giovedì 9 luglio 2015

Lo strano vizio del signor Tarantino

Sergio Martino, 1971: nonostante il titolo ammiccante e la presenza di Edwige Fenech, non si parla di una commedia sexy. Lo strano vizio della signora Wardh è un piccolo capolavoro di genere. Fondato sull'assunto freudiano dell'istinto omicida insito in ognuno e inibito da società e cultura, il giallo gioca sull'ambigua identità del maniaco che commette i suoi delitti seriali a rasoiate (ambiguità che sussiste, ancor più solida e multiforme, fino a quando resta il dubbio su quale sia, precisamente, lo strano vizio della signora Wardh).
Si tratta di un prodotto di ottima fattura, anche stilistica, a cominciare dalla regia tutt'altro che scolastica. Sono particolarmente memorabili delle belle sequenze, come l'omicidio nella doccia (che sembra riprodurre l'analoga scena di Psyco, sebbene attraverso una prospettiva più dinamica) e i diversi flashback della relazione tra Julie Wardh e l'ex amante Jean, questi ultimi impreziositi dall'uso del ralenti e dalla riproduzione del motivo ricorrente del film, insieme ai forti contrasti luminosi creati da pioggia, sole e frammenti di vetro.
Lo strano vizio della signora Wardh (1971)
Lo strano vizio della signora Wardh compare tra gli avi, più o meno illustri, sempre caratteristici, del cinema di Quentin Tarantino, noto estimatore dei film italiani degli anni '70 (specie se interpretati da Edwige Fenech), per lo più di genere, dai western ai pulp, fino ai B-movie. Il vezzo tarantiniano di appropriarsi di colonne sonore altrui colpisce anche il film di Sergio Martino: il motivo ricorrente del film (Dies irae della cantante e compositrice italiana Nora Orlandi) è lo stesso che fa da sottofondo alla conversazione tra i due fratelli in Kill Bill vol. 2, nell'ambiente desertico, tra la roulotte in cui Budd vive e il locale in cui lavora, che richiama la location spagnola in cui George (il nuovo amante della signora Wardh) commette un omicidio e lo camuffa da suicidio.
Un legame attestato collega Tarantino alla Signora Wardh, come Tarantino al regista Umberto Lenzi, mentre un legame molto più tenue mi permetto di stabilire tra quest'ultimo e il film di Sergio Martino. La triangolazione che sto disegnando si basa su un gioco di richiami e assonanze, forse fortuite, di certo piacevoli da scovare.
Premetto che Umberto Lenzi è un regista manifestamente apprezzato da Tarantino: il nostro Quentin, risaputamente, nasconde nei nomi dei suoi personaggi (spesso marginali) omaggi a protagonisti del cinema del passato. Così, tornando alla Fenech, la vediamo omaggiata in Bastardi senza gloria, e precisamente nel personaggio del generale inglese Ed Fenech. Nello stesso film, tra i Basterds è accolto un ex soldato nazista diventato massacratore di altri nazisti, Hugo Stiglitz: nome e cognome sono rubati ad un attore messicano dalla filmografia sterminata, che nel 1980 interpretò il ruolo di protagonista in un film di Umberto Lenzi, Incubo sulla città contaminata.
Paranoia di Umberto Lenzi risale a dieci anni prima: vediamo una moglie e una ex moglie intente a complottare per uccidere il (rispettivamente) marito ed ex marito. Il profetico tris di donne che la vittima designata, Maurice (Jean Sorel), ottiene ai dadi, sciupa un po' qualche colpo di scena ma aggiunge pulp al pulp. Sia Paranoia sia Lo strano vizio della signora Wardh si chiudono con un topos cinematografico, quello dell'automobile che precipita da una scogliera/scarpata, finendo rispettivamente in mare e in un fiume (su strade e scenari simili a quelli su cui guida, senza problemi, Uma Thurman diretta a casa di Bill nel secondo volume). Ma soprattutto, i tre film citati hanno in comune un altro topos: quello dell'apparizione improvvisa di un personaggio creduto morto. Helen (la bionda ex moglie di Paranoia) va fatalmente fuori strada quando vede, nella propria carreggiata, Maurice, l'uomo che crede sia stato ucciso poco prima (e del cui omicidio crede di essere l'unica indiziata). Il signor Wardh e George, certi di aver ucciso la signora Wardh, vanno fuori strada quando la vedono sul ciglio e si accorgono di essere inseguiti dalla polizia e conseguentemente si danno ad una fuga precipitosa. Beatrix (Uma Thurman), che irrompe in casa di Bill arma in pugno, si trova di fronte la piccola B.B., ritenuta morta (o meglio mai nata). In tutti e tre i casi, l'apparizione del "fantasma" è seguito dalla morte di chi se lo è trovato di fronte: reale nei primi due casi, simulata nel terzo (Beatrix finge di stramazzare a terra quando la bimba le punta contro una pistola giocattolo e fa il verso dello sparo). Ma all'omicidio simulato, quello di Beatrix ad opera della figlia, segue l'omicidio reale di Bill per mano di Beatrix: in tutti e tre i film, l'apparizione del vivo-creduto-morto inghiotte il vivo, in una sorta di scambio, di sostituzione risarcitoria: il personaggio (quasi) ucciso torna dall'oltretomba per trascinarvi, al proprio posto, chi ha tentato appunto di ucciderlo e morto lo riteneva. Lo stesso Bill, ucciso da Beatrix, aveva creduto che la stessa fosse morta: lui stesso l'aveva "uccisa", sparandole un colpo in testa, e solo all'arrivo dei poliziotti nella chiesetta di El Paso la sposa aveva dato segno di essere ancora viva, benché in gravi condizioni.


Kill Bill vol. 2 (2004)

Un'altra assonanza avvicina Kill Bill e Paranoia: il tema della figlia che vendica la madre uccisa. Susan, figlia della seconda moglie di Maurice, Constance, crede che quest'ultima sia stata uccisa dallo stesso Maurice (cosa, tra l'altro, vera): così, uccide Maurice (in realtà, sappiamo, si limita a farlo credere) e fa ricadere la colpa dell'omicidio sull'ex moglie di questi, la bionda Helen che poco dopo precipiterà dalla scogliera con la sua automobile. Kill Bill è un film intero (anzi, un dittico intero) costruito sul tema della figlia che vendica la madre (Beatrix assicura alla figlioletta di Vernita Green che sarà disposta a concederle vendetta se a lei da grande brucerà ancora l'assassinio della madre; O-Ren Ishi diventa un'assassina per vendicare l'uccisione dei suoi genitori), tema che in un solo caso viene rovesciato, la madre (Beatrix/La sposa) che intende vendicare la figlia (B.B.). In realtà, il tema in questione è interamente, se non esclusivamente, mutuato da Lady Snowblood, film giapponese del 1973 (praticamente contemporaneo ai due italiani), incentrato sulle azioni di una "bambina degli inferi", ossia di una giovane cresciuta con l'unico scopo di compiere una vendetta, appunto vendicando i torti subiti dalla propria madre. Da questo stesso film Tarantino mutua la suddivisione in capitoli, la storia a fumetti (che vediamo modernizzarsi e diventare anime, nel momento di raccontare con un flashback il passato di O-Ren Ishi, la vipera mortale giapponese) e altro ancora. Ma su questo resta molto da scrivere e continuando ad aggiungere film al mio gioco di assonanze e consonanze non si finirebbe più. Continueremo un'altra volta.

lunedì 6 luglio 2015

Monumentalizzazione della memoria o attualizzazione del ricordo? - di Giuseppe Ceddìa

Spesso sono avvezzo a postare (verbo che mai avrei pensato di utilizzare, vista la mia formazione umanistica e non “umanista” come qualcuno ultimamente ha chiosato, tutta carta polverosa e poco incline alla digitalizzazione dell’oggetto libro) fotografie di artisti, ricordandone la loro data di nascita o di morte, ovviamente in concomitanza con il giorno in questione.
Rendere omaggio a quelli che sono scrittori, pittori, musicisti, filosofi, ecc. mi sembra il minimo – da parte del sottoscritto – per ringraziare (seppur in modalità postuma) coloro i quali hanno nutrito frammenti della mia anima e hanno contribuito, con la loro opera, a modellare i tasselli che compongono il puzzle della mia persona, l’essenza della mia forma mentis culturale, dunque – perché no – anche morale e civile, oserei dire intellettuale in senso empaticamente gramsciano.
Ovviamente, in relazione a ciò, si sprecano i commenti di coloro i quali mi “seguono” (sic!) sui social network (abitati da moltissimi imbecilli, ahinoi! Sposo appieno le parole di Umberto, delle quali ancora riecheggia l’Eco!), chi definisce il mio modus un collage mortuario di pessima fattura, chi invece apprezza il fatto che potrei far conoscere qualcuno di cui mai si era sentito parlar prima, altri ancora che vedono in questo una mia presunta voglia di far trapelare il mio sapere, magari con punte di arroganza miste a snobismo (certo, perché viviamo un periodo storico malsano in cui, assai spesso, chi “sa” deve quasi vergognarsi di farlo trapelare, rischio un’accusa di elitarismo, classismo, saccenza, e altri paroloni inutili, in quanto mal sposati al concetto principale) ma comunque… 
Mi è stato posto il quesito se codesta operazione non rischi di monumentalizzare la memoria del soggetto in questione (l’artista di cui voglio ricordare nascita o dipartita) invece che attualizzarne il ricordo.
Pleonastico che, nel momento in cui mi si pone il suddetto spunto di riflessione, si faccia riferimento alla prima categoria come negativa e alla seconda, di contraltare, come invece positiva.
Arrivo al punto, che in realtà si traveste da dubbio. Chi ci dice che necessariamente la monumentalizzazione della memoria è negativa e l’attualizzazione del ricordo no? E chi ci dice il contrario? Insomma, non potrebbe esserci una buona monumentalizzazione della memoria e una cattiva attualizzazione del ricordo, a maggior ragione – vorrei aggiungere – tenendo in considerazione la scarsa valenza che vien data alla cultura (quindi al ruolo intellettuale) in questi tristi e mefitici tempi?
Ecco, mi rendo conto di star ponendo domande e di non star fornendo alcuna risposta al quesito. Questo perché credo, ormai, che ogni cosa, anche la più piccola, anche la minima parte di un assunto, vada contestualizzata. Penso che vi sia colui il quale potrebbe attuare una sana e giusta monumentalizzazione della memoria e chi no… idem per quanto riguarda l’attualizzazione del ricordo.
Per inciso “monumento” deriva dal latino monumentum che sta appunto per “ricordo, monumento”, non starem forse dicendo la stessa cosa separando due concetti che, probabilmente, così lontani non sono, se non per una mera questione o accezione terminologica?
Insomma io posso monumentalizzare la memoria “al fine” di attualizzarne il ricordo! Forse l’inghippo si scioglie in questo modo assai semplice, in realtà!
Ovvio che, nel momento in cui si compie un’azione, si decide di ricordare qualcosa, la coscienza critica e la memoria storica (due parametri che ormai si stenta a trovare in larga parte del genere umano) devon essere ben vigili e ben nutriti, altrimenti sì che la monumetalizzazione della memoria diventa esercizio mediocre fine a se stesso e l’attualizzazione del ricordo resta un fantasma utopico, uno spettro che – ahinoi – non solo non si aggira in Europa, ma neanche nella mente del singolo operante l’azione in questione!
Dico allora che ben venga il monumento eretto alla memoria, se ad esso succederà anche il ricordo attualizzato (che potrebbe nascondere, sia chiaro, anche lati negativi… ad esempio il rischio di malsane associazioni col presente o il tranello di un’errata comparazione di carattere storico-ideologico) tanto di guadagnato, e spero nulla di perso.

mercoledì 1 luglio 2015

"Diatriba d'amore contro un uomo seduto": monologo in un atto di Gabriel García Márquez

«E così siamo andati in pari: tu ripudiato dai tuoi genitori e io dai miei. Ma felici di quello che avevamo. L'esatto contrario di adesso, che abbiamo tutto in abbondanza tranne che l'amore.»

Non si tratta di un romanzo, ma di un testo per il teatro: sul palco ci sono Graciela, una donna benestante che festeggia il venticinquesimo anniversario di matrimonio, e un manichino sprofondato in poltrona, coperto dal giornale che finge di leggere, ossia suo marito.
Il lungo, a tratti disperato e rabbioso, a tratti innamorato monologo di Graciela si snoda tra i ricordi di un passato misero ma felice, le gelide constatazioni sullo stato attuale del suo matrimonio, i propositi furiosi per il futuro immediato. Ma, soprattutto, cade nel vuoto: il marito di Graciela (un manichino appunto) non spiccica parola per tutto lo spettacolo, non interviene neppure come protagonista dei ricordi narrati dalla donna, non batte ciglio nell'udire le memorie amareggiate di lei, né le sue minacce o i suoi scatti d'ira. La verità è che il marito di Graciela è sempre stato nei confronti esattamente quello che è nella messinscena teatrale: un manichino, un essere non-umano, indifferente ai sentimenti della moglie, un po' come lei adesso è diventata apparentemente impermeabile agli atteggiamenti irrispettosi di lui.
Che lui l'abbia amata in gioventù? Non ne siamo certi. Il loro è stato il classico matrimonio riparatore (la buona società commentò il felice connubio osservando che, aspettando ancora un poco, il pargolo avrebbe potuto fare da testimone). Osteggiato, per giunta, dalle rispettive famiglie. Così, un po' per incoscienza e un po' per ribellione, i due giovani (benestante e blasonato lui, di umili origini e fuggita di casa senza neppure gli abiti addosso lei) hanno coronato quello che era una specie di dispetto felice. E per i primi tempi, almeno, felice davvero, con lui che rinunciava alla ricchezza di famiglia per lei e trovava casa in un barrio popolare, con una sola amaca per due, un fornelletto e vecchie tubature gorgoglianti con l'alta marea. Ma poi, così come la giovinezza li aveva spinti verso ciò che era precluso e sconsigliato, ciò che sembrava amore e libertà, la riconciliazione di lui con i suoi genitori li aveva risospinti nell'alta società che avevano dribblato con orgoglio, li aveva ricacciati nel mondo patinato della vita borghese e del benessere economico che li avrebbe distrutti.
Carica di gioielli di famiglia e servita sul palcoscenico da muti servitori che fanno apparire e sparire vecchie amache e luminosi mobili da toletta nell'ondeggiante flusso di ricordi e attimi presenti, Graciela manca di tutto ciò che desidera profondamente, di tutto ciò che la fece imbarcare nell'avventura di quelle nozze maledette: il tema onnipresente in Gabriel García Márquez, l'amore. Nel corso del monologo riversa sul marito, che non ribatte perché non la

ascolta neppure, i rancori accumulati in una vita, insieme ma non davvero. È la sera del loro venticinquesimo anniversario, la festa è stata grandiosa ai limiti del buon gusto, tra gli invitati si scorgevano tutti quelli che contano qualcosa nel Paese, ossia (precisa Graciela) tutti i ricchi e i corrotti. C'era anche lei, volgare e più brutta di Graciela, l'amante fissa di suo marito: Graciela stessa ha voluto invitarla, per non dare a nessuno la soddisfazione del contrario, per farle vedere e toccare con mano il fasto che fa gola alle amanti povere ma che non basta a rendere felici le mogli, o almeno non lei. Ma la presenza di questa donna nel loro matrimonio, sebbene forse la più bruciante, non è l'unica umiliazione che Graciela ha dovuto subire: tutto il Paese ha letto sul giornale o sentito passare di bocca in bocca, nel corso degli anni, delle avventure galanti finite male, che hanno visto il marito di Graciela una volta bloccato in casa con una minorenne, una volta aggredito e minacciato, sempre e comunque diviso tra molte donne, più o meno occasionali. Mentre lei, Graciela, ha sempre rinunciato a tradire quel marito che pure lo avrebbe meritato, perfino quell'unica volta che provò ardentemente il desiderio di farlo e si rese conto che avrebbe potuto farlo senza sentirsi infedele. Graciela è rimasta negli argini della convenienza borghese, del buon gusto e dell'opportunità, del contegno signorile che ci aspettava da lei, della più elegante e matriarcale sobrietà, della necessità di una decorosa ipocrisia, fino al trionfo sociale di oggi, fino all'esplosione di tutte le contraddizioni del suo matrimonio in questo giorno di festa in cui non resta neppure una traccia d'amore, se non quella del sentimento intenso che Graciela ancora nutre per lui (ciò che le fa provare tanta rabbia, ciò che in parte la trattiene e in parte la spinge via), se non quella dell'amore venturo, che Graciela non è più disposta a sacrificare. Si tratta di una forma di riscatto radicale e viscerale: se non sarà amore, sarà la sua ricerca disperata, sarà la speranza di tornare felice come lo era da povera, la fede che era solo sopita ma che ora, risvegliata, sarà inesauribile, in un amore che riempia la vita, le dia valore, la renda significativa e semplicemente bella.
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