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martedì 26 giugno 2018

"L'anima e il mondo. Francesco De Sanctis tra filosofia, critica letteraria e teoria della letteratura" di Emiliano Alessandroni

De Sanctis incontra l'estetica hegeliana attorno al 1843 e approfondisce la conoscenza di Hegel confrontandosi, negli anni della prigionia, con dei testi nell'edizione originale tedesca. Ne resta segnato e come scisso: negli anni a seguire, con il raffinarsi delle sue posizioni critiche ed estetiche, opera una vera e propria (come scrive Sergio Landucci) «scissione tra il "metodo" e il "sistema" di Hegel». De Sanctis sposa il metodo ma rigetta il sistema; in particolare è costretto ad emendarlo nelle sue concezioni estetiche, che vogliono l'arte mera manifestazione sensibile dell'idea, priva dunque di un proprio statuto autonomo, e che ne pronosticano la «morte» con il tramonto dell'era romantica.
Il rapporto complesso con Hegel non è l'unica venatura polemica che attraversa l'opera di De Sanctis (ed essendo la sua un'opera essenzialmente militante, le è in certa misura "connaturato" un antagonismo teoretico ed ideologico con altre interpretazioni dell'arte in generale e della vita culturale italiana in particolare). Gli anni dell'elaborazione teorica di De Sanctis si inseriscono in un quadro di crisi culturale, quella «crisi di fine secolo» che vede scontrarsi con attriti epocali gli agglomerati titanici del «positivismo soverchiante» (come ne scrisse Croce in Storia d'Italia), del giovane marxismo e di un rinascente e non esaurito idealismo.
L'aspra lotta si conduce sui terreni della letteratura e della critica letteraria, della filosofia della storia, dell'estetica. Immerso in tale temperie, De Sanctis decide di contrastare non solo l'impianto teorico hegeliano, a cui pure, quanto il giovane marxismo, è debitore, ma anche e conseguentemente le posizioni di Benedetto Croce in merito alla metastoricità dei quattro "concetti puri" dell'arte, della logica, dell'economia e dell'etica. Di contro a tale pretesa e alla tesi hegeliana dell'opera letteraria come pura forma, De Sanctis rivendica l'unità storicistica di forma e contenuto, di vita culturale e nazionale, e gli esiti storico-politici di tale unità con i quali si confronterà, pochi decenni più tardi, il Gramsci dei Quaderni.
L'affluente, tra i più importanti e controversi della cultura italiana, che discende da Hegel a De Sanctis e a Gramsci, riverbera nell'intervento di Togliatti alla Commissione culturale nazionale del Pci del 3 aprile 1952 (ricordato nell'introduzione al saggio "L'anima e il mondo"), nel quale l'allora segretario nazionale del partito affermò che la cultura socialista «è tale per il suo contenuto, ma è nazionale per la forma» e che «il pensatore di cui in questo campo dobbiamo saper valutare sia le posizioni progressive che i limiti, è prima di tutto Francesco De Sanctis».
Il saggio di Emiliano Alessandroni "L'anima e il mondo. Francesco De Sanctis tra filosofia, critica letteraria e teoria della letteratura" si inserisce in tale alveo, proponendosi di ripercorrere l'opera di De Sanctis ma soprattutto di affrontare la questione della sua eredità, della comprensione dei suoi limiti storici ma anche della validità della sua lezione. Alessandroni raccoglie la sfida del «diffuso antidesanctisismo di ritorno» partorito, o almeno germogliato sullo stesso terreno ideologico, di quella «condizione postmoderna» negatrice dell'universale ed esaltatrice del particolare. La filosofia del capitalismo maturo rigetta le grandi narrazioni, fa assurgere la negazione dell'ideologia ad ideologia, rifiuta alla storia ogni andamento progressivo e ogni tensione teleologica, rigetta l'istituzione tout court, demolisce l'assunto hegeliano del reale come razionale e lascia solo il pulviscolo del soggettivismo etico ed estetico a colmare l'immenso spazio vuoto, il pressoché infinito margine di manovra dell'immaginazione. Ormai celebrato il «funerale dell'idea», quella grossa macchina ottusa e coercitiva che intrappola e soffoca la soggettività, si può asserire che la «differenza» ha preso ormai il posto della «dialettica» e festeggiare, finalmente, il dispiegarsi di ogni libertà umana (individuale).
La crisi dell'oggettivismo, del realismo, della Ragione hegeliana porta con sé la «crisi della critica». Il Geist, l'universale respiro della storia, viene sostituito dall'«immediatezza dionisiaca» di cui scrive Giorgio Colli in Scritti su Nietzsche. Abbandonata ogni pretesa di rinvenimento di "vero" nell'"intero", sfuma la possibilità di rintracciare la razionalità del sensibile, l'oggettività nell'artistico. L'ontologia perde qualunque significato e l'attività esegetica perde qualunque valore e utilità pubblica. Da tale processo De Sanctis non può che restare travolto.
Alessandroni, che si offre come avvocato dell'«imputato De Sanctis», riporta la critiche mosse all'autore irpino (e, per mezzo di lui, a Gramsci e al marxismo in generale) da Asor Rosa in Il "diagramma De Sanctis" e il nostro:

«La letteratura italiana non può essere subordinata alla storia etica e civile della nazione italiana».

Questa tesi, così lapidariamente esposta, è l'indice di una temperie culturale che crocifigge l'intellettuale engagé e denuncia ogni contaminazione socio-politica (e, negli echi crociani, perfino storica) nella sfera letteraria ed artistica in generale. L'intangibilità di un'arte metastorica tutela questa dal rischio della disonestà intellettuale, della frode ideologica, del tentativo di subordinare, appunto, l'estetico all'etico.
Alessandroni denuncia la «liquidazione sommaria» di De Sanctis operata in nome di una guerra allo «storicismo - desanctisiano, crociano, gramsciano», a quella connessione tra filosofia, storia e politica screditata dal pensiero postmoderno e postideologico. "Liquidazione" che è necessario denunciare proprio e massimamente in quanto "sommaria": la frenesia anti-ideologica che condanna De Sanctis per presunto abuso di categorie etico-politiche nella critica letteraria e per eccessiva politicizzazione delle stanze sacre e apolitiche dell'arte, gli attribuisce grossolanamente la posizione di un'arte per statuto subordinata ad altro, che sia l'etica o la politica. La storicità dell'arte e la sua intrinseca unità di formale e materiale, rivendicate da De Sanctis, insieme all'analisi socio-politica dell'oggetto artistico, non sono sufficienti a privare l'arte di uno statuto autonomo o di una piena dignità ontologica, né ne hanno l'intenzione. Scrive De Sanctis:

«La moralità è una buona cosa. Ma l'essere stati l'Ariosto o il Machiavelli immorali, ha così poco a fare con la storia letteraria delle loro opere, come l'immoralità di Bacone ha poco a fare col suo Organo. Se ne può parlare per incidente, ma non a criterio del merito delle loro scritture».

Si legge qui la rivendicazione dell'autonomia dell'arte, insieme, ancora una volta, alla traccia di Hegel: sono le stesse leggi estetiche, che esclusivamente dalla natura dell'oggetto estetico discendono, a rivelare il «torpore spirituale» delle opere che abbiano una finalità estrinseca, estranea all'ambito dell'arte. È in tali opere che si verifica quella subordinazione dell'arte ad altro, che viene malamente imputata a De Sanctis, e che le rivela come oggetti non artistici in senso proprio, al pari di opuscoli di propaganda o romanzi a tesi scritti su commissione.
L'autentico diagramma De Sanctis dimostra di essere, di contro alle semplificazioni che lo rendono facile bersaglio della critica postmoderna e dei detrattori della tradizione marxista e del realismo (socialista), tutto interno all'orizzonte estetico di ascendenza hegeliana, e il suo autore valorizza la pienezza ontologica dell'opera d'arte sia in qualità di critico letterario che in qualità di teorico.
Il saggio di Emiliano Alessandroni ripercorre la genealogia del pensiero debole, mostra filiazioni e contraddizioni da Nietzsche a noi, riprende le critiche più o meno fondate all'approccio desanctisiano alla cultura e vi risponde puntualmente, sorretto da una bibliografia estesa e da uno stile espositivo allo stesso tempo minuzioso e chiaro. È un saggio militante, che non si limita a fare storia della letteratura, ma guarda al presente con acutezza e rigore teorico. "L'anima e il mondo" è una lettura che illustra ed interroga: sul senso della letteratura e sulla politicità dell'arte, su alcune categorie culturali e politiche in uso oggi, sulla possibilità e sulla necessità di recuperare un orizzonte comune e un senso collettivo dell'esistere e del fare arte. È facile ammirare questo saggio per la sua solidità, specie nei giorni culturalmente travagliati dell'individualismo neoliberista come somma libertà, della pretesa "trasversalità" del politico, dell'impoliticità assurta a patente di onestà intellettuale, della demonizzazione dell'ideologia e perfino della negazione per essa di ogni residuo significato storico.

sabato 25 aprile 2015

"I figli di Alcide non sono mai morti": i fratelli Cervi e la Liberazione

«Ma io scrivo ancora parole d'amore,
e anche questa è una lettera d'amore
alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi,
non alle sette stelle dell'Orsa: ai sette emiliani
dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d'amore nel silenzio.

Non sapevano soldati, filosofi, poeti,
di questo umanesimo di razza contadina.
L'amore, la morte, in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,
non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.»

[Ai fratelli Cervi, alla loro Italia di Salvatore Quasimodo]

I fratelli Cervi non erano dirigenti del PCI in clandestinistà, né fini intellettuali, né antifascisti idealisti di ispirazione crociana. Erano contadini della Bassa padana, erano affittuari di un appezzamento a Olmo di Gattatico e lo lavoravano con i metodi più tradizionali e pesanti prima di potersi permettere un trattore. Il terzogenito Aldo risulterà il più istruito dei sette, avendo potuto apprendere non solo dal lavoro dei campi ma anche da quella che chiamerà "l'università della prigione" (dove sconta tre anni per errore ed eccesso di zelo, avendo ferito a un dito un tenente colonnello che non aveva risposto al chi va là). L'antifascismo che anima i sette maschi della figliata Cervi fino a costituirsi in banda e farsi eroi e martiti della Resistenza non passa solo per la lettura dei libri proibiti dal regime, che Aldo e i suoi fratelli leggono e riuniscono in biblioteca, esortando compagni e vicini a leggerne a loro volta. Passa anche per il loro essere brave persone, pronte a sacrificare la propria tranquillità domestica e bucolica per liberare gli italiani che "hanno dormito per diciotto anni", come afferma stizzito Aldo (Gian Maria Volonté) nella trasposizione cinematografica del libro in cui Alcide Cervi racconta la storia dei suoi sette figli, partigiani rastrellati e fucilati dai fascisti. Dal nonno Agostino Cervi che capeggiò la rivolta contro la tassa sul macinato del 1869, la "tradizione" di casa Cervi era quella di una come istintiva opposizione alla diseguaglianza sociale.
I fratelli Cervi non si fecero partigiani per il piacere di brandire fucili o darsi allo sciacallaggio, come i più ignoranti rinfacciano agli eroi della Resistenza. Di sette maschi, sei si fecero riformare (uno con la scusa di un'ernia, un altro riconoscendo il figlio di Aldo come suo e risultando così padre di famiglia numerosa): il rifiuto netto è per la guerra ingiusta e dannosa, che va ripudiata (come poi scriveranno i nostri Padri Costituenti). Non è certo la vigliaccheria a far tirare indietro i Cervi, che imbracceranno sì il fucile, ma per la causa che riterranno giusta e che costerà loro la vita. Le armi sono l'ultima scelta, quella che non si vorrebbe fare, ma che a volte è dolorosamente necessario fare. Sempre nel film diretto da Gianni Puccini, Aldo parla di quanto ha imparato in galera sui fascisti: «non bisogna mai dargli tregua, non fermarsi mai, fargli sempre sentire il peso della nostra presenza. Con il lavoro, con la parola, con le armi se necessario.»
Così si resiste: con il lavoro e le armi, e con la parola che passa per l'insegnamento, per l'impegno intellettuale oltre che morale, per la carta stampata (durante il regime, la carta proibita). Questa è la più grande lezione che i fratelli Cervi ci abbiano lasciato: che di fronte all'ingiustizia resistere si deve, anche se costa molto, anche se è spaventoso. E che per farlo bene occorre sapere, occorre scrollare gli altri dal sonno, bisogna accendere biblioteche come falò per illuminare, per diffondere la cultura, per fare strabuzzare gli occhi e scuotere dal torpore dell'indifferenza, dell'abulia da cui Antonio Gramsci ci ha messi in guardia:
 

«L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare

Che nessuno si consoli con la comoda scusa della propria indifferenza-innocenza, perché una simile categoria storica non esiste. Esiste il passivo lasciare fare, che è un consenso silenzioso. Ed esiste il consenso acritico, che non tace ma urla per coprire le voci dissenzienti, per coprire l'eco terrificante del suo vuoto, ottuso obbedire.

 Il film del 1968, "I sette fratelli Cervi", racconta la loro storia con sobrietà e naturalezza, senza nulla concedere ai fasti dell'epopea o ai toni eroici di una santificazione postuma. Della famiglia Cervi ci mostra la semplicità contadina e l'umanità, dalla vita sentimentale di Aldo alle preoccupazioni della mamma-chioccia Genoeffa (che poco dopo l'eccidio dei figli maschi muore di crepacuore). Aldo-Gian Maria Volontè si lascia accompagnare senza retorica nel percorso di maturazione della propria coscienza politica, di consolidamento dei propri ideali di giustizia sociale, che vanno dal cattolicesimo a cui rivendica l'appartenenza al Manifesto del partito comunista che legge in carcere.
Noi di Caratteri Vaganti vi consigliamo la visione di questo film per riscoprire e meglio ricordare un tassello della nostra storia. Papà Alcide Cervi, ricevuta una medaglia che lo raffigurava come una quercia con sette rami mozzati, disse che di questa quercia occorreva guardare il seme, che è l'ideale nella testa dell'uomo. A noi piace ricordare i fratelli Cervi, Duccio Galimberti, Felice Cascione e tutti gli altri che non vollero restare indifferenti, nella certezza che la memoria storica sappia dissodare il terreno su cui questo seme possa attecchire.

venerdì 12 dicembre 2014

La cultura popolare e i neolalici imbecilli

In un film-saggio di Giorgio Baratta, Dario Fo racconta di Gramsci critico teatrale. Lo fa con la sua solita maniera affezionata e affabulatrice, soffermandosi su quanto di più originale contraddistingueva l’attività critica di Gramsci: il divertirsi assistendo ad uno spettacolo comico, ad esempio. Dario Fo fa notare come non sia affatto banale: i critici, spiega alla luce della sua vasta esperienza, tendenzialmente non riescono a godersi gli spettacoli teatrali perché non sanno dimenticare di essere critici, e finiscono col risultare perfino infastiditi che attorno a loro ci sia un pubblico che si emoziona e diverte mentre loro mantengono il contegno e il distacco di chi sta praticando la propria professione. Antonio Gramsci non era un critico di tal fatta: non solo godeva gli spettacoli cui assisteva, fruitore-critico tra i semplici fruitori, ma dedicava anche una precipua attenzione alle reazioni del pubblico. Le sue osservazioni benevole, il suo coinvolgimento tutt’altro che snobistico rivelano delle coordinate importanti del suo pensiero-prassi e del suo atteggiamento nei confronti del popolo non intellettuale.
Soffermiamoci sull'immagine offerta da Dario Fo, quella di Gramsci assiso tra gli spettatori paganti per assistere ad uno spettacolo di Pirandello o di Ibsen, per inquadrare Gramsci in relazione alla cultura popolare e allo stesso popolo fruitore di essa.
In una lettera a Tania, Gramsci «si vanta di saper “razzolare” anche nei “letamai” (o di riuscire a “cavar sangue anche da una rapa”), cioè di possedere “una capacità abbastanza felice di trovare un qualche lato interessante anche nella più bassa produzione intellettuale”».
Risultato della frustrazione della reclusione carceraria in cui anche le letture più insulse facilitano lo scorrere del tempo; anche della carenza di buoni libri e di un piano di studio metodico e sistematico (di cui Gramsci si lamenta accoratamente in diversi luoghi, prima di iniziare la stesura dei Quaderni); ma la faccenda non si esaurisce in queste contingenze. Nella sua produzione carceraria, Gramsci si sofferma attentamente sulla cultura e sulla letteratura popolare, di cui intende mettere a fuoco le caratteristiche ma soprattutto le esigenze di pubblico che ne provocano l’insorgenza. Questo proposito è manifesto già dal primo Quaderno, nel quale Antonio innanzitutto annota gli argomenti di studio cui vorrà dedicarsi:

«4) La letteratura popolare dei “romanzi d’appendice” e le ragioni della sua persistente fortuna. […]
7) Il concetto di folklore».

Ho riportato anche il settimo punto dell’elenco, che può apparire argomento pur di poco divergente, attenendomi alle considerazioni di Gramsci stesso, dal momento che il suo primo riferimento alla cultura popolare la considera proprio nel senso di «folklore», ponendola in contrasto con la “cultura moderna”, oltre che con quella “alta”. Successivamente, nel Quaderno 14, Gramsci precisa che folklore e cultura popolare non sono esattamente sinonimi, ma il primo coincide con la seconda nel suo «grado infimo». La cultura popolare in senso ampio, come insieme che includa il sottoinsieme “folklore”, sarà piuttosto il mondo del “senso comune”, con la sua infarinatura di ogni argomento, secondo le sedimentazioni lasciate dalle scienze come dalla filosofia nella cultura orale, talvolta deformante. È una sorta di serbatoio di potenzialità di alternativa alla cultura dominante, e che può sfociare in una direzione consapevole, sfuggendo al mero sovversivismo, solo grazie all’intervento mediatore ed educatore degli intellettuali.
Per quanto riguarda questa funzione “educativa”, non si deve, nel risalire alla concezione gramsciana di “cultura popolare”, cadere nell’inganno di ritenerla coincidente con un tipo di letteratura meramente “pedagogica”, per ragioni per lo più contingenti: quando Gramsci scrive a questo riguardo, ha presenti le posizioni di alcuni suoi contemporanei, dalle quali ritiene giustamente di doversi dissociare. È il caso del
Quaderno 8, nel quale Gramsci si sofferma a considerare un libro della Brenna intitolato La letteratura educativa popolare italiana nel secolo XIX e la relativa recensione della professoressa Formiggini-Santamaria. La seconda rimprovera alla prima di non aver precisato quali siano i «libri adatti […] alla povera mentalità di lavoratori del braccio».
E se la Brenna pecca di snobismo oltre che di imprecisione, anche la Formiggini-Santamaria è accusata da Gramsci dal medesimo peccato:

«La Formiggini insiste sulla parola “educativa” ma non indica il contenuto che dovrebbe avere un tale concetto, eppure la quistione è tutta qui. La “tendenziosità” della letteratura popolare [educativa] d’intenzione è così insipida e falsa, risponde così poco agli interessi mentali del popolo che l’impopolarità è la sanzione giusta».

Gramsci dopo anni di detenzione.
Una pedagogia di tipo paternalistico non avrà come esito o come ispirazione l’emancipazione della massa-operaia-lettrice, quanto piuttosto tenderà a conseguire il «mantenimento della sua condizione di inferiorità». Pertanto, finisce con l’essere non solo poco utile, quanto perfino dannosa e offensiva. Alle preoccupazioni di Gramsci che la letteratura popolare non sia centellinata dall’alto tenendo conto di somministrare ai lettori «arretrati» opere adatte alle loro deficienze culturali e linguistiche, quindi badando che siano «di stile non aulico e ricercato» e che rientrino tra quelle che «prendono ad argomento le lievi vicende e la serena natura», Ascanio Celestini risponderebbe con ironia: «Il popolo è un bambino!».
Eppure, la letteratura popolare non è neppure quella elaborata dagli operai per essere letta dagli operai: le posizioni proletkult’iste, non ancora mature neppure nella loro patria sovietica, non trovano alcuna corrispondenza nel pensiero gramsciano.
Auspicare una cultura del genere sarebbe stato poco degno di un pensatore fine come Gramsci, visti i suoi caratteri evidentemente settari e fanatici, che arrivano a rinnegare l’intera produzione culturale e artistica “borghese” dei secoli precedenti, con giustificazioni a loro modo ideologicamente coerenti eppure risultati culturali devastanti; la storia, del resto, ha dimostrato quanto il proletkult’ fosse una pensata fallimentare.
L’ultima accezione di “cultura popolare”, quella che Gramsci riconosce e sulla quale si sofferma con attenzione, fa capo alla «letteratura mercantile» (anche se non si esaurisce in essa, che ne è una sezione). Si tratta di quella letteratura cui è conferito un valore non intrinseco (inerente alla sfera dell’arte) ma estrinseco, con riferimento alla sua vendibilità e alla sua possibilità di diffusione. Questo tipo di letteratura, scrive Gramsci, non va trascurato e ignorato: al contrario, esso fornisce dei dati estremamente interessanti su quali siano i bisogni letterari e culturali della popolazione, ed è propedeutico porsi questo tipo di domande per poter delineare una sorta di catalogo dei gusti popolari (cosa che Gramsci farà soffermandosi sul poliziesco, sul sentimentale, sul romanzo di puro intrigo, quello d’avventure eccetera). Non è questo un interesse
puramente tabellario e libresco, ma uno snodo molto interessante da cui possono dipanarsi differenti percorsi teorici, ad esempio: quali sono i bisogni popolari in fatto di letteratura? Cosa il popolo desidera leggere? In risposta a questo quesito, Gramsci definisce Il Conte di Montecristo come «il più “oppiaceo” dei romanzi popolari: quale uomo del popolo non crede di aver subito un’ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla “punizione” da infliggere loro?».
Secondo quesito, legato al primo: perché in Italia non è possibile che si dia letteratura popolare e artistica (questo era vero negli anni ’20 e forse lo è ancora oggi, se Fabio Volo non si schioda per una settimana dal podio dei best-seller)?
Una riposta a questo importante quesito risiede nel pregiudizio espresso da Luigi Volpicelli per cui il popolo avrebbe «amato sempre l’arte più per quello che non è arte che per ciò che è essenziale all’arte», essendo i porci incapaci di cogliere la bellezza delle perle. Gramsci dà tutt’altra spiegazione e se uno dei due poli è colpevole della frattura intellettuali-massa, non è il secondo. Scrive nel Quaderno che quella di Volpicelli è:
«osservazione senza costrutto né base: è certo che il popolo vuole un’arte “storica” (se non si vuole impiegare la parola “sociale”), cioè vuol un’arte espressa in termini di cultura “comprensibili”, cioè universali, o “obbiettivi”, o “storici” o “sociali” che è la stessa cosa. non vuole “neolalismi” artistici, specialmente se il “neolalico” è anche un imbecille».
Gli intellettuali-artisti capaci di espressioni universali sono dunque quelli propriamente «nazionali-popolari», in totale contrasto con quelli riconducibili all’«”individualismo” artistico espressivo antistorico (o anti-sociale, o anti-nazionalepopolare)» di tipo crociano.
L’insegnamento di Gramsci è stato ben recepito da Ettore Scola, dunque, se questa caratteristica di “universalità” e “comprensibilità” fa il vero intellettuale, quello utile al popolo: Nicola (interpretato da Stefano Satta Flores) di C’eravamo tanto amati è un intellettuale e in quanto tale è «più su, più giù, più oltre» della classe operaia. Così “più oltre” che neppure gli amici riescono a tenergli dietro, figurarsi il “volgo ignorante”: nel capolavoro di Scola, Nicola è senza dubbio l’intellettuale incapace di farsi capire e pertanto destinato, come Cassandra, a rimanere inascoltato, per quanto possa avere ragione. Non è casuale, credo, che Nicola conosca la risposta esatta e difficilissima ad un quesito di Lascia o raddoppia, una domanda sul dietro-le-quinte di Ladri di biciclette, ma nonostante ciò non riesca a vincere (la risposta gli viene riconosciuta come sbagliata, nonostante anni dopo lo stesso De Sica la sostenga pubblicamente) e venga perfino sbeffeggiato.
Non basta, dunque, che l’intellettuale sappia: è assolutamente indispensabile che sappia anche trasmettere quel sapere, quel metodo, quei contenuti. È proprio ad un difetto degli intellettuali italiani, a questa loro incapacità, che Gramsci imputa la mancanza di una letteratura popolare di qualità, o anche solo “popolare” in senso stretto (i libri più diffusi erano infatti traduzione di opere estere). Le carenze di una cultura popolare sono «conseguenze di quella secolare divisione tra intellettuali e classi popolari che, agli occhi di G[ramsci], aveva impedito e continuava e impedire la formazione della nazione stessa oltre che la nascita di una cultura capace di esprimere i bisogni e le aspirazioni culturali di tutte le componenti della società italiana».
Questo rapporto complicato tra gli intellettuali e il “popolo”, che nella migliore delle ipotesi instaura un atteggiamento dei primi verso il secondo di «condiscendente benevolenza, non medesimezza umana», non fa che sancire definitivamente quella cesura tra loro.

Fotogramma del film C'eravamo tanto amati di Ettore Scola.
Nicola  (Stefano Satta Flores) sta rispondendo esattamente
alla domanda di Mike Bongiorno (nei panni di se stesso), senza
tuttavia che il suo trionfo sia riconosciuto.
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