domenica 3 luglio 2016

Reinventare la vita. "Pierrot le fou" di Jean-Luc Godard

«Ci fu la civiltà ateniese, il Rinascimento... e ora stiamo entrando nella civiltà del culo

"Il bandito delle ore undici", titolo originale "Pierrot le fou", mi ha fatto venire in mente l'episodio diretto da Godard due anni prima nel lavoro collettivo "Ro.Go.Pa.G". Tale episodio, il secondo (la sillaba "Go" nel titolo, dopo Rossellini e prima di Pasolini e Gregoretti), si intitola "Il nuovo mondo", e mostra la caduta dell'umanità in un delirio post-atomico. La follia (come illogicità, ma anche come a-logicità, come perdita del senso, come fissazione in una realtà priva di un senso autentico) mi pare la materia prima di entrambi, il corto in "Ro.Go.Pa.G" e "Pierrot le fou". E in entrambi, la follia non è, per così dire, esportata dal singolo nella società, ma da lui importata: non è il malessere psichico individuale a trasformare la società in un manicomio, ma è la società alienante (nel senso economico e anche psichiatrico del termine) a frammentare l'io dei singoli, a distorcerlo, a spingere i singoli al rifiuto di se stessi, al non-riconoscimento di se stessi, perfino all'autodistruzione. E, in entrambi i casi, la società ci viene mostrata per ciò che è: non qualcosa di "impacchettato", bell'e pronto, quasi il risultato di un disegno divino, ma qualcosa di storicamente ben determinato e continuamente auto-determinantesi. Non a caso, lo sfondo "narrativo" delle due storie è rappresentato da una crisi di tipo politico (che significa anche storico): la fobia della bomba atomica in "Il mondo nuovo" (fobia che incise in maniera davvero molto pronunciata nella produzione culturale degli anni Cinquanta e Sessanta, se ne portano le tracce l'opera di Italo Calvino, di Lucio Dalla, dello stesso Godard e di molti altri artisti di tutt'Europa) e la Guerra fredda in "Pierrot le fou". Proprio da tale clima politico, quello della contrapposizione tra i "due blocchi", è indispensabile partire per poter collocare la storia di Pierrot/Ferdinand nel suo tempo.


Ho usato due nomi per designare lo stesso personaggio, perché esso stesso, pur interpretato da un monolitico e uguale a se stesso (al punto da "continuare" con questa interpretazione il personaggio interpretato cinque anni prima in "Fino all'ultimo respiro") Jean Paul Belmondo, ha un'identità frammentata. La sua storia inizia all'interno del suo ambiente borghese, tra una mogliettina antipatica che veste biancheria sfacciata (di marca "Scandale") e conoscenti altolocati. Il party a cui assistiamo mostra una borghesia, intesa solo come "punta di diamante", rappresentante perfetta della società tutta, totalmente intrisa di capitalismo. Il consumismo, la mentalità di stampo liberista, l'intossicazione pubblicitaria sostituiscono totalmente qualunque relazione umana. Sotto filtri stranianti (rosso, blu, verde, giallo, che coprono ogni altro colore in una piattezza innaturale), uomini e donne dialogano soltanto a colpi di slogan pubblicitari. «La mia pettinatura si mantiene grazie ad una nuvola di Elnett», pronuncia una donna, e gli uomini rispondono delle prestazioni di un'automobile. Pur presenziando in tanti nella stessa stanza, tutti i soggetti coinvolti sono assolutamente isolati gli uni dagli altri, in una specie di autismo che fa quasi "impazzire" il protagonista Ferdinand (che lascia la festa a metà, torna a casa e fugge con la baby sitter, Marianne, con cui aveva avuto una relazione anni prima). Prima di arrendersi all'inautenticità sistematica che lo spinge alla fuga, però, Ferdinand lancia un grido di aiuto: mi sento diviso, dice, come se occhi e orecchie fossero macchine distinte, funzionante ognuna per suo conto.
Quella che il protagonista denuncia è l'assoluta instabilità dell'io, la carenza di una individualità formata, di una vita integrale, reale, pienamente esistente. Lui e tutti gli altri non possono che attraversare la vita «come spiriti»«attraverso uno specchio». Fugge allora con Marianne, si traduce in un bandito, trasforma la propria quotidianità in un noir, soltanto nel disperato tentativo di reinventare la vita, reinventare l'amore. E anche l'amore costruito su questo io fragile, etereo, inesistente, è destinato ad essere effimero. Il discorso già sartriano e merleau-pontiano sull'amore, sulla sua costituzionale precarietà, si innesta qui sulla denuncia di una società spersonalizzante.
Questa personalità ectoplasmatica, questa vita fragile e scissa, questo stesso amore non rassicurante non soddisfano i protagonisti, che come ultimo tentativo propongono di andare a vivere su un'isola deserta, dove il marcio della società non possa ferirli, salvo poi la presenza di un ambiente isolano assurdamente antropizzato (il trattore, la casa, gli animali addomesticati).

- Cosa faremo?
- Niente, esisteremo.

La tentazione è quella di affidarsi alla bontà della natura, ad una sorta di stadio primordiale dell'umanità, nella ricerca della pienezza dell'esistenza fine a se stessa. È l'illusione dell'"ecovillaggio", che crede di sanare i mali della civiltà ritirandosi dalla civiltà stessa, in un tentativo di vita astorica e per questo destinata a non esistere davvero, se non nelle buone intenzioni dei suoi attori.
Ferdinand, che viene chiamato dalla ragazza Pierrot e Paul, e che a sua volta la chiama ora Marianne ora Virginia, tenta di essere un nuovo Adamo e di riguadagnare così la propria identità, di risanare quel senso propriocettivo di cui la società lo ha mutilato, ma non ci riuscirà. L'epilogo sarà l'implosione dell'essere, la rinuncia totale all'esistenza, che si è scontrato prima con la ricerca del senso, poi con la fuga dal mondo, poi con la delusione amorosa come prova dell'incostanza dell'umanità. Ferdinand/Pierrot, si toglie la vita (nonostante un ultimo, ma tardivo, ripensamento) ma lo fa in un modo significativo: dopo essersi dipinto il viso di blu, si avvolge il capo nell'esplosivo. Prima si applica una maschera, si dà un colore, una definizione, e poi fa saltare tutto, distrugge completamente quel volto che non gli appartiene, che si riferisce ad un'identità mai esistita davvero.
Scrivevo prima della Guerra fredda, del clima di brutale "dualismo" che trasmette ai protagonisti quella frattura interiore che si rivela insanabile, sia nei termini di una riconciliazione sia in quelli di una "fuga", di un disinteressamento. Pierrot/Ferdinand, guardando la luna con Marianne, le indica un omino, l'unico abitante della luna. Racconta dell'assalto allo spazio e dell'incontro dell'omino lunare con gli uomini. Leonov, un cosmonauta sovietico, cerca di inculcare l'opera di Lenin nell'alieno, che si dà alla fuga. Mentre White, l'americano, agguanta l'abitante lunare, gli ficca in gola una bottiglia di Coca-Cola e pretende anche di essere ringraziato. L'epilogo vede semplicemente "litigare" americani e russi, così come "litigano" le due e più anime dei protagonisti, divisi tra la vita che sono costretti a vivere (che li vuole meri consumatori e divoratori di pubblicità della "civiltà del culo" capitalista) e quella che desiderano vivere (una vita pienamente umana), senza sapere bene come. La crisi della società società del benessere, con i suoi stordimenti e le sue manie, trascina nella crisi anche i soggetti, che si trovano disarmati e perduti in questa loro folle e disperata ricerca della libertà, dell'amore, della vita vera.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...