venerdì 11 febbraio 2022

Il lavoro e il sogno della contemporaneità

 

In un’epoca in cui, nella civiltà occidentale a capitalismo avanzato, il lavoro è diventato sempre meno necessario, esso si vela di caratteristiche sempre più magiche e fantasmagoriche, miraggio che promette appagamento, sicurezza economica, fiducia in se stessi, riposo dopo tanti e spesso vani sforzi.

L’idea di trovare un Lavoro che ci sollevi finalmente dall’insopportabile peso dei mille “lavoretti”che si è costretti a fare per vivere, dei tanti compromessi per poter essere accettati, riconosciuti e apprezzati in un determinato ambiente sociale – sia questo la famiglia, la cerchia di amici, l’azienda in cui si vuole far carriera, l’accademia o il bar sotto casa – è il faro che guida la nostra condotta nel rapporto con noi stessi e con gli altri, con i pari e con i superiori.

Pochi di noi nati nel 1990 o giù di lì possono negare di aver sentito quel peso e quell’angoscia derivanti da un profondo senso di inadeguatezza e di smarrimento dovuti al fatto di essersi trovati sospesi nel vuoto dopo aver percorso tutto d’un fiato una strada che ci sembrava certa e sicura. Quella strada che i nostri genitori avevano percorso o sulla quale ci avevano immaginati e sognati, felici e grati dei loro sforzi.

Le cose sono andate diversamente. E continuano ad andare diversamente per le generazioni successive. Quelle strade non sono più sicure, ma piene di buche e insidie, di trappole in cui si può cadere. E morire.

Il sogno di un lavoro sicuro e appagante si trasforma in un incubo sia perché è difficilissimo da raggiungere e richiede molto tempo e fatica, sia perché questo traguardo così importante, posto in cima ad un’altissima montagna che siamo spinti a raggiungere, condiziona tutta la nostra esistenza, il nostro presente, che diventa un impercettibile passaggio tra un passato da dimenticare e un futuro da inseguire.

In una società in cui la fatica non è più necessaria, come giustificare questa corsa insensata? Più il lavoro diventa inutile, più l’individuo è valutato sulla base delle proprie capacità prestazionali e delle proprie competenze specialistiche. Se da un punto di vista oggettivo si fa concreta la possibilità di vivere degnamente senza doversi sobbarcare la fatica del lavoro, dal punto di vista soggettivo gli individui si convincono che la loro professione qualificata sarà ciò che li renderà felici, protagonisti all’interno della società, amati e rispettati. Gli individui si convincono che una volta raggiunto il loro scopo non saranno più soli, che non dovranno più lottare, che avranno vinto sulle pressioni sociali. Noi uomini contemporanei occidentali viviamo nella contraddittoria e illusoria convinzione che possiamo diventare liberi dall’angoscia che ci viene dalla società, dal grande Altro che ci giudica e ci osserva – che per ognuno di noi assume un volto diverso – solo se ne assecondiamo ogni richiesta o, ancora meglio, se riusciamo ad intuire anticipatamente queste richieste e a soddisfarle ancor prima che ci vengano fatte.

Siamo educati e diretti verso la “realizzazione” di noi stessi, che non è estrinsecazione libera e gioiosa della nostra personalità, ma darwiniano adattamento alle condizioni ambientali, a quella seconda natura che è la nostra civiltà. Oggi le condizioni ambientali si fanno sempre più dure e i sacrifici necessari per l’adattamento sempre più dolorosi. I sintomi, i ritorni di ciò che viene rimosso, le coazioni a ripetere riemergono sempre più frequenti.

 Inquietante, sorge un dubbio: è davvero necessario? Ne va davvero della nostra sopravvivenza? Se non si riesce a vincere la lotta per l’adattamento è necessario rinunciare a vivere?

Comincio a credere che nella risposta che diamo a questa domanda ne vada davvero della nostra vita. Ma in un senso contrario a quello dell’ideologia della prestazione e della “realizzazione di sé”. Penso che inseguire questo falso idolo stia diventando pericoloso per la nostra vita, che l’adattamento all’ambiente non sia più giustificato dalla necessità della sopravvivenza ma che, al contrario, ci conduca alla morte. Le modalità e le manifestazioni di questo principio distruttivo e mortifero sono innumerevoli,  vanno dalla morte intesa in senso metaforico come annichilimento delle pulsioni più vitali e creative degli esseri umani – e non solo – alla morte reale.

D’altro canto penso che ogni manifestazione di rifiuto di questa logica annichilente sia un moto della vita che non riesce a negare se stessa e che raccoglie le sue poche e deboli energie per fronteggiare il processo della sua distruzione. Molto probabilmente mancare del tutto o in parte l’adattamento potrebbe salvarci dalla morte, magari permetterci di fare esperienza di forme di appagamento differenti, di scoprire una nuova vita. Più morbida, più dolce, più adatta a noi.

 

 

 

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