mercoledì 9 maggio 2018

"Il mondo è rotondo": un racconto di Gertrude Stein

"A rose is a rose is a rose"

Questa è la celebre e senz'altro vera tautologia di Gertrude Stein, quella che Hemingway, in seguito a un aspro litigio con l'amica, deformò in "A bitch is a bitch is a bitch".
La stessa tautologia potrebbe essere una stringatissima sinossi del racconto per bambini "The world is round" che Stein scrisse nell'estate del 1939. Che il mondo sia rotondo è poco meno che una tautologia, è una esposizione di un fatto ovvio e universalmente noto (terrapiattisti a parte). Ma la intrinseca e autoevidente verità che, in fondo, "una rosa è una rosa", per la protagonista del racconto è tutt'altro che scontata, ed è più difficile dirsi sicura di questo che della rotondità del mondo.
La protagonista si chiama Rosa (come la "rosa francese", la piccola aristocratica Rose Lucy Renée Anne d'Aiguy a cui il racconto è dedicato), e della propria identità non è affatto sicura. Le piacerebbe poter dire di se stessa "Rosa è rosa", con la stessa immediata evidenza e indiscutibile certezza della tautologia lapalissiana. Ma così non è, e la piccola Rosa pensa molto all'argomento, pensando ad esempio:


«Forse che sarebbe stata Rosa se non si fosse chiamata Rosa e sarebbe forse stata Rosa se fosse stata gemella».

Oppure:

«Sono una bambina e il mio nome è Rosa,
Rosa è il mio nome.
Perché sono una bambina
e perché il mio nome è Rosa
E quando sono una bambina
e quando è il mio nome Rosa
[...] Quale bambina sono».

Nella ricerca della verità della propria identità, Rosa, che frequentemente scoppia a singhiozzare e tormenta i cani Love e Pépé imponendo loro di ascoltare le sue lamentevoli canzoni, è accompagnata dal cugino Willie. Lui è l'antirosa: non ha alcun dubbio sulla propria identità e sul proprio esserci, nonostante il suo nome sia un'interrogazione (Will he?). Willie è lo specchio di Rosa, che invece è tutta un'interrogazione, a dispetto del suo nome semplice e concreto, solido e ovvio, portatore della verità più vera che "una rosa è una rosa".
Stanca di dubbi, o forse in cerca di dubbi nuovi, Rosa prende la sua seggiolina blu e portandola con sé si inerpica in cima a un monte, con l'intenzione di accomodarsi una volta giunta in cima per godersi il panorama. E non che la scelta della sedia blu abbia permesso a Rosa di esimersi dalla sua infaticabile attività elucubrativa.



«Mentre Rosa pensava a questa cosa incominciò a sentirsi molto strana naturalmente incominciò a sentirsi molto strana.
Si può pensare che Rosa sia una rosa
se il suo colore preferito è il blu
le cose possono essere blu ma non le Rose ma Rosa era una rosa e il suo colore preferito era il blu.
E ora doveva pensare a cosa fare lassù.
Sarebbe stata una sedia verde o blu
La sedia da portare lassù
[...] Così Rosa aveva talmente tante cose da fare oltre a deliberare se la sedia da portare lassù dovesse essere verde o blu».

Il fatto che il colore preferito di Rosa sia il blu ma che una rosa normalmente non sia blu, confonde Rosa non poco. Ciò che ci piace non può essere ciò che ci definisce? Non possiamo identificarci in ciò che amiamo?
Per rispondere alle sue domande, la protagonista si avvia su scoscesi pendii, tra punteggiature inesistenti, in un bosco di rime, assonanze e allitterazioni, seguendo un percorso incerto e antisintattico che costruisce concetti e frasi con libertà e in spregio di ogni regola tradizionale, ma senza cadere nella trappola della "scrittura automatica" per associazioni inconsce, gradita ai Surrealisti, che per Stein non era "arte" ma un mero esperimento psicologico (lei e Leon M. Solomons studiarono appunto il processo della scrittura automatica in un esperimento condotto dall'Univeristà di Harvard, che mostrò le caratteristiche di un testo scritto inconsapevolmente da un soggetto mentre presta attenzione ad altro, come alla lettura di un libro).
Questo stile rivoluzionario nella misura in cui si liberava brutalmente dei vincoli della sintassi e dei significati fissi pose Stein all'attenzione delle studiose femministe e del teatro d'avanguardia, che in questo stile appunto e nei temi dell'autrice americana riscontravano un potenziale sovversivo, in un'ottica di genere, di rinnovamento profondo di teatro e di scrittura, di liberazione della creatività dalle pastoie della letteratura convenzionale. A Gertrude Stein questa spregiudicatezza stilistica costò in un primo tempo la possibilità di farsi capire e apprezzare da un pubblico mainstream, ma fu questa stessa novità letteraria, difficile da digerire e amare, a inserirla prepotentemente nella storia della letteratura del Novecento.

Nell'introduzione al racconto (Il Mangiafuoco - Emme Edizioni), ci viene ricordato che fu Cesare Pavese a tradurre dall'inglese "Tre esistenze" e "Autobiografia di Alice B. Toklas" (mentre la traduzione "Il mondo è rotondo" è di Rosella Mamoli Zorzi). Proprio a Pavese Stein inviò il suo racconto "The world is round", nel '39. Pavese le rispose che il racconto era «delightful» e anche: «È il libro di avventure ideale, specialmente nella seconda parte, e mi ha fatto molto sognare a proposito del monte e della sedia».

  • Sul tema della scrittura automatica in relazione allo stile di Gertrude Stein, si può trovare qualcosa in "Il comportamento verbale" dello psicologo americano B. F. Skinner.
  • Sullo stesso tema: "Gertrude Stein: l'esperimento dello scrivere", raccolta di saggi a cura di Biancamaria Tedeschini Lalli.
  • In riferimento, nello specifico, a "Il mondo è rotondo", segnalo il testo della stessa traduttrice, Rosella Mamoli Zorzi, intitolato "'diavolo diavolo diavolo': Gertrude Stein e la fiaba del linguaggio", incluso in "Ritratto dell'artista come donna: saggi sull'avanguardia del Novecento" ("diavolo diavolo diavolo" è una iscrizione che la protagonista del racconto legge lungo la sua ascesa al monte con la sedia blu, e da cui è molto spaventata).

martedì 8 maggio 2018

Opinioni di un clown, Heinrich Böll



Una faccia dipinta di bianco, un naso rosso enorme, gli occhi e le labbra contornate da surreali colori, vestiti sgargianti, scherzi, burle e capriole, allegria e malinconia, riso e paura. Molteplici sono le impressioni che la visione di un clown suggerisce. Il pagliaccio è una figura perturbante: il solo vederlo destabilizza uno stato di quiete, la sua sola presenza mette in discussione lo spazio circostante, che il clown irride e sfida con i suoi frenetici movimenti. Il clown nasconde la realtà attraverso la sua rappresentazione ridicola, la riempie di fantasmi divertenti ed inquietanti e, allo stesso tempo, rivela qualcosa della realtà che ancora non conoscevamo. Riempie gli oblii su cui la vita quotidiana costruisce le sue fondamenta con la macchietta e con la fantasia, facendo emergere il rimosso.

Il pagliaccio è un emarginato, svincolato da legami sociali, da convenzioni religiose e culturali, escluso dai processi storici e politici di una comunità. Il clown è una tautologia: sempre uguale a se stesso, si rifugia nella farsa, si nutre di paranoia, solitudine e sociopatia. Eppure è capace di instaurare con la realtà un rapporto privilegiato, proprio perché la rovescia e la trasfigura, facendoci uscire per un attimo, con la sua finzione grottesca, dal conformismo della vita di tutti i giorni.

Per queste sue peculiari caratteristiche, a mio avviso, Heinrich Böll descrive la Germania del secondo dopoguerra attraverso gli occhi di un clown alcolizzato caduto in disgrazia. La Germania degli anni di piombo in cui non è lecito domandare né ricordare gli orrori appena passati. Il protagonista del romanzo è l’unico che rievoca i ricordi, che richiama in vita i fantasmi del passato, provocando con acuta ironia tutti coloro che vogliono andare avanti e dimenticare. Tra una capriola e una bevuta, tra una telefonata e un ricordo, il clown ricostruisce la storia appena passata ed elabora una critica spietata della società tedesca a lui contemporanea.

Il Grande Dittatore
Charlie Chaplin, 1940
Hans Schnier è figlio di un grande capitalista che decide di intraprendere il mestiere di clown. L’evento scatenante che lo spinge a mettere in discussione l’intero mondo che lo circonda – compreso se stesso e la sua amata arte – è l’abbandono di Maria, la sua compagna, per un cattolico di nome Züpfner. Maria aveva vissuto con il protagonista in una relazione illegittima, pur essendo una fervente cattolica, sempre bisognosa di respirare “aria di cristianesimo”. Schnier non se ne capacita. Come può, una credente, essere anche adultera? Non è forse adulterio abbandonare il compagno a cui si è giurato amore eterno per sposarne un altro? E come può la Santa Chiesa celebrare come legittimo un matrimonio che si fonda sull’abbandono, sull’infrazione di un giuramento prestato? Queste riflessioni spingono il protagonista a scandagliare il mondo cattolico nel quale Maria lo aveva trascinato, fatto di personaggi ipocriti, di maschere di cera, di omertà e accondiscendenza. In questo circolo si aggirano personaggi come Herbert Kalis, comandante della Hitlerjugend di Bonn, noto a scuola per la sua crudeltà e per la sua intransigente fede politica, diventato un esempio di democrazia e tolleranza nell’ambiente cattolico del dopoguerra. Quei ragazzi che avevano imbracciato ai tempi della guerra il Panzerfaust, fanatici della resistenza e della difesa del Reich ad oltranza, sono diventati uomini in giacca e cravatta che frequentano i salotti buoni, che parlano di democrazia, progresso, pace e prosperità. Che pregano per la salvezza dell’intera umanità. E se Schnier prova a rievocare i ricordi della guerra e le atrocità da loro commesse in passato, questi rispondono indifferenti, con gli sguardi vuoti, come se non capissero a cosa ci si riferisca. L’atteggiamento antagonista e provocatore del pagliaccio mette in imbarazzo la sua compagna, la quale lo emargina dal gruppo fino ad abbandonarlo.

Altro gruppo di indifferenti è il nucleo famigliare. La madre di Schnier, che aveva assecondato sua figlia Henriette ad arruolarsi nella difesa antiaerea Flak, nel dopoguerra si era dedicata ad un comitato per l’integrazione razziale. Ogni volta che Hans cerca di ricordare la morte della sorella, i suoi genitori cambiano argomento. Nella cinica dimenticanza di un lutto mai elaborato, la vita della famiglia Schnier prosegue tranquilla. Eccezion fatta per Hans, il quale viene escluso ed emarginato anche da questa comunità.

Con il ginocchio dolorante a causa di un infortunio durante un’esibizione, in preda all’alcol, senza un soldo, Hans passa l’ultima parte del romanzo a fare telefonate alla ricerca disperata di un aiuto economico e umano. Il frigo è vuoto, la bottiglia anche, le sigarette sono finite. Maria non c’è, è solo in una casa vuota e impersonale – molto più anonima degli alberghi in cui dormiva durante le tournée – la sua vita è a pezzi, dietro l’apparente agio del suo appartamento, così come è a pezzi la Germania, dietro al piano Marshall e all’ipocrita normalità piccolo borghese. La comunità si chiude buttandolo fuori, il suo grande amore e la sua famiglia lo respingono, persino la sua arte gli sembra ormai impraticabile. Con la faccia truccata, zoppicante, imbraccia la chitarra e va in strada a cantare canzoni cattoliche, ridotto ad invisibile mendicante.

«Un clown, il cui effetto principale consiste nell’immobilità della maschera, deve mantenere il viso perfettamente mobile. Un tempo, prima di cominciare a fare i miei esercizi, usavo tirar fuori la lingua per sentirmi realmente vivo e presente prima di staccarmi di nuovo da me stesso. Più tardi abbandonai questo esercizio e presi a guardarmi attentamente in viso, senza far uso di nessun trucco e movimento, ogni giorno per almeno mezz’ora, finché alla fine non esistevo più: dal momento che non soffro di narcisismo, spesso mi sentivo prossimo alla pazzia. Dimenticavo semplicemente che ero io quella faccia che vedevo nello specchio, voltavo lo specchio e quando avevo finito gli esercizi, o quando più tardi, nel corso della giornata mi vedevo per caso allo specchio passando, mi spaventavo: c’era un estraneo nella mia stanza da bagno, al gabinetto; un tizio che non sapevo se fosse serio o buffo, un fantasma pallido con il naso lungo; e allora correvo più in fretta da Maria per vedermi nel suo viso. Da quando lei non c’è più non riesco più a fare i miei esercizi: ho paura di diventare pazzo».


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