parla della vostra passione, e non in modo vago e indefinito, come fa nelle serate svogliate quando ascoltate l'opera, ma in modo circostanziato, preciso: ogni movimento del ritmo evidenzia un movimento conosciuto della vostra anima, ogni nota si trasforma in una parola, e l'intero poema entra nel vostro cervello come un dizionario dotato di vita."
La terza e ultima parte del saggio, è il commento dell'opera di Thomas de Quincey, Confessioni di un mangiatore d'oppio: si descrivono le delizie provate inizialmente, il sempre più spasmodico bisogno di assumere la sostanza, fino alle torture della dipendenza. Si descrivono gli stati paranoici, gli incubi provocati dall'abuso di droga, il senso di impotenza nel non riuscire a liberarsi da queste catene; i tentativi di uscirne, la sofferenza, e infine la liberazione definitiva dal vizio.
Baudelaire condanna l'uso di hashish ed oppio, moralmente ed esteticamente.
Da un punto di vista estestico, l'uso di droga non agevola in nessun modo la produzione artistica, anzi l'esatto contrario; il poeta si scaglia contro gli "utilitaristi", i quali ritengono che attraverso l'uso di droga, si possa potenziare artificialmente l'estro artistico: "ammettiamo per un istante che l'hashish dia, o quanto meno aumenti la genialità; essi dimenticano che la natura propria dell'hashish è quella di diminuire la volontà; e così, esso concede con una mano ciò che toglie con l'altra, cioè l'immaginazione senza la facoltà di approfittarne". La condanna dell'uso di droga diventa elogio dell'arte, un'esaltazione della sua grandezza: l'arte è il paradiso naturale, è il sublime che rende liberi, la droga è l'illusione del sublime, dietro la quale si nasconde il volto delle tenebre.
Se Allen Ginsberg non avesse fatto uso di droga, avrebbe scritto L'Urlo? Senza uso di droga i Pink Floyd avrebbero composto brani come "Shine on you crazy diamonds"? E lo stesso Baudelaire, avrebbe scritto le sue poesie? La risposta del poeta è chiara: l'arte non è solo genialità e talento, ma è anche abnegazione, dedizione assoluta, ed è questa dedizione che porta al raggiungimento del sublime, quello autentico, della vera bellezza. Cercare una scorciatoia è inefficace, dannoso per la propria anima e immorale: "Chiamiamo baro il giocatore che ha escogitato il sistema per giocare a colpo sicuro; quale appellativo daremo all'uomo che intende acquistare, con un po' di denaro, la felicità e il genio?"
In questo saggio, Baudelaire affronta un problema spinoso, quello delle dipendenze e dei vizi, senza esaltazioni né moralismi retorici, ma con una profonda sensibilità poetica. Esorta a cercare l'inifinito nell'arte, nella cultura, che è ciò che rende davvero liberi, che eleva davvero l'anima umana. La droga, ha il vantaggio di darci tutto questo immediatamente, ma è un'illusione. Quando ci si sveglia dal sonno, ha inizio l'incubo. Quando il paradiso si dissolve in una nube di fumo, ha inizio l'inferno. Quando l'illusione della libertà scompare, ci si rende conto di essere schiavi di se stessi, soggiogati dalla propria dipendenza. Si annulla ogni possibile esperienza di senso, ogni moto dello spirito, che viene risucchiato dallo "Spirito delle Tenebre".
 

venerdì 6 settembre 2013

"Pura anarchia" di Woody Allen

Aprire questo libro è un po' come aprire una scatola piena di articoli di giornale tra i più stravaganti e inconsueti. La verve di Woody Allen è inconfondibile: quando si sceglie di dare alle stampe una raccolta di racconti che in realtà non è affatto una raccolta, il risultato può essere di due tipi. Da un lato ci saranno i lettori scontenti, quelli che avranno metabolizzato l'ordine sconclusionato del libro; dall'altro ci saranno i lettori per così dire "vispi", quei lettori cioè che non si fermano alla "Pura Anarchia" che straripa dallo scritto fin dalla prima impressione. Dietro all'aspetto disordinato, questa brossura economica nasconde l'intento lucido dell'autore di smascherare una civiltà americana troppo spesso idolatrata: protagonista è, infatti, quel grottesco che assume le fattezze ora di un imbroglione senza pudore, ora di un incapace cronico, ora di un penoso inetto. E così ragazzetti viziati diventano gli ideatori di un film di successo per i cui diritti si battono genitori e aguzzini; imprenditori pronti a tutto vendono su Ebay preghiere ideate da scrittori emergenti e squattrinati; Topolino giura di dire “la verità, nient'altro che la verità” al processo Disney, riferendo strane dipendenze di Pippo e Paperino; Alma Mahler sbarca in un musical che la vede intrattenere relazioni con Schiele, Klimt e Wittgenstein. Una miscellanea, quindi, quella che si sviscera di fronte al lettore, che non può non cogliere il filo conduttore (perché un filo conduttore c'è) che lega i vari racconti: la denuncia verso una società ossessionata dai soldi, una società che costringe ad accontentarsi di un lavoro che non rende giustizia alle proprie capacità. Il disvelamento avviene attraverso una ironia a volte sottile a volte lampante, una ironia sui generis ampiamente conosciuta dai fruitori del cinema di Woody Allen.
È sicuramente una lettura divertente, ma non adatta a tutti. La grandezza (e il limite) di questo libro è proprio il fatto di rimandare a qualcos'altro che l'autore dà per scontato, forse perché la cultura di Woody Allen è una cultura vastissima, difficilmente riscontrabile nel lettore medio (me in primis). Col fine di equilibrare questo surplus di informazioni, delle note a piè di pagina tentano di irrobustire l'impianto di un'opera che è pur sempre l'opera di un americano per gli americani. 
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