martedì 26 aprile 2016

L’incubo di un re detronizzato. "La città delle donne" di Federico Fellini

Uscito nelle sale nel 1980, La città delle donne suscitò molte polemiche per il marcato antifemminismo che caratterizza la pellicola. Il protagonista, Snàporaz, interpretato da Marcello Mastroianni, incontra in treno una donna, la segue nel tentativo di possederla, e si ritrova in un covo di femministe che lo tormentano, lo umiliano, lo mettono sotto processo con l’accusa di essere un Maschio. Il ritratto delle donne che lottano per la propria emancipazione è, in pieno stile felliniano, grottesco. A queste donne aggressive e violente, il regista contrappone grandi seni e grandi sederi, morbidi rifugi per un perseguitato.
Sono passati trentasei anni da allora, i movimenti femministi sono ripiegati su se stessi e forse, nell’immaginario collettivo, è proprio la visione felliniana ad essere diventata egemone: le femministe erano una banda di scalmanate che non facevano altro che urlare. Erano delle estremiste, dei maschi al contrario oppure donne che avevano “imitato” ed ereditato, nel loro processo di emancipazione, il peggio del maschio. Ma in questo film c’è di più. Nel viaggio che il regista compie all’interno della psiche di un tipico “macho italiano” si dispiega un rapporto complesso tra gli uomini e le donne che ci dice molto dei timori, delle debolezze e delle insicurezze che si celano dietro il cinico sorrisetto da seduttore del Maschio.
Cominciamo allora a seguire il percorso disegnato da Fellini, con la potente fantasia e immaginazione che caratterizza la sua arte. Snàporaz è in treno. Vede una bella donna che siede di fronte a lui: lei lo guarda ammiccante, lo provoca e fa in modo che lui la segua. E lui, con un’espressione eccitata e inebetita – il ridicolo non caratterizza soltanto i personaggi femminili del film – la insegue. Scende dal treno, attraversa un boschetto e si ritrova in un albergo pieno di donne. Snàporaz si aggira tra le donne divertito, con un sorriso che è tra lo stupore, la distaccata ironia e la tenerezza paternalistica. Ma questa spavalderia dura poco: la donna che lui aveva seguito, cercando di sedurla con pose ridicole e infantili, lo smaschera davanti a tutte. Pronuncia un’invettiva che metterà quest’uomo all’angolo, che lo costringerà a fuggire. È l’inizio dell’incubo del “califfo” ormai detronizzato.
 
«Gli occhi di quell’uomo che circola fra di noi, con la sua faccia fintamente rispettosa e che dice che vuole informarsi, conoscerci meglio, perché solo conoscendoci meglio potrà cambiare il suo rapporto con noi e  che, di tutte le sue false e ipocrite giustificazioni, questa è la più turpe… Gli occhi di quest’uomo, dicevo, sono gli occhi del maschio di sempre. Che deformano tutto ciò che vedono nello specchio della derisione e della beffa. Il mascalzone è sempre lo stesso. Noi donne siamo solo dei pretesti per permettergli di raccontare, ancora una volta, il suo bestiario, il suo circo, il suo avanspettacolo nevrotico, e noi lì a far da pagliacce, da bayadère, da marziane. A far spettacolo per lui con la nostra passione e la nostra sofferenza. Questo lugubre, cupo, stremato califfo, sappia una volta per tutte che non siamo marziane! Vogliamo abitare la terra, questa terra, ma non più per far da concime, come avviene da quattromila anni!»

L’incubo che perseguita il protagonista di questa storia è la concretizzazione della paura più profonda che affligge l’uomo: le donne contestano radicalmente l’egemonia maschile, creando spazi propri di vita, di aggregazione, di ironia. Creano un proprio linguaggio che gli uomini non riescono a comprendere, un mondo in cui gli uomini non sono presi in considerazione se non come i vecchi padroni dai quali si sono definitivamente liberate. In questo processo di creazione di modi di vita alternativi al dominio maschile, il Maschio vede sgretolarsi il terreno sotto i suoi piedi, si vede spodestato dal proprio regno che diventa terra inospitale dalla quale fuggire. L’intera vicenda si dispiega come fuga da questo assurdo mondo invaso dalle “marziane”. Snàporaz troverà rifugio nella casa di un uomo, il Dr. Xavier Katzone, che cerca di resistere all’occupazione militare delle donne: la sua casa raccoglie una immensa collezione di ritratti femminili che emettono gemiti di piacere. Sono tutte le sue amanti, collezionate nel corso della sua vita da grande seduttore. Questa figura grottesca, assurda e caricaturale rappresenta un’epoca che ormai è stata superata, malgrado tutti i tentativi di resistere da parte degli uomini.
Nel corso della sua fuga, Snàporaz avrà un dialogo con sua moglie in cui lei lo metterà di fronte alla sua indifferenza, alla sua assenza, alla sua totale mancanza di considerazione e di rispetto. Lui comprenderà le ragioni di lei, ma sarà troppo tardi: resterà in un angolo da solo, mentre lei ballerà sorridente con una donna.
Nell’incubo felliniano le donne assumono un aspetto sempre più ambiguo, incomprensibile, dionisiaco:  hanno un mondo inaccessibile all’uomo, fatto di mistero e di equivocità. Emblematica è la scena in cui Mastroianni, nel tentativo di fuga, accetta un passaggio da alcune scalmanate che urlano, ridono e ascoltano musica disco. Il loro aspetto è inquietante, sembrano delle possedute. La visione che Fellini dà di queste donne si avvicina ai riti dionisiaci descritti nelle Baccanti di Euripide, riti riservati alle sole donne, il cui accesso era severamente vietato agli uomini. Riti in cui le donne esprimono la propria sessualità e interiorità liberata da tutte le regole imposte dalla razionalità maschile. La donna portatrice di una dimensione “demoniaca” irriducibile al dominio dell’uomo, che mette in crisi l’ordine costituito, la regolarità geometrica e gerarchica della società costruita secondo le leggi del Maschio. Una visione della donna che da sempre è radicata nell’uomo e che si è concretizzata in molte forme, dalla persecuzione delle “streghe” – uno dei motti delle femministe era proprio “Maschi tremate, le streghe son tornate!” – alla chiusura delle donne in casa, isolate nelle proprie cucine, alla violenza psicologica e fisica, fino alla cinica derisione dell’uomo contemporaneo di fronte al tentativo delle donne di creare un mondo che sia il proprio, creato, pensato e vissuto dalle donne senza il filtro e la coercizione della cultura fallocentrica.
Ciò che, a mio avviso, emerge da questo film non è tanto il desiderio di difendere un modello maschile che risulta, nella rappresentazione del regista, ormai indifendibile, né criticare da un punto di vista politico i movimenti femministi. Questa pellicola sembra esprimere una grande nostalgia, espressa in maniera geniale in una delle ultime scene del film, in cui Mastroianni è su uno scivolo nel quale compaiono le donne della sua infanzia, tutte procaci e materne: la nostalgia di un’infanzia perduta, di mondo che non c’è più, in cui tutte le donne erano protese a soddisfare l’ego del maschio, sempre amato e coccolato. La nostalgia di un tempo perduto e irrecuperabile, in cui le donne guardavano agli uomini con ammirazione, premura, affetto. Ora le donne guardano il maschio con disprezzo e ostilità, non sopportano più il suo dominio e se ne vogliono liberare; dal canto suo, il maschio si sente escluso, inutile, si arma di ricordi e vittimismo per potersi difendere. Una dialettica servo-padrone in cui il padrone scopre di essere sempre stato dipendente dal servo e rimpiange i fasti di un regno che non c’è più.

                                                                                                                                                                 

venerdì 22 aprile 2016

Tra storia, arte e natura: l'esperienza unica del Musaba

«Nel corso degli anni sono diventato un uomo. Ho viaggiato attraverso i continenti. Ma ho un solo legame profondo: con il Mediterraneo. Appartengo al Mediterraneo fortemente. Il Mediterraneo, re delle forme e della luce. E, nel Mediterraneo, la Calabria, luce decisiva e paesaggio imperativo.»



Dopo aver viaggiato per l'Europa, aver vissuto a Parigi, aver frequentato l'ambiente di Picasso e Le Corbusier, alla fine degli anni Sessanta l'artista Nik Spatari ha deciso di tornare nel suo luogo d'origine, Mammola, per dare vita ad un'esperienza nuova. Con la sua compagna di origine olandese, Hiske Maas, nel 1969 dà vita al Museo Santa Barbara, in un punto geografico che unisce tracce di un passato antichissimo, del passaggio romano, della presenza cristiana nella forma di un monastero certosino e poi cistercense, dei tempi moderni con la loro stazione ferroviaria poi dismessa: il tutto su di un'altura che sormonta un panorama calabrese, selvaggio e aspro, fatto del luccichio di un fiumiciattolo, di una pietraia, di fianchi di colline verdi di sterpi, di lucertole. Una superstrada col suo rumore sembra richiamare alla realtà del presente urbano, ma i piloni su cui la strada poggia sono dipinti e coloratissimi: segni lasciati da artisti di passaggio, che al Musaba hanno trovato uno spazio accogliente.
Il Musaba non è un luogo ma un'esperienza: le sue strutture sono abitate da Nik e Hiske e da studenti, artisti, visitatori a cui è dedicata una foresteria (oltre che da gatti pasciuti e amichevoli) e risuscitano, nell'essere ancora abitate e nel loro aspetto, le vestigia del passato. I tetti sono piastrellati, i cortili ospitano mosaici infiniti e ampie pareti libere aspettano ancora la creatività esuberante ed eclettica di Nik. Soffitti, sale, pavimenti, monumenti che fanno capolino tra le piante e lungo il sentiero, uniscono i simboli della tradizione cristiana, dalle storie dell'Antico Testamento alle immagini del Nuovo, a figure e stilemi del passato sumero, dalla storia di Gilgamesh a quella del Diluvio Universale; ogni simbolo, però, è filtrato da una mente immaginifica, tribale e punk. Alcuni simboli tornano più di altri, il riferimento alla coppia, a un che di mistico, al primitivo, agli animali del luogo che tornano sotto forma di compagni indivisibili dell'uomo e della donna, il personaggio di Giacobbe (alter-ego di Nik a cui è dedicato un grandioso affresco tra Michelangelo e i Pink Floyd, "Il sogno di Giacobbe", la cui realizzazione ha richiesto 4 anni, dal 1990 al 1994). Tutti simboli, però, proposti e riproposti in modo libero e anti-scolastico. Così, Cristo è crocifisso e risorto, però può anche avere otto braccia; Adamo ed Eva si triplicano, in una tendenza dal gusto futuristico a rappresentare il movimento; uno scarabeo nero, che ha accompagnato Nik nel corso del lavoro, può essere incluso nella raffigurazione della cacciata dall'Eden.
La grandissima opera musiva di Nik non è ancora un'opera compiuta, non è neanche lettera morta da museo: è un grande gioco, ancora in corso, sincretico e leggero. E il suo essere incompleto, oggi, dopo quasi 50 anni dalla fondazione del Musaba, sembra rivelarsi quasi
Nik Spatari e Hiske Maas negli anni Settanta
come un'intenzione, come un manifesto programmatico. Il Musaba, infatti, è un museo-parco-laboratorio, abitato e vivo, perennemente in progress. Studenti, volontari e artisti di passaggio possono contribuire al suo prendere forma giorno per giorno, così come negli anni Settanta la struttura per com'è oggi prese forma dai resti dismessi e abbandonati dei precedenti passaggi umani.
Il Musaba è un posto strano: unico nel suo fondere insieme natura e cultura (il "cotto" e il "crudo" di Lévy-Strauss), tra gatti beati all'ombra di steli piastrellate e lucertole che spiano benevole i mosaici e gli alberi da frutto, una figura umana in ferro alta 15 metri, filari di ulivi, un'enorme cisterna sotterranea, galline che razzolano senza allarmarsi per le presenze sconosciute. È un posto immune da fissità e conformismi, accogliente e fricchettone, giocoso, lisergico. Un laboratorio a cielo aperto da cui emergono opere psichedeliche, manualità da coltivare all'infinito, idee eretiche, allegrie libere ma inevitabilmente legate la territorio, alla Calabria aspra e solitaria, al Mediterraneo, culla di Nik e di tanta cultura troppo spesso trascurata.

lunedì 18 aprile 2016

Referendum fallito: la complicità dei media

Poco dopo le 23 di ieri sera, sul sito del Ministero dell'Interno compaiono i risultati delle prime sezioni: ovunque, l'affluenza è bassissima. Bene i comuni di Bard, Avigliano, Monopoli, Potenza, Martano e tanti altri che raggiungono abbondantemente il quorum. Eppure, non bastano ad alzare una media incredibilmente bassa. Nella storia d'Italia solo cinque consultazioni referendarie hanno registrato affluenze più basse (e di poco).
Eppure, questa volta, la colpa non è stata tutta del popolo bue.
Fa accapponare la pelle pensare che il Presidente del Consiglio di un Paese democratico abbia invitato i propri cittadini ad astenersi dal regolare esercizio di un proprio diritto, e che un ex Presidente della Repubblica gli abbia fatto eco: responsabili entrambi di un reato, quello di induzione all'astensione. L'invito rivolto ai cittadini italiani, contro la Costituzione e la legge, è stato quello di farsi, per un giorno ufficialmente, sudditi. Le ridicole argomentazioni a sostegno dell'astensionismo erano, tutto sommato, trasparenti: lasciateci fare gli interessi dei nostri amici (e fingete di credere che siamo sinceri nel parlare di occupazione e altre porcate: pia illusione, bugia sociale di quelle che si dicono a denti stretti).
Napolitano e Renzi, trasparenti dopo tutto, sì: la ministra zita del petroliere, sarà una cattiva compagnia per un Premier, ma rende tante cose chiare. Le lobby e gli interessi dei potenti non sono mai state così abbaglianti sotto la luce del sole e sotto quella dei riflettori (al caso Guidi è stata anche data una discreta rilevanza mediatica e pochi possono dire di non averne saputo nulla). Molto più barbina è stata la figura di Mattarella: meschina. Neppure a voler dire un secco "No", mascherato di colori demagogici e paternalistica commiserazione per i poveri idioti che la pensano diversamente. Al Presidente della Repubblica non si fa vilipendio: è stato il voto di Mattarella a fare vilipendio al Paese, alla dignità del popolo. Votare doveva, ma ben di nascosto, otto minuti dopo la fine di quasi tutti i telegiornali della sera: non sia mai che la gente veda, non sia mai che prenda esempio. Votare a sera tardi come un ladro, perché da ieri pare che in Italia esercitare il diritto di voto sia diventato un atto vergognoso.
Quella a cui abbiamo assistito è da definirsi senza mezzi termini una campagna di boicottaggio: contro il diritto che il popolo ha di difendere un bene pubblico, il sottosuolo marino, dai capricci dei petrolieri; contro il dovere che il sovrano ha di regnare.
Un ventennio di Berlusconismo scellerato ci ha insegnato come il potere sappia piegare i media agli interessi di pochi, e tramite quelli indottrinare il sovrano, istupidirlo, farne un bue. Eppure, la disinformazione che ha avuto luogo negli ultimi giorni e in particolare nella giornata di ieri non ha precedenti nell'Italia repubblicana. Sfogliate i giornali di ieri, spulciate le testate online: troverete un oppiaceo disgustoso, col sapore agre e il retrogusto amaro. Da un lato, il tentativo è sabotare il referendum, darlo per perso da mezzogiorno o perfino dal giorno prima, far notare quanto sia normale e giusto non votare, quanto siano inutilmente polemici i "referendari"; dall'altro, la mossa complementare è distrarre, non attirare troppo l'attenzione su questo momento rischioso ma presto passato, in cui il popolo se non narcotizzato a dovere rischia di alzarsi in piedi.

"Giusto votare ma per il momento prendo il sole", "Quante volte è stato usato il jolly dell'astensione", "Un caso giudiziario mai chiarito viene strumentalizzato in questi giorni per spingere il sì. Ma la realtà è ben diversa". Non sono slogan improvvisati da accaniti sostenitori del No sulle loro bacheche personali, ma titoli dell'Unità, con buona pace di Gramsci. E tra un invito all'astensione e uno al no, molto poco camuffati e molto poco costituzionali, la testata trova tempo e modo di titolare anche "Giornata mondiale della libertà di stampa". L'Unità, salvata dalla bancarotta dal governo Renzi e diventata voce ufficiale del padrone, ha continuato imperterrita a fare propaganda, prima e durante il referendum, per la linea del PD, che è la linea dei petrolieri e dei banchieri, che è la linea della passività popolare. E ricorda (forse per ridere!) la libertà di stampa, l'unico attributo che dia dignità a una testata giornalistica, l'indipendenza e l'integrità che sole possono conferirle lucidità di pensiero, imparzialità, utilità sociale, mentre stende per Renzi un tappeto di bava. La stampa in Italia non è mai stata muta come ieri. Muta, e se ha aperto bocca è stato per balbettare parolette da mentecatto. Sì, perché mentre le punte di diamante dell'informazione facevano disinformazione, il resto dei media massicciamente e senza interruzioni si dedicava alle armi di distrazione di massa. La programmazione televisiva di ieri è da tempo dei telefoni bianchi: da "Homefront" con James Franco e Winona Ryder su Rete 4 a "Non è stato mio figlio" con Gabriel Garko su Canale 5 (la rete ammiraglia della Mediaset e quella con gli ascolti più alti della televisione tutta!), da Barbara d'Urso con il suo programma lobotomizzatore a "Le iene" che avevano da pensare a truffe e ad altri cazzi loro. L'unico approfondimento politico su una rete che godeva di una certa autonomia fino a poco tempo fa, La 7, in prima serata parlava del carcere, se vada abolito o meno. Mentre l'affluenza alle urne languiva. Sempre su La 7, lo "Speciale referendum" parte alle 22.50, dieci minuti prima che il referendum si dica ufficialmente chiuso, quando nella maggior parte dei seggi si è già iniziato a chiudere tutto perché ormai chi vuoi che venga più.

Ricordo il meteo del Tg1, il venerdì prima del Referendum dei 4 Sì, nel 2011. Annunciarono bel tempo per il fine settimana e suggerirono agli italiani di godersi una giornata di mare. Sembrava che la manipolazione mediatica non potesse essere perfezionata ulteriormente. Invece, oggi il clima che si respira è da delitto Matteotti. Berlusconi usava tutto il proprio potere e ogni strumento disponibile (lecito e illecito) per il proprio esclusivo interesse, mentre Renzi è un fantoccio ambizioso, manipolato da interessi altrui in cambio di qualche briciola di potere.
Nel film "Novecento" di Bertolucci, Olmo dice guardando fisso in camera, guardando lo spettatore dritto in volto:


«I fascisti non sono mica come i funghi, che nascono così, in una notte. No. I fascisti sono stati i padroni a seminarli, li hanno voluti, li hanno pagati. E coi fascisti i padroni hanno guadagnato sempre di più, al punto che non sapevano più dove metterli i soldi.»

Ieri i padroni erano i piccoli industriali, oggi sono padroni più grossi. I mezzi sono rimasti in parte gli stessi, in parte più raffinati. Ma forse anche il popolo, sotto la crosta di intontimento, imborghesimento, qualunquismo e indifferenza è rimasto lo stesso. Spero che sappiamo occupare tutti gli spazi liberi, spero che sappiamo dare luogo a una nuova Resistenza. Aspettiamo insieme ottobre e speriamo che sia caldo.

martedì 12 aprile 2016

"Architettura e Individualismo" di Francesco Stilo

Le Scytes attaqués par Alexandre de Macedoine, 
jusques au milieu des déserts et des rochers qu'ils 
habitaient, dirent à ce conquérant: Tu n'es donc pas 
un dieu, puisque tu fais mal aux hommes! 

Tous les peuples de la terre diront à l'Alexandre 
du Nord: Vous êtes un homme! puisque vous voulez 
bien accueillir un systême social, qui contribuera au 
bonheur du genre humain.

[Così, l'architetto francese C. N. Ledoux (1736-1806) si rivolge a Sua Maestà l'Imperatore di tutte le Russie Alessandro I, nel presentare la sua opera "L'architecture considérée sous le rapport de l'art, des moeurs et de la législation".]


"L'unità" - Francesco Stilo


L'attuale crisi dell'architettura è determinata certamente da un complesso intreccio di ragioni che si mescolano ed emergono, con maggiore o minore forza, di volta in volta, condizionando e "compromettendo" il risultato, funzionale ed estetico, che l'architetto è impegnato a risolvere. Se da un lato, da un certo punto di vista propriamente interno alla disciplina, possiamo imputare parte delle responsabilità di questa crisi al recente sviluppo della tecnica, dal punto di vista degli strumenti del disegno, e da quello delle modalità costruttive (modellazione tridimensionale al personal computer, nuovi materiali, ecc), dall'altro, non possiamo non considerare un aspetto tanto sottovalutato quanto importante, qual è l'aspetto sociale di fondo che condiziona e interferisce con ogni attività messa in atto dal genere umano. La crisi delle ideologie, concretizzatasi a cavallo tra il vecchio ed il nuovo millennio, ha giocato certamente un ruolo di primo piano in questo senso, il passaggio da una dimensione collettiva ad una più propriamente individuale, in senso spinto, propria del mondo occidentale contemporaneo, ha fatto sì che l'opera architettonica, generalmente legata ad una visone specifica di ordine sociale e valoriale, si sia convertita, avvicinandosi in questo senso all'opera d'arte tout court, in una sorta di rivelazione intimista, espressione del singolo. L'architettura delle archistar, e se vogliamo lo stesso neologismo che pone l'architetto al pari di qualsiasi uomo di spettacolo, ci mette a disposizione una misura tangibile di questo passaggio, offrendoci, opere riconducibili all'autore al primo sguardo, opere strettamente legate al progettista, in evidente opposizione, molto spesso, con la realtà circostante. Così l'architetto, divenuto uomo di spettacolo riconosciuto e potente, in virtù della pervasività attuale della comunicazione massmediologica, impone la propria volontà e la propria idea personale indipendentemente dal contesto in cui va ad operare, non tiene conto quindi delle realtà storiche, sociali e culturali, che ogni luogo per sua natura rivela e racchiude. Tra i tanti esempi a disposizione, per ragioni contingenti, si può citare il progetto per il waterfront di Reggio Calabria eseguito dall'archistar irachena recentemente scomparsa Zaha Hadid. Senza voler formulare un giudizio di merito, ci si chiede, così di sfuggita, quali relazioni abbia il progetto proposto con la città dei bronzi e del bergamotto, con la storica Rhegion magno greca, con il mediterraneo. Un opera così concepita potrebbe benissimo essere collocata ovunque come in mezzo al deserto.
Con queste brevi considerazioni, non si vuol certo lasciare intendere l'idea sciocca che l'opera architettonica non debba contenere in sé l'impronta del progettista, questa sarà sempre visibile attraverso un'analisi più o meno approfondita del linguaggio architettonico, del segno e del simbolo; tuttavia è importante che l'individuo si confronti in quell'azione politica che lo vede impegnato nella ricerca di quella reciproca sintesi tra il sé e il collettivo, assumendo e interiorizzando quella consapevolezza per cui ad ogni azione, ad ogni progetto, corrisponde un preciso potere, una precisa volontà di agire sul mondo. Il fine dovrebbe essere il bene sociale, il bene per l'umanità nel suo complesso e non per l'individuo isolato e interiormente solitario che è destinato ad estinguersi. In questo senso, l'architettura delle archistar rivela tutta la sua debolezza concettuale e valoriale, rispecchiando perfettamente la crisi di un sistema sociale che rifiutando ogni punto fermo, ogni riferimento al "vero", se non il denaro, il capitale, contrastando il concetto di unità tra i saperi, brancola nel buio verso l'abisso.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...