lunedì 30 gennaio 2017

"Storie di cronopios e famas" - Julio Cortázar

«Molti critici si sono spremuti le meningi a proposito di questa parola, hanno cercato dal lato del tempo, di Kronos, per verificare se non esistesse una pista metafisica. Ma no, assolutamente no. È una parola che mi è venuta per pura invenzione, insieme alle immagini. [...] La piccola visione che avevo avuto e poi il nome Cronopios che mi piaceva molto hanno continuato a ossessionarmi. Allora mi sono messo a scrivere le prime storie. E sono apparsi in modo simile - ma meno precise di quelle dei Cronopios - le immagini dei Famas e delle Speranze.»

Così Julio Cortázar racconta la genesi della sua raccolta di testi più rappresentativa e immaginifica. Come un entheos, uno spiritato, racconta di essersi lasciato possedere dall'immagine di queste creature verdi, umide e tondeggianti, apparse un giorno davanti a lui, fluttuanti in un teatro dell'opera durante l'intervallo. I cronopios hanno invaso la mente di Cortázar e lo hanno costretto a raccontarli, prima in modo più vago (nella sezione "Prima e ancora incerta apparizione dei cronopios, dei famas e delle speranza. Fase mitologica") e poi nelle storie vere e proprie, che delle creature mostrano sfaccettature comportamentali e psicologiche, routine e ritualità, come in un leggiadro documentario narrato.
Ci piace seguire la dritta di Cortázar, e non spremerci inutilmente le meningi sugli eventuali risvolti "metafisici" delle caratteristiche dei cronopios, o sul loro nome. Italo Calvino scriveva nel 1981 che:


«Dire che i cronopios sono l'intuizione, la poesia, il capovolgimento delle norme, e che i famas sono l'ordine, la razionalità, l'efficienza, sarebbe impoverire di molto, imprigionandole in definizioni teoriche, la ricchezza psicologica e l'autonomia morale del loro universo.»


In effetti, questo bipolarismo che Calvino accenna (nel negare di volerlo accennare) sembra ridurre il mondo fantastico di cronopios e famas ad uno specchio dell'antinomia nietzschiana tra apollineo e dionisiaco, tra razionalità ed ebbrezza, fantasia. Il che lascia anche fuori la terza tipologia di creature, le speranze, che in realtà nell'opera sono poco più che abbozzate e semplicemente sciocche.
Cortázar non aveva in mente una simbologia di natura morale, una sorta di parabola su opposte virtù e sul loro reciproco incontrarsi. Quello che vediamo dispiegarsi tra le pagine è l'immediata e non riflessiva esistenza dei cronopios, e del loro essere vitali e giocosi, irragionevoli e poco compassionevoli, superficiali e allo stesso tempo capaci di cogliere gli aspetti più importanti e degni dell'esistenza (il gioco non rientra forse tra questi?). Nel loro agire insensato, ogni atto è puro, è azione pienamente dispiegata e innocente, perché non correlata ad alcun fine o cagionata da alcun interesse. Così, quando un cronopio viene nominato Direttore Generale della Radio argentina, per prima cosa ordina che da quel momento ogni trasmissione sia condotta in lingua rumena. Un altro cronopio, una volta laureatosi in medicina e aperto uno studio medico in via Santiago del Estero, di fronte ai sintomi del suo primo paziente prescrive l'acquisto di un mazzo di rose. Un altro cronopio ancora, dopo aver usato un po' di dentifricio per lavarsi i denti, si accorge di averne ancora moltissimo e lo spreme fuori dalla finestra, divertendosi a far cadere quel nastro rosa in testa ai passanti, famas pignoli che non ridono certo del gioco, ma anzi si premurano subito di rimproverare il cronopio per la bricconata e soprattutto per lo spreco di dentifricio. Forse, se proprio dobbiamo inquadrare cronopios e famas in categorie stagne, quelle che meglio ci possono aiutare sono l'infanzia e l'età adulta. Mentre le speranze, neutro ma necessario contrappunto, possono essere strascichi della primissima infanzia o residui della vecchiaia, o frammenti dell'ingenuità e della personalità ancora in divenire che si dispiegano nell'adolescenza (e forse proprio in correlazione a questa età verde possono aver ricevuto il loro nome, che guarda fiducioso al futuro). Che questa lettura sia valida o meno, Cortázar è comunque padrone della vita intera, nelle sue forme realistiche e in quelle più fantasiose e lisergiche, nelle manifestazioni incredibili e mitopoietiche che solo i suoi racconti riescono a calzare così bene, come un guanto.

sabato 7 gennaio 2017

Se questo è lavoro




Quest'anno mi ritrovo seduta qui davanti al mio pc sottoproletario a pensare. E ciò che penso riguarda inevitabilmente il mio futuro, così incerto da farmi star male. Per l'anno che verrà ho pochi buoni propositi che, purtroppo, non dipendono da me. Questa volta l'impegno e la dedizione non bastano. Forse "bastavano" all'università, quando si amalgamavano perfettamente alla passione per ciò che stavo studiando. Oggi non basta più neanche la passione come collante. Domattina vorrei svegliarmi con la consapevolezza di poter contare su qualcosa che non sia né la paura di non poter pagare l'affitto né i forse del mio contratto a tempo determinato vecchio di circa due anni. Due anni in cui ho messo da parte una grande fetta della mia vita per lavorare il più possibile, cercando di dimostrare competenza e professionalità. Penso che questi due anni siano stati sufficienti per fare presente di essere capace di entrambe. Ma non è tutto. Tentavo di dimostrare di meritare un contratto degno di questo nome. Tentavo in tutti i modi di smascherare, con il mio operato, il circolo vizioso di un momento storico in cui si elimina l'articolo 18 e poi si presenta un nuovo piano di riorganizzazione del lavoro. Jobs act. Azione sul lavoro. «Mi hanno gentilmente spiegato che da quando lo Statuto dei lavoratori è stato abolito, indeterminato significa soltanto che è l'azienda a decidere quando il contratto termina», ma in fondo chi ci arriva all'indeterminato? Di certo non io, troppo ambiziosa e ottusa per poter anche lontanamente immaginare che questo gioco di parti durerà non più di trentasei mesi. Ce l'hanno fatta! I capitalisti ce l'hanno fatta: hanno permesso che si vivesse per il lavoro. Viviamo per lavorare perché la nostra capacità contrattuale non ci rende portatori di diritti, benché il nostro lavoro sia di qualità perché misurato dal merito.

Mi sono documentata. In questa società flessibile, così come è stata definita dal professore Luciano Gallino, il merito non è il fine, ma il mezzo. Se sei meritevole hai tuttalpiù diritto ad un rinnovo del contratto, ma la condizione è quella di continuare ad essere meritevole. No signori, il merito non è quello che voi pensate. In questa società della rovescia il merito è la resistenza al lavoro e la sottomissione al padrone. Sostenendo che «accrescere il numero dei lavori flessibili rientrerebbe [...] negli interessi generali della collettività», i membri di questa società non fanno altro che obliare l'effettivo stato delle cose e, in particolar modo, che «ci sono tante persone, giovani e meno giovani, che alla lunga vivono i contratti a termine, le collaborazioni dette continuative ma di fatto discontinue, il lavoro intermittente, a chiamata, on the road o semplicemente occasionale, oppure in nero, come una ferita esistenziale, una fonte immeritata di ansia, una diminuzione di diritti di cittadinanza che si solevano dare per scontati». Un lavoratore flessibile può arrivare a posporre «...l'opportunità di sottoporsi a una visita medica alla necessità di essere presente sul posto di lavoro, sperando così di accrescere, o almeno non diminuire, la probabilità di vedersi rinnovato il contratto che sta per scadere».

Non solo! Il lavoro flessibile ha come diretta conseguenza quella di creare concorrenza tra i lavoratori aventi diritti e salari minimi e lavoratori aventi diritti e salari elevati. Dalla nascita di questa contrapposizione (di per sé assurda) al "tu sei l'ultimo arrivato, quindi io posso e tu no" il passo purtroppo è breve. Va ad annientarsi la solidarietà proletaria tra operai e, anzi, gli operai "senior" vanno a delinearsi come sottopadroni: i diritti di cui godono non sono più diritti, ma vengono vissuti e presentati all'esterno come i privilegi di una casta. Si ribalta inevitabilmente anche il concetto di dovere: il dovere non è più associato ad un diritto, ma diventa il pegno di una condizione, la precarietà. È la crisi dei sindacati. Non a caso, scrive Gallino, l'avvento della società flessibile va di pari passo con la decadenza dell'elemento aggregante della società stessa: mentre Chiesa e sindacati perdono di valore, il tempo della vita si dimezza progressivamente. Il tempo del lavoratore flessibile è quello del lavoro. Non si tratta solo delle ore lavorative, ma dello stress del post-lavoro. Le mura domestiche diventano il nido dei problemi: la mancanza di stabilità, di tempo, di progettualità; il sentirsi messi al muro, senza via di scampo. Dal 2012 la cara Fornero ha abolito l'articolo 18, che «attribuiva al lavoratore un diritto sacrosanto: se veniva licenziato senza giusta causa, il giudice doveva reintegrarlo nel posto di lavoro». Eppure io ci spero ancora nell'articolo 18, nell'indeterminato, nel merito come fine e non come mezzo. La nostra generazione si ritrova a dover lottare per ottenere diritti che in passato i nostri genitori hanno già ottenuto. Mi direte, forse, che erano altri tempi, che il sindacato giocava un ruolo fondamentale nell'operare fianco a fianco con il lavoratore, che era diversa la mentalità aziendale, che era diversa la mentalità dei giovani. La ferita esistenziale del lavoro sta mutando la visione del lavoro stesso: non lavorare per vivere, ma vivere per lavorare.

Per il nuovo anno ho ancora pochi piccoli propositi che non dipendono da me, ma voglio credere ancora alla mia Italia.





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