lunedì 27 agosto 2012

"La bambina che amava Tom Gordon" di Stephen King


«Se lui vince, se Tom salva la partita, sarò salva anch'io

In questo libro, il grande Stephen King dà una prova straordinaria della sua versatilità. Chi si aspetta di rabbrividire, suggestionarsi e dover dormire con una luce accesa ha decisamente sbagliato libro. Certo, mettersi nei panni della piccola e indistruttibile protagonista è molto inquietante, ma questo non rende il libro un horror propriamente detto. 
La trama è semplice: Trisha, una bambina di nove anni, durante un'escursione si allontana dal sentiero e si smarrisce in un fitto e selvaggio bosco del Maine. Con lei soltanto un tramezzino, un pacchetto di patatine, una bottiglia d'acqua e una di Surge. Ma soprattutto, un walkman e il suo cappellino dei Red Sox autografata dal suo campione, il lanciatore Tom Gordon. Contro di lei: nove giorni di solitudine e fame, acquazzoni, nugoli di insetti, pantani... E soprattutto la presenza minacciosa che la sorveglia dal folto, spiandola nel buio durante la notte: il Dio dei Perduti.
Con la sua fervida fantasia, Trisha si crea la compagnia di Tom Gordon, «il palpito del suo cuore»: immaginare i suoi consigli e la sua vicinanza le darà forza durante la sua terribile disavventura, ed emularlo sarà la sua unica chance di vittoria. La narrazione si confonde tra realtà e immaginazione in un gioco di specchi.
Lo stile è piuttosto diverso da altri e più caratteristici libri di King, ma in fondo è adeguato alla giovane età della protagonista. Il ritmo è più lento, le descrizioni sono vivide e minuziose come sempre. Trovo molto bello e curioso il parallelismo fra la storia di Trisha e una partita di baseball: i diversi capitoli si chiamano come gli inning, l'epilogo si intitola Dopopartita. Le metafore sportive non mancano, e questo effettivamente spiazza un po' chi (come me) non ha mai capito una mazza del baseball. Tuttavia, l'insieme risulta originale e piacevole.
Personalmente, questo libro mi ha trasmesso una grande tenerezza: è l'avventura epica di una bambina, che trae forza dal suo grande amore per un personaggio praticamente immaginario. Dopo aver salvato una partita di baseball, Tom Gordon alza il dito verso il cielo: quel gesto, quel puntare a un Dio che sta dalla nostra parte, rincuora Trisha e le dà la forza di non arrendersi in mezzo a una palude o lungo un sentiero che sembra non condurre da nessuna parte. Di sperare che ci sia una salvezza, oltre gli sciami di vespe, il fango e gli scricchiolii notturni nel bosco.
La bambina che amava Tom Gordon è un libro che al principio mi ha lasciato perplessa, per le sue anomalie rispetto a certe pietre miliari di Stephen King e per la sua distanza da ciò che mi aspettavo. Al finale, mi ha conquistato. È una storia semplice e insieme potente, e il primo libro di Stephen King che mi sentirei di consigliare anche a un lettore giovanissimo o a chi si tenga alla larga dall'horror. È una storia vibrante di emozione e tenerissima che all'ultima pagina mi ha strappato un sorriso commosso.

«È nella natura di Dio intervenire nella parte bassa del nono.» 

sabato 4 agosto 2012

"Ieri" di Agota Kristof

«Oggi ricomincio la corsa idiota. Mi alzo alle cinque di mattina, mi lavo, mi faccio la barba, mi preparo un caffé e vado, corro fino alla piazza Principale, salgo sul bus, chiudo gli occhi, e tutto l'orrore della mia vita presente mi salta al collo.»

Nato «in un villaggio senza nome, in un paese senza importanza», Tobias Horvath reputa di vivere un'infanzia felice solo perché non ne conosce di migliori: sua madre Esther è «la ladra, la mendicante, la puttana del villaggio».
Il piccolo non conosce neppure l'identità di suo padre; sua madre gli rivolge a stento la parola e non l'ha mai baciato. Unico faro è l'amica Line che, seppure «brutta e cattiva», divide con lui la merenda e le ore scolastiche.
Una svolta violenta della sua vita, porta Tobias a fuggire dal suo Paese e a crearsi una nuova identità, di operaio immigrato preda della solitudine. A riempire il vuoto lasciato da Line, rimasta nel Paese natio, sono una tigre, un pianoforte, degli uccelli.
«Incubi, nient'altro».
Tobias scrive di loro e brucia i fogli, come per esorcizzarli, mentre aspetta l'arrivo di una donna misteriosa, la sua donna, la sua vita, a cui ha dato il nome di Line. 
Ma non è una donna qualunque ad arrivare un giorno: è proprio quella Line!
Un libro che si sviscera nella continua tensione tra quello che era e quello che è, dove "ieri tutto era più bello" perché non contaminato dall'orrendo irrompere dell'età matura che inchioda all'inattuabilità dei sogni. 
Lo stile lapidario dell'autrice si sposa benissimo con l'inquietudine di Tobias, presentata in maniera superba attraverso un lungo flusso di coscienza che pian piano manifesta l'impossibilità di un amore e di un domani che sia disteso come l'ieri. 
Gli spunti di riflessione sono molti e tutti di una bellezza rara. Da leggere e rileggere.

 «Non scrivo più.»


venerdì 3 agosto 2012

"La casa dell'incesto" di Anaïs Nin


«L'urto tra le loro somiglianze, si spande l'odore della tamerice e della sabbia, di gusci marci e di alghe morte, il loro amore come inchiostro di seppia, un banchetto di veleni.»


«Vedo il simbolico della nostra vita. Io vivo su due livelli, uno umano e uno poetico. Colgo le parabole, le allegorie». Così Anaïs Nin disse a Henry Miller, dopo avergli mostrato le prime pagine, surrealiste, de La casa dell'incesto.
Il racconto (ma è poi giusto chiamarlo racconto? Non è piuttosto un'esplosione di poesia?), infatti, è sbocciato in una dimensione onirica e simbolica, fantasmagorica, piena di incanto.
Certo, il surrealismo sfrenato di questa breve opera a metà tra la prosa e la poesia disorienta un po'. Solo alla fine, dopo essere passati attraverso le enigmatiche figure di Sabina, Jeanne e del Cristo moderno, si afferra meglio il messaggio dell'autrice. E il significato del titolo.
Perché la casa dell'incesto? Nelle ultime pagine, che descrivono l'interno di questa casa a metà fra un ricordo e un'allucinazione, Anaïs Nin inserisce un vivido ritratto di Lot e sua figlia, protagonisti dell'incesto più famoso e spudorato della Bibbia. Ma non è questo incesto reale a dare il titolo al racconto: è l'incesto metaforico di Narciso. Di chi si innamora non del proprio fratello, ma del proprio sé stesso che riconosce nella loro somiglianza. E' un amore finto, autocontemplativo, autoreferenziale: è una casa che marcisce nel chiuso, che collassa su sé stessa.
Questo racconto, che l'autrice definì «la mia stagione all'inferno», è la descrizione di questa megalomania, di questa eccentricità che sconfina nella follia, nell'angoscia e nella paura. Paura della morte, della solitudine ma anche del riscoprirsi non più sola (ma rispecchiata e ripetuta in quel fratello tanto somigliante).
Si legge La casa dell'incesto d'un fiato: il vortice variopinto e pulsante delle parole cattura e non lascia andare prima di aver raggiunto l'ultima pagina. Lo stile non è solo ricercato e raffinato, ma sontuoso, esotico, incantevole.
Quadri vividi vengono abilmente dipinti e abbandonati: foreste di alberi decapitati, donne incise nel bamboo, enormi uova di marmo bianco poggiate su dischi d'argento. Sentieri di ghiaia vengono descritti attraverso il connubio dei minerali, le stanze della casa dell'incesto sono fluttuanti e infinite, piene di gemme preziose e tappeti scarlatti. I cieli sono di zaffiro e i mari di corallo, il canto di una donna squarcia le vele delle navi e perfino le nuvole. Le donne vestono lunghi abiti che frusciano contro le loro caviglie e bracciali d'acciaio cingono i loro polsi, scandendo il battito dei loro cuori.
Le atmosfere e le suggestioni sono mediorientali, da Mille e una notte, nonostante si nomini New York e una delle protagoniste abbia un nome francese.
Enigmatico e poetico, intenso e vivido, ricchissimo: La casa dell'incesto è un incanto da non perdere.


«Quando mio fratello sedeva al sole e l'ombra del suo viso si disegnava sullo schienale della sedia, io baciavo quell'ombra. Baciavo la sua ombra e quel bacio non lo toccava, quel bacio si perdeva nell'aria e si confondeva con l'ombra. Il nostro reciproco amore è come il bacio di una lunga ombra, senza alcuna speranza di realtà.»

 
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