lunedì 25 marzo 2013

"La Macchina del Presagio" di Terry Goodkind


Dopo averci ammorbato con una saga di ben dieci libri (che poi si sono rivelati, a sorpresa, undici), Terry Goodkind non si è dato pace. Ha scritto un altro libro, direte. No, ha proprio iniziato un’altra saga. Sempre sugli stessi maledetti personaggi. Quindi in realtà non è un’altra saga, ma sempre la stessa che non ne vuole proprio sapere di avere fine. Ma finché la lettura è piacevole, che problema c’è?
La lettura di questo «primo romanzo della serie di Richard e Kahlan» (cito dalla copertina) in effetti è piacevole. Non del tutto soddisfacente ma piacevole. All’inizio riempie di curiosità, con questa gragnola di profezie che piovono sui personaggi all’improvviso, in una ciclica ricorrenza che ha del macabro e del perturbante.
Sulla questione della profezia, che è il filo portante della narrazione, devo spendere due parole. La vicenda è ambientata in un mondo in cui la magia e la profezia come sua manifestazione sono incluse in una concezione metafisica ricca di risvolti teologici. Apprezzo la costruzione di Goodkind in questo senso. Ma dove l'autore fallisce miseramente è il tentativo (imbarazzante) di filosofare sulla visione teleologica del mondo, sulle intuizioni profetiche, sull'onniscenza di Dio, sul libero arbitrio... Temi evidentemente delicati e degni di una riflessione approfondita che va ben oltre le competenze manifestate da Goodkind (che veste molto meglio i panni del narratore che quelli dello pseudo-filosofo) in questo libro.
In ogni caso, l’oscurità cerca altra oscurità e si insinua nel Palazzo del Popolo, turbando i protagonisti che, dopo anni di guerra, iniziavano ad illudersi di poter condurre una vita serena. Il nemico è invisibile ed insidioso, sembra poter spiare Richard e Kahlan tramite gli specchi e lo stesso buio notturno. Io nutro una profonda paura dell’abbinamento specchi-buio fin dalla più tenera età, e avrei trovato tutto davvero inquietante se ad un certo punto Samara non avesse fatto una capatina (senza peraltro alcun seguito, ma forse a ciò rimedieranno i prossimi libri) gettando sulla faccenda una luce un po’ ridicola. Samara, sì, quella di “The Ring”, o almeno una sua sosia molto credibile, benché anonima (pagina 162, leggere per credere).
Comunque, la storia sembra ingranare davvero con il ritrovamento della macchina dei presagi. Benché l’aspetto della macchina sia buffo e anacronistico (finestrella, lucina, fessura per erogare i presagi… Insomma, un distributore di bevande), devo rendere a Goodkind il merito di questo: è affascinante (nonché antico e riccamente sviluppato nella storia della letteratura) il tema di una macchina pensante. Una macchina che si esprime, benché cripticamente, interloquisce con chi la adopera, addirittura sogna… Misteriosa e malinconica, la macchina dei presagi mi ha coinvolto ed incantato.
L’incanto non è stato duraturo, però. A sfregiare un libro abbastanza avvincente (benché spesso barcollante e al limite del nonsense) c’è la forma, da un punto di vista editoriale più che letterario. Già leggendo altri libri della Spada della Verità sono incorsa in refusi a profusione e frasi che suonano veramente ma veramente male. Poca cura da parte della Fanucci Editore, ormai me ne sono fatta una ragione. Ma in questo libro si tocca veramente l’apice. Il merito credo sia dovuto ad una miscela esplosiva: traduzione pietosa ed editing inesistente. Se a ciò aggiungiamo un pizzico di Goodking-style (cioè sequenze illogiche, termini usati a sproposito e dialoghi ripetitivi fino al delirio), ecco il capolavoro.
Ad una sapiente combinazione di questi ingredienti dobbiamo perle come: «Sembrato che il terrore non dovesse mai terminare». O come: «Intendi che è sparito come se forse te lo stavi immaginando e ora te ne sei reso conto?», oppure «Kahlan non perse di vista delle occhiate di cuoio rosso davanti a Richard» (maledizione, cosa vuol dire non perdere di vista delle occhiate???).
Ma il clou lo abbiamo a cavallo tra i capitoli 33 e 34. Non posso riportare il brano integralmente per ovvi motivi di lunghezza e anche per evitare di dar luogo a qualche sgradevole spoiler, ma posso sintetizzarvi lo schema seguito dalla conversazione e riportarvi alcune battute significative.

Nicci: «Perché il libro non funziona come dovrebbe?»

Richard: «Non lo so.»

Nicci: «Devi aver appreso qualcosa.»

Richard: Sì, che «dovrebbe funzionare, ma semplicemente non lo fa». Se applichi le regole del libro per decifrare i simboli, ottieni «assurdità prive di senso».

Zedd: «Forse questo libro, Regula, in realtà non ha nulla a che vedere con la macchina.» Sei sicuro che ci sia un nesso tra i due?

Richard: Sì, perché questo simbolo qui, «che occupa l’intera pagina iniziale […] è lo stesso simbolo presente su tutti e quattro i lati della macchina».

Zedd: «Quello stesso simbolo è su entrambi, il libro e la macchina?»

Richard: Sì.

Zedd: Sai cosa voglia dire il simbolo?

Richard: «Temo di no.»

Zedd: «C’è questo sulla macchina? Lo stesso disegno?»

Richard: «Esattamente lo stesso simbolo». Solo che «pare che debba funzionare, ma non lo fa». Comunque questa roba sembra un nove [mezz’ora, anzi, tre pagine di discussione su cosa significhi il nove, con Nicci che sa tutto ma si diletta ad esercitare la maieutica socratica su Richard per costringerlo a indovinare]. Ma «perché il nove è alla rovescia?»

Zedd: «Alla rovescia?»

Richard: «Sì, l’intero simbolo è alla rovescia. Lo puoi capire perché anche il nove è alla rovescia».

Zedd: «Ma ora che lo fai notare, sembra proprio alla rovescia».

Richard: «Alla rovescia… proprio così! […] è alla rovescia. Tutto in questo libro è rovesciato».

Berdine: «Rovesciato?»

Richard: «É tutto rovesciato rispetto al modo in cui la macchina vede il simbolo».

Zedd: «Cosa vuol dire che è alla rovescia? Cos’è alla rovescia?»

Kahlan: I simboli sono tutti uguali. «Perciò cosa ti fa pensare che siano alla rovescia?»

Zedd: «Esatto». [Ma che risposta è???]

Richard: I simboli «sono tutti ribaltati» [almeno cambiamo vocabolo], «sono tutti sbagliati».

Zedd: «Se tutti quanti, in ogni posto, sono uguali, come possono essere tutti sbagliati?»

Nicci: «Come sai che sono sbagliati? Come sai che sono alla rovescia?»

Richard: «Perché questo è quello che vediamo quando guardiamo all’interno. Ma non è quello che la macchina vede».

Nicci: «Hai detto prima che è alla rovescia rispetto al modo in cui la macchina vede il simbolo».

Zedd: «Dunque?»

Richard: «Ebbene, tutti gli altri simboli –sui lati della macchina e nel libro- sono uguali» ma mentre la macchina vede un nove, «tu vedi il nove così: alla rovescia. […] Ma è alla rovescia dal punto di vista della macchina sul nostro mondo».

Kahlan: «Ma certo. Richard ha ragione. Questi sono tutti rovesciati».

Una conversazione fra sordi. Una vita per capire che i simboli sono tutti uguali e tutti rovesciati. E soprattutto una risata interminabile.
Ora, immaginate questa manica di deficienti alle prese con i soliti cattivi astutissimi e spietatissimi dei fantasy e otterrete il degno dodicesimo libro (checché se ne voglia dire, è un seguito dei primi undici! Che non mi si scocci con questa storia della nuova serie!) della Spada della Verità. Una trama abbastanza incasinata per incuriosire, con qualche elemento veramente pregevole di tanto in tanto (una su tutte, la bellezza tormentosa e struggente della figura delle Mord-Sith, benché si vestano e atteggino a signorine dedite al sadomaso… Ma questo è un altro discorso). Una lettura leggera e piacevole (e a tratti, come ho spiegato, imprevedibilmente divertente anche contro il manifesto intento dell’autore).

domenica 17 marzo 2013

"Dedalus" di James Joyce

«Quando un'anima nasce in questo paese le vengono gettate delle reti per impedire che fugga. Tu mi parli di religione, lingua e nazionalità: io cercherò di fuggire da quelle reti

In Italia conosciuto come "Dedalus", il romanzo di Joyce si intitola propriamente e fedelmente all'originale "Ritratto dell'artista da giovane". Stephen Dedalus, protagonista del libro, non è altro che l'alter ego di James Joyce e il simbolo del risveglio della sua coscienza.
Le radici della storia sono le più profonde e tradizionali: la tela cerata con cui la madre proteggeva il suo materasso da bambino, la faccia pelosa e il monocolo di suo padre; la Bibbia, la Messa; la rigida disciplina presso i gesuiti. Il romanzo si spiega lentamente tra queste origini pesanti, gravate di un passato opprimente che poco lascia all'arte e alla personale sensibilità. Le descrizioni minuziose e all'apparenza nostalgiche sono ricordi marchiati a fuoco di un passato a cui il protagonista mostra presto di volersi in qualche modo sottrarre. 
La descrizione delle bacchettate che il giovinetto riceve a scuola per una colpa infima fa rabbrividire: il castigo in sé e la scena narrata non sono particolarmente violenti o impressionanti, ma sono un urlo contro l'iniquità e l'ingiustizia cui i ragazzi vengono sottoposti in un regime educativo troppo severo; sono lo sfogo di un'umiliazione indimenticabile, consumata davanti ai compagni; sono l'aneddoto emblematico, la metafora della rigida educazione con cui la società irlandese e fine-ottocentesca cercò invano di ingabbiare Stephen-James. Il risultato sperato fu totalmente ribaltato, nella realtà come nella finzione letteraria: "Dedalus" è il racconto di come la ribellione giovanile, unita a grande fermento culturale e artistico, contrappose Joyce alle istituzioni, alla religione a al suo stesso Paese, lo spinse a scegliere «il silenzio, l'esilio, l'astuzia».
Il romanzo è autobiografico e insieme rappresentativo di un'epoca e di una fase della vita. È la narrazione di una metamorfosi sofferta, a tratti lacerante e comunque coraggiosa: una fuga verso nuovi orizzonti, laddove l'alternativa era accettare supinamente l'educazione impartita e lasciarsi coinvolgere e uniformare dagli ingranaggi di una società rigidamente organizzata, carica di aspettative, esigente e inibente i più ardenti slanci artistici e umani.
In "Dedalus" troviamo le tematiche di un romanzo di formazione, sviluppate con uno stile elevatissimo e una'attenzione pittorica (o fotografica) per il dettaglio vivido, per la citazione significativa, per la battuta irriverente che costituisce l'avvisaglia di una ribellione pronta a realizzarsi. Hanno grande rilievo, fino a essere centrali nell'opera, i meccanismi psicologici ed emotivi, che avvicinano a Italo Svevo (non a caso, amico e concittadino, nella Trieste che accolse l'autore irlandese, di Joyce). In nuce troviamo inoltre le forme espressive che mostreranno compiutamente la propria originalità in "Finnegans Wake" e soprattutto in "Ulisse", di cui "Dedalus" rappresenta il preludio.

martedì 12 marzo 2013

Tracce di poesia - Vladimir Vladimirovič Majakovskij


«Ma io
mi sono domato
da solo,
ho camminato 

sulla gola
del mio stesso canto»


Sostenere la lettura di poesie come quelle di Vladimir Majakovskij a volte può risultare difficile, eppure ad ogni verso passato e presente si intersecano, mescolando attualità e storia.
Nato in Georgia nel 1893, rimasto orfano di padre prestissimo, si trasferisce con la madre e le sorelle a Mosca, dove intraprende l'azione rivoluzionaria dal 1908. Aderisce, infatti, al Partito Operaio Socialdemocratico Russo, venendo arrestato dalla polizia zarista per ben tre volte. Il saggio autobiografico "Ja sam" (Io da solo) è il racconto dell'ultimo arresto. È proprio il carcere ad interpellare il poeta Majakovskij: una personalità maestosa che attraverso la poesia si fa attivista politico, sostenitore della Rivoluzione d'Ottobre, trascinatore delle folle proletarie. Il poeta, avvertendo il carico di una responsabilità civile, è un rivoluzionario che tuttavia rifiuta di iscriversi ufficialmente al partito bolscevico: gli impegni politici, infatti, sottrarrebbero troppo tempo all'attività poetica, che comunque si avvale di un respiro comunitario. Il pubblico non è rappresentato da una elite: l'arte si fa propagandistica, soprattutto in difesa del popolo. Non sono solo parole: si organizzano letture di poesie in fabbriche e officine, si sollecita la rivolta, si abbraccia uno stile chiaro e conciso, si abbandona la distanza tra intellettuale e operaio.

«Ricorda,ascoltando
il rombo delle cannonate,
vedendo 
l'assalto 
della borghesia, 
che l'arma 
nostra migliore 
è attuare il motto: 
"Proletari di tutto il mondo, unitevi!"» 
[da "L'arma invincibile"]


Nel 1911 si iscrive all'Accademia di Pittura, Scultura e Architettura di Mosca e aderisce al cubofuturismo, il movimento d'avanguardia teso al progresso che impazza in questi anni in grande parte dell'Europa e dei Paesi dell'Est: al 1914 risale il manifesto "Schiaffo al gusto del pubblico", firmato assieme ad altri artisti (Burljuk, Kamenskij, Kručёnych, Chlebnikov). Il progresso è da intendere innanzitutto come desiderio di rinnovamento che anticipa e coadiuva l'imminente rivoluzione. In questo senso il 1917 è l'anno centrale, proprio perché è "l'anno che verrà", quell'anno che spazzerà via, attraverso un'azione del tutto innovativa e reazionaria, un passato angusto e che darà vita alla nuova Russia. 

«Vogliamo che la parola esploda nel discorso come una mina e urli come il dolore di una ferita e sghignazzi come un urrà di vittoria.»

Nel 1913 pubblica la prima raccolta di poesie "Ja!" (Io!) e nel 1914 si dedica al dramma, attraverso il quale si fa promotore della uguaglianza futurismo=rivoluzione. Porta in scena "La nuvola in calzoni" e "Flauto di vertebre".
Figura centrale nella vita dell'uomo e del poeta Majakovskij, è Lilja Brik (Lilicka). Nelle poesie per Lilicka, i versi del poeta abbandonano il tono severo per abbracciare quello tenue dell'amore.

«(...) Ancora un giorno,
e mi scaccerai,
forse maledicendomi.
Nella buia anticamera, la mano, rotta dal tremito,
a lungo non saprà infilarsi nella manica.
Poi uscirò di corsa,
e lancerò il mio corpo per la strada.
Fuggirò da tutti,
folle diventerò,
consumato dalla disperazione. (...)»
[da "Lilicka! Al posto di una lettera"] 


La dolcezza di questi versi, tuttavia, non contrasta con l'asprezza di quegli altri. Amore e rivoluzione si compenetrano mostrando due facce della stessa medaglia: un amore forse non corrisposto che conduce al suicidio con un colpo di pistola al cuore, nel 1930.
Nella lettera che lascia ai famigliari e amici si legge:


«A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol'dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un'esistenza decorosa, ti ringrazio. [...] Come si dice, l'incidente è chiuso. La barca dell'amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici».

sabato 9 marzo 2013

Henri Cartier-Bresson (1908-2004), "l'occhio del secolo"


Nella mia tesi di laurea, ho cercato di sfatare il luogo comune che per mezzo secolo ha accompagnato la definizione di arte visiva, restringendo il campo propriamente artistico a poche espressioni (quella pittorica innanzitutto) che rendevano manifesta la soggettività del loro autore. Le altre forme di espressione, come la fotografia, erano tacciate di proporre una mera mimesis del reale. Avvalendomi di un confronto tra il filosofo Merleau-Ponty (che vede «nell'attività del pittore un'urgenza che supera le altre») e il fotografo Henri Cartier-Bresson (che ha smascherato l'inesattezza di quelle argomentazioni secondo cui la fotografia ben si presta a essere definita come mera riproduzione del reale), ho condotto una ricerca che mi ha permesso di incrociare le strade intraprese dai due autori: non solo risulta impossibile accusare la fotografia di semplice oggettività, ma far questo significherebbe depauperare il fotografo del suo proprio. Se il reale si dà già in maniera filtrata perché dipendente dalla percezione dell'individuo e impossibile senza tale percezione, la fotografia è il filtro del filtro, la seconda potenza della soggettività, ciò che quasi prescinde dall'oggetto perché tutto interno all'oggetto. La pretese di riportare la dimensione soggettiva a una dimensione di fatto, di sbaragliare il fenomeno ad una dimensione di appiattimento ontologico, risulta del tutto fallace. Pittura e fotografia sono, quindi, due facce della stessa medaglia poiché entrambe rivelano quella "natura all'interno" di cui parlava Cézanne e che tanto Merleau-Ponty rivendicava.

Henri Cartier-Bresson, Dietro la stazione di Saint Lazare, Parigi, 1932

"Henri Cartier-Bresson nasce (...) nel 1908. Dopo aver studiato arte pittorica per due anni con André Lhote, si avvicina al surrealismo e rinnega l'arte teorica e protocollata, professata dal maestro Lhote: l'artista deve esprimersi in libertà, ignorando qualsiasi divieto. Nel suo “Manifeste du surréalisme”, André Breton scrive: «Incatenare l'immaginazione, anche trattandosi di ciò che comunemente si chiama felicità, è come sottrarci a ciò che v'è nell'intimo nostro di suprema giustizia». Questo vale anche e soprattutto per il fotografo, il quale deve rompere con la tradizione e fotografare la cosa per come essa è. Una fotografia deve immortalare la qualità essenziale della cosa, deve provocare una sensazione che riporti all'origine.
Durante il servizio militare, Henri rivaluta la sua Brown Box e fotografa, sperimenta: è davvero possibile riportare su carta l'immediatezza di una sensazione? Ed è possibile farlo in una maniera ancora più diretta della parola scritta?
Il XX secolo afferra le tecniche artistico-fotografiche del secolo precedente e le rielabora, dando inizio a quel processo che farà della fotografia un meccanismo immediato, veloce, il più delle volte tascabile. Oskar Barnack progetta il prototipo della Leica per lo stabilimento ottico di Ernst Leitz II: nel 1925, alla fiera di Lipsia, viene presentata la LEICA A, ancora dotata di obiettivo fisso. Segue la LEICA C, che possiede un obbiettivo intercambiabile (è una novità assoluta per l'epoca): ciò permette ai fotografi di scegliere tra obbiettivi con lunghezze focali diverse. Ogni scatto è diverso dall'altro perché diverso è il momento decisivo dal quale viene partorito, diversa è la soggettività del fotografo che scatta, diverse sono le sensazioni che l'immagine suscita.

Henri Cartier-Bresson, Les enfants

È l'incontro fortuito e folgorante con “Tre ragazzi sul lago Tanganica” del fotograto ungherese Martin Munkacsi ad avvicinare Henri alla fotografia in maniera decisiva: «Improvvisamente ho capito che la fotografia poteva fissare l'eternità di un istante», dice. E ancora: «Devo ammettere che è stata quella foto a dar fuoco alle polveri, a farmi venire voglia di guardare la realtà attraverso l'obbiettivo».
A partire dal 1934, il giovane fotografo intraprende una serie di viaggi fotografici grazie ai quali tocca l'Africa, gran parte dell'est europeo, l'Italia, l'America del Sud, New York. In tutto il suo lavoro di questo periodo, è evidente sia il richiamo alla simmetria della composizione (uno degli argomenti prediletti nelle lezioni di Lhote), sia l'influenza surrealista: «una parte di quanto compone la qualità geometrica dell'immagine è premeditata, l'altra, senza dubbio più importante, resta aleatoria. (…) Se il virtuosismo delle inquadrature di Henri Cartier-Bresson testimonia in modo innegabile l'influenza di Lhote, la parte lasciata al caso nelle sue composizioni è per lo più dovuta al surrealismo».
Si dice che quando Cartier-Bresson entrò nella resistenza francese, non rinunciò alla sua Leica acquistata a Marsiglia nel 1932. La seppellì in un campo nel 1940, prima di una battaglia a Saint-Dié nei Vosgi e, catturato dai nazisti, la recuperò nel 1943, dopo trentacinque mesi di prigionia.
Nel 1944 fotografa Albert Camus. Nel 1946 Sartre e Simone de Beauvoir.
Nel 1954 Sartre scriva la prefazione a una raccolta di fotografie (“D'une Chine a l'autre”) che Cartier-Bresson scatta in Cina.

Henri Cartier-Bresson, Hyères, 1932

Ciò che però risulta determinante nella carriera fotografica di Henri, è la fondazione della Magnum Photos. Il giovane fotografo si rende conto di voler fotografare «non il pittoresco: la storicità», cambia totalmente prospettiva di lavoro e si dedica anima e corpo al fotogiornalismo.
Viaggiando per la Magnum, Henri Cartier-Bresson immortala il funerale di Gandhi, la caduta della Cina imperialista, Pechino sotto i comunisti, la Russia post-Stalin.

Henri Cartier-Bresson, Incoronazione di Giorgio VI, 1937

Ma se l'esigenza del giornalismo è quella di riportare la realtà dei fatti in maniera oggettiva, il fotogiornalismo è in grado di soddisfare tale esigenza attraverso le immagini? O la realtà, mediata da immagini, sarà sempre, in qualche modo, deturpata della sua oggettività? Il fotografo può veramente ritenersi super partes? O la sua Weltanschauung influenza irrimediabilmente la fotografia? Il gesto meccanico di premere il pulsante di scatto esaurisce l'implicazione del soggetto che scatta? Oppure il fatto che il mezzo di riproduzione della realtà sia usato da una soggettività, implica la manipolazione della realtà da esso riprodotta?
Come dice lo stesso Henri: «Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira testa, occhio e cuore». Ma allora forse è proprio questa equazione testa=occhio=cuore a rendere la fotografia espressione di una soggettività, di un «c'è preliminare» (per utilizzare le parole di Merleau-Ponty) che fa della stessa fotografia una forma di interpretazione della realtà alla stregua della pittura.
Non esiste fotogiornalismo che tenga: il criterio dell'oggettività non è mai assoluto e chi pensa di poter riportare la realtà nella sua esattezza, non fa altro che illudersi. C'è un momento creativo che, seppur minimo, è rappresentativo. «Siamo passivi davanti a un mondo che si muove e il nostro unico momento di creazione è il 1/25º di secondo in cui pigiamo il pulsante, l'attimo di oscillazione in cui cala la mannaia. Siamo paragonabili a tiratori che “sparano” una fucilata», dice Henri in una intervista. Forse anche per questo si manifesta il malcontento dei fotoreporter: le loro fotografie, spaccati di realtà soggettivi e irriducibili, vengono modificate a seconda del taglio di significato che il redattore intende dar loro. Riquadrature e didascalie finiscono per non rispettare né l'opera artistica all'origine dell'immagine, né l'implicazione soggettiva dell'operatore. «Si può immaginare il senso di angoscia per l’irrimediabile del fotografo mentre sfoglia quelle pagine dove c’è il suo reportage…».

Henri Cartier-Bresson, Romania, 1975
L'opera che sintetizza e racchiude la ricca carriera di Henri Cartier-Bresson è senz'altro “L'immaginario del vero”, una raccolta di testi e immagini che ripercorrono non solo i viaggi che il fotografo ha intrapreso e gli incontri più importanti, ma anche la sua posizione riguardo agli aspetti tecnico-teorici della professione del fotografo.La fotografia può sembrare, ad un'osservazione superficiale, una “semplice” trasposizione tecnica di una realtà vista e non vedente. Rimanda, invece, a un impulso originario che di tecnico non ha nulla: l'inquadratura e la visione sono senza dubbio influenzate da predisposizioni individuali e da una sorta di etnocentrismo percettivo-emotivo al quale neanche il fotoreporter può venire meno. «Per “significare” il mondo, occorre essere coinvolti nella scelta di quanto lasciamo fuori dall'inquadratura» e ciò che inquadriamo è il senso ab origine di un istante.
Da cornice a tutta l'opera, la presentazione di Gérard Macé ci presenta un Henri appassionato, reso invisibile da quel «bagaglio leggero» che gli ha permesso «di assentarsi come persona fisica, di cancellarsi per meglio cogliere l'istante, proprio nel momento in cui dava un senso all'istantaneo».

Henri Cartier-Bresson, Livorno, 1932

La pittura non ha più un’urgenza predominante: «di tutti i mezzi di espressione la fotografia è la sola capace di rendere l’eternità d’istante». Il fotografo ha a che fare con una realtà in continua sparizione e ciò che sostanzia il suo operato è proprio questa continua tensione al non-più-essere, questo essere «alle prese con l’attimo fuggente di un rapporto instabile».
L’istante da cogliere può essere ovunque e in chiunque: «Il soggetto, come possiamo negarlo? S’impone. […] In fotografia, la cosa più insignificante può diventare un grande soggetto, un trascurabile dettaglio umano divenire il motivo conduttore». Il primato della fotografia e la sua imposizione come arte deriva dalla sua democratizzazione: essa non cerca l’entità, ma le minuzie incorporate in quell’entità, che acquista significato attraverso esse. «Noi fotografi, vediamo e facciamo vedere in una sorta di testimonianza il mondo che ci circonda ed è l’avvenimento, per la funzione che gli è propria, a provocare il ritmo organico delle forme».
Quello del pittore è l’artificio che il fotografo tenta di evitare perché «uccide la verità umana»: il pittore ricerca la grazia, il fotografo la aborre. «Le persone temono l’obiettività dell’apparecchio, mentre il fotografo cerca un’intensità psicologica. […] L’armonia si ritrova cercando l’equilibrio dell’asimmetria che ha ogni viso, e così potremo evitare la soavità o il grottesco. Meglio dell’artificiosità di certi ritratti, allora, quelle piccole foto appiccicate le une alle altre alle vetrine dei negozi dei fotografi da passaporto. Sono facce alle quali puoi sempre fare una domanda e anche se non c’è un’identificazione poetica, puoi scoprire un’identità documentaria».

Henri Cartier-Bresson, M, 1967
È per questo che il fotografo non deve perdersi alla ricerca di una qualche correttezza formale (a parte quella della composizione) della propria fotografia. Scrive Cartier-Bresson: «Mi fanno proprio ridere le fisime di certuni a proposito della tecnica fotografica e che si traducono in un gusto smodato per la nitidezza dell’immagine. Cos’è, una passione da pignoli per le minuzie o sperano che il reale si arrenda ai loro trompe-l’oeil?». Il fotografo è colui il quale, attraverso il proprio sguardo, individua istintivamente il momento riassuntivo di un evento e, coi riflessi di una gazzella, lo blocca: «Una fotografia è […] riconoscere simultaneamente, in una frazione di secondo, da un lato il significato di un fatto e dall’altro l’organizzazione rigorosa delle forme percepite visualmente che questo fatto esprimono». Non si tratta di irrealtà, ma proprio di quanto di più reale esista: l’immagine maieuticamente ricavata dalle cose è sintesi di una realtà analitica, culmine di verità che racchiude il significato e il senso di un essere-nel-tempo. È quanto riassunto, nell’introduzione, da Macé, il quale, parlando di Henri, afferma: «Certo, gli impressionisti prima di lui avevano piantato il cavalletto sull’argine dei fiumi, nei prati, dove la luce scende come rugiada, ma il loro mondo è un’eterna domenica, mentre la fotografia permette di far vedere anche i giorni lavorativi». Quanto c’è di reale in una mano che riproduce realisticamente un paesaggio? Quello riprodotto sarà pur sempre un paesaggio riprodotto, non quel paesaggio rinvenuto dall’asse temporale e fissato eternamente.
Quella del fotografo è una continua diatriba tra interno ed esterno: «Così vivendo dentro e fuori, noi ci sentiamo, scoprendo il mondo, forgiati da lui, proprio mentre siamo in grado di agire su di lui. Si stabilisce un equilibrio fra due mondi, esterno e interno, che intrecciati in dialogo finiscono per informarsi, ed è il mondo che dobbiamo trasmettere». Cartier-Bresson è ad un passo ulteriore rispetto a Merleau-Ponty: la dialettica dentro-fuori che il pittore soddisfa attraverso il movimento della propria mano non è prerogativa della pittura. L’atto del fotografo richiama quella disputa come qualcosa di preesistente che, scontrandosi con l’esistente, genera nuova esistenza. La fotografia ha, in tal senso, la stessa urgenza della pittura e «fotografare è un modo di capire che non differisce dalle altre forme di espressione visuale». «Si fa della pittura ogni volta che si prende una fotografia. Quel battere di ciglio che vale per la sua freschezza di impressione, esclude forse un’esperienza a lungo studiata? Si può trovare la stessa immediatezza quando si resta a lungo in un paese? Di passaggio o stabili in un luogo per meglio significare un paese o una situazione è necessario, quando svolgiamo il lavoro, stabilire dei rapporti con la comunità umana che ci ospita: vivere prende tempo, le radici hanno spesso percorsi profondi, lentamente identificabili. Così “l’istante” può essere frutto di una lunga consuetudine oppure l’effetto di una sorpresa»: pittura e fotografia si compenetrano perché l’una è madre dell’altra. Come madre, la pittura fornisce i propri strumenti alla fotografia e quest’ultima li ringiovanisce, sublimandoli.
Nonostante nei suoi scritti si rintraccino dei riferimenti al dibattito riguardo al ruolo della fotografia nelle arti visive, Henri ha sempre rifiutato di entrare nel merito del discorso: «Il dibattito su quale grado e posto dovremmo conferire alla fotografia fra le arti plastiche non mi ha mai preoccupato, poiché il problema delle gerarchie mi è sempre sembrato d’essenza puramente accademica».

Henri Cartier-Bresson, Queen Charlotte's Ball, London, 1959

L’attenzione di questo «enfant prodige della fotografia francese» non si focalizza sulle questioni di grado: è interessato alla gente. Si avvicina all’umano rispettandone l’intimità, rimanendo in ombra, mantenendo una certa discrezione. Arrivato a Mosca nel 1955, ha dichiarato: «Sono interessato soprattutto alle persone e mi piacerebbe osservarle per strada, nei negozi, sui luoghi di lavoro, quando si divertono in tutti gli aspetti manifesti della realtà, ma a passo di lupo, per non urtare coloro sui quali è puntato l’obiettivo». Henri è un maestro in questo: custodisce il sacro equilibrio tra il fotografo e il fotografato con un assoluto rifiuto del flash. «Mai fotoflash, per rispetto alla luce, anche quando non c’è, altrimenti un fotografo diventa insopportabilmente aggressivo». «Il fotografo deve provare a farsi dimenticare, indovinare ciò che si svela in modo fugace, approfittare dell’attimo in cui la persona, nel suo ambiente, è di fronte a se stessa e far scivolare delicatamente l’apparecchio tra la camicia e la pelle. Non do mai indicazioni alla persona che ho davanti, sono io che mi devo spostare […] Per non rendersi insopportabile, basterebbe al fotografo invertire i ruoli, mettersi al posto del modello […]».
«Per Cartier-Bresson, la posizione fisica del fotografo corrisponde a una posizione etica»: come il fotografo deve abbandonare qualsiasi invadenza, così deve astenersi dalle messinscene al fine di ricercare il “l’istante decisivo” che si manifesta facendo capolino dalle fitte reti del reale. «La formulazione di istante decisivo di Cartier-Bresson, sia nel testo che nelle immagini, corrisponde a una specie di esito estetico dell’istantaneità fotografica o, per dirla diversamente, al suo ingresso nell’arte».


Henri Cartier-Bresson, Belgium Brussel, 1932
La rilevanza artistica di una fotografia si sussume dalla sua capacità di nascere dall’immediatezza, di portare all’essere qualcosa di creato e non qualcosa di subìto. Il fotografo è immune da qualsiasi accusa di passività perché traspone, prima nell’inquadratura e poi nella fotografia, un sentire soggettivo che è irriducibile a qualsiasi pretesa di oggettività.
La fotografia mette in campo quello che Cartier-Bresson chiama “tiro fotografico”: «Abituato sin dall’adolescenza, a maneggiare i fucili durante lunghe cacce in Sologne, era un ottimo tiratore. In Costa d’Avorio, aveva imparato ad attirare la selvaggina con una lampada all’acetilene, quindi a cacciare con la luce: bella metafora per chi si apprestava a diventare fotografo». Con la scoperta delle religioni orientali, Henri adopera molto meno la metafora della caccia e delle armi da fuoco per descrivere l’atto fotografico. Si serve, invece, del paragone con il tiro con l’arco. Negli anni Cinquanta Georges Braque gli regala “Le Zen dans l’art chevaleresque du tir à l’arc” del filosofo tedesco Eugen Herrigel, il quale racconta la propria iniziazione alla meditazione zen tramite il tiro con l’arco. Non solo la concentrazione descritta da Herrigel è straordinariamente vicina a quella provata da Cartier-Bresson, ma la nozione di tiro fotografico è anche più efficace di quella di istante decisivo: se quest’ultima si limita a connotare la destrezza della pratica fotografica, la prima ingloba nella propria definizione il rapporto tra il fotografo e ciò che lo circonda.
La fotografia, in ultima istanza, è questo rapporto mai manifesto, ma sempre vigile. Essa non è una riproduzione meccanica: dietro la macchina fotografica vi è un operatore che sceglie e scatta. «La fotografia è […] l’impulso spontaneo di una attenzione visiva perpetua che coglie l’attimo e la sua eternità. Il disegno, attraverso la sua grafologia, elabora quello che la nostra coscienza ha colto di quell’istante. La foto è un’azione immediata; il disegno una meditazione»."

venerdì 8 marzo 2013

"Gli indifferenti", Alberto Moravia

Un grande classico scritto nel 1929, romanzo d'esordio di Alberto Moravia. 1929: siamo in un periodo cruciale, drammatico della storia italiana. Da sette anni Mussolini è al potere: Matteotti è stato assassinato, le leggi fascistissime varate, il regime fascista è pienamente consolidato.
In questo contesto, Moravia guarda al mondo che lo circonda, cui appartiene: la classe borghese. In tutti i libri di storia, leggiamo che la classe borghese sostenne l'ascesa di Mussolini, che cavalcò l'onda di violenza portata avanti dalle camice nere, il terrore per una eventuale rivoluzione socialista, che in quel periodo sembrava davvero possibile, o almeno il fascismo giustificò la sua violenza reazionaria proprio sulla base di questa possibiltà (la marcia su Roma avviene nel 1922, dopo il celebre "Biennio rosso", un periodo di grandi lotte operaie e contadine compreso tra il 1919-1920). Mussolini sale al potere per conservare lo stato di cose, per rassicurare la classe borghese. Moravia ci descrive lo stato di cose, ci descrive la classe borghese. Vediamo un po'.
La famiglia Ardengo è composta da mamma Mariagrazia, e dai due figli, Michele e Carla. Un frequentatore assiduo della famiglia è Leo Merumeci, amante di Mariagrazia; c'è anche Lisa, amica della signora. Il quadretto che ne viene fuori è di una tristezza desolante.
Mariagrazia è una donna frivola, superificiale, irritante: non ha fascino, nè eleganza, nè intelligenza. Un'oca che starnazza del nulla, e che di questo nulla si nutre, vive: balli, feste, pranzi e cene, ora del tè, passeggiata, pettegolezzi, la sua giornata è scandita da queste attività. Non ha alcuna sensibilità, alcuna delicatezza: potrebbe nobilitarla il suo amore per Leo, ma non la nobilita affatto. Se si può parlare di amore, il suo è un amore stupido, insulso, privo di intensità, si caratterizza solo come un'infantile gelosia nei confronti del suo amante: nulla a che vedere con la tragica gelosia di Otello, ma semplice insicurezza di una donna mediocre, che non sentendosi più sessualmente attraente, esterna la sua isterica frustrazione nei confronti di Leo. La preoccupazione più grande è quella di non perdere i suoi averi, in particolare la sua casa, e pur di continuare a vivere nell'agio rinuncia alla sua dignità (presupponendo che ne abbia una); la ricchezza, per Mariagrazia è tutto: "non aveva mai voluto sentire parlare di poveri, e neppure conoscerli di nome, non aveva mai voluto ammettere l'esistenza dal lavoro faticoso e dalla vita squallida".
Carla e Michele sono due ragazzi che si sentono inchiodati ad una vita squallida, vuota: vivono un senso di ribellione, che però è relegato nel loro intimo. La loro condotta di vita è assolutamente ordinaria, in nulla si distingue da quella della loro madre: nelle loro riflessioni, si evince, però, che la loro è una ribellione di facciata, esattamente come lo è la loro condotta di vita. Pensano di ribellarsi (ovviamente non lo dicono), progettano la loro fuga da quel mondo che odiano, ma non fanno nulla perchè non ci credono davvero. Vivono nell'agio e nella sicurezza, indifferenti a tutto, non soltanto ai problemi esterni alle mura della loro casa, ma anche a quelli interni: il germe della corruzione ha attecchito, e non potrà far altro che crescere, e nella decadenza morale ed estetica, questi due ragazzi condurranno la loro vita. Carla diventerà l'amante di Leo, non perchè lo ami, ma soltanto per inerzia: non si oppone al moto di squallore, di freddezza, che la trascina nell'oblio, che trascina l'anima di una ragazza che ancora deve diventare consapevole di sè, nei tristi luccicchii di feste mondane. Anche Michele vive un senso di ribellione, ma accanto a questo sentimento, c'è già la consapevolezza di essere indifferente a tutto: dovrebbe arrabbiarsi perchè Leo si comporta da padrone di casa, in casa sua, perchè è un imbroglione, dovrebbe rifiutare Lisa, una donna che lui non ama e da cui non è attratto, dovrebbe indignarsi dello squallore che percepisce attorno a sè, ma non ci riesce. Freme e resta immobile. Non avendo il coraggio di reagire, vilmente si arrende alla sua vita di finzioni: sarà l'amante di Lisa e il leccapiedi di Leo. Finirà con il credere che la sua vita sia degna e autentica, o fingerà di crederlo: "Quando non si è sinceri bisogna fingere, a forza di fingere si finisce per credere; questo è il principio di ogni fede".
Leo Merumeci: opportunista, sleale, meschino. Grossolano, superficiale e ignorante. Senex libidinosus. Corteggia Carla in modo stomachevole, la brama con lussuria: in casa, ogni volta che sono soli, lui approfitta per saltarle addosso. Per il resto è mediocre come tutti gli altri personaggi: il sotterfugio, l'ambiguità, la torbidità costituiscono le sfumature della sua anima.
Il boudoir di Lisa rispecchia la sua personalità: consumato dal tempo e dall'usura, dal via vai di uomini. Sembra amare davvero Michele, ma è un amore anacronistico: come può una donna matura e di esperienza, sognare un amore adolescenziale? Il contrasto tra la sua condotta di vita e suoi vaneggiamenti amorosi la rendono una donna grottesca: sembra essere invecchiata e ingrassata, senza essere mai cresciuta.
In tutti questi personaggi non c'è redenzione, non c'è speranza: alcuni non si rendono conto della tristezza della loro esistenza, altri, pur rendendosene conto, "scelgono" di sprofondarvi. Scelgono tra virgolette perchè non c'è il coraggio, non c'è la forza di una scelta, ma un semplice lasciarsi andare: questa è la borghesia che Alberto Moravia vede e che ci descrive. Una borghesia che nel fascismo e nella guerra, ha visto una possibilità di lucro, o di gloria, o di evasione dalla noia.
"...porcherie, piccole bassezze, piccole falsità, chi non ne depone in tutti gli angoli dell'esistenza come in quelli di una grande casa vuota?"
Questa è, secondo me, la "morale della favola": questa è la morale dei personaggi di Moravia, la morale del compromesso, fatta di mediocrità e soprattutto, di indifferenza.Nel romanzo si respira l'indifferenza, la si tocca, si tocca la noia e il vuoto: attraverso la descrizione non solo dei personaggi, ma anche dei luoghi, Moravia ci fa vedere, attraverso i suoi occhi, la decadenza del tempo, senza nessun moralismo, ma con fredda e drammatica lucidità.

martedì 5 marzo 2013

"Che amarezza" di Majra Musaraj



Questo racconto narra di un semplice procedimento burocratico che diventa un'esperienza ricca, internsa: Majra, giovane liceale di origini albanesi, perfettamente integrata in Italia, deve recarsi a Roma, presso l'ambasciata albanese, per rinnovare il suo passaporto. Ad accompagnarla sua sorella, Giulia.
Majra sente il suo essere italiana e il suo essere albanese, come un armonico intreccio di due bandiere che costituisce la sua identità: non vuole rinunciare a nessuna delle due culture, perchè solo insieme costituiscono la sua completezza.

Prima di entrare alzai lo sguardo ed osservai la mia cara bandiera. Quell'aquila nera possente a due teste spiccava nel bel mezzo del rosso vivo dello sfondo. Immediatamente una strana sensazione mi pervase. Un'ondata di calore mi portò alla mia infanzia ed ai miei primi otto anni di vita trascorsi in quel paese. Sentivo quella bandiera appartenermi, ma allo stesso tempo non mi completava del tutto: quella era solo una parte di me, mentre l'altra era occupata dal drappo tricolore italiano.

Entrando nell'ambasciata, però, Majra vive quella sensazione di estraneità, che la fa sentire diversa, e questa diversità la inorgoglisce e la ferisce allo stesso tempo; un'estraneità data dalle condizioni di trascuratezza, di sporcizia dell'edificio in cui si trova l'ambasciata, che mette in contatto la parte più originaria, inconscia della sua anima con quel pregiudizio, sempre strisciante, nei confronti delle comunità straniere.


A quel punto mi infuriai. Perchè persino un'ambasciata straniera era costretta ad andare avanti in quelle condizioni di miseria, mentre invece quella locale doveva nuotare nell'oro sottratto ai poveri cittadini? Non era forse vero che anche i cittadini stranieri pagavano le tasse come tutti gli altri?

Albanese, italiana, entrambe, nè l'una nè l'altra a volte. Non è questione di etichette, ma è l'identità che ci appartiene, è l'identità che la società, gli altri, riconoscono in noi, è la nostra vita quotidiana. E nella vita di Majra questa identità composita si riflette nelle sue esperienze di adolescente, ad esempio la gita scolastica.


Per colpa di quel maledetto passaporto l'anno precedente non ero neanche potuta andare in gita scolastica in Grecia, perchè, per la solita sfortuna che mi contraddistingueva, solo due giorni prima di partire era uscita una nuova legge, la quale non permetteva agli stranieri privi della cittadinanza italiana di viaggiare fuori dall'Italia e dall'Albania, e io rientravo tra quelli. Ricordai la rabbia e le lacrime versate nell'essere stata l'unica della mia classe a non andare a quella dannata escursione.

Alla descrizione dell'episodio si accompagnano delle riflessioni profonde, che rivelano sensibilità e curiosità verso il mondo, e allo stesso tempo introspezione, voglia di far chiarezza dentro se stessa:


Non riuscivo ad essere tanto sciocca ed egoista da credere l'uomo superiore alla natura ed unico artefice del proprio destino, bensì ritenevo ci fosse un ente da qualche parte, su in cielo, dietro un albero o addirittura sotto un sassolino, non era questo l'importante, che però provvedesse a tutto quanto: agli uomini, ai pianeti, a qualsiasi materiale presente nell'universo, alla vita in sè, alla morte, ma anche al principio e al fine ultimo di ogni cosa.

Un linguaggio semplice, un modo di esprimersi sincero e limpido. Se volete leggere il racconto per intero:

http://www.scrivoanchio.it/scrivo2013/Iscrizioni/Allegati/LavoriPubblicati/87.pdf

Inoltre questo racconto partecipa al concorso "Scrivo anch'io", indetto dalla Tholos Editrice e dall'associazione culturale "Associazione28" di Alberobello(Bari), riservato ai ragazzi tra i 14 e i 18 anni. Se volete votare Majra Musaraj, eccovi l'indirizzo: http://www.scrivoanchio.it/scrivo2013/iscrizioni/elenco_iscritti_pub_VOTO.asp


Oltre a darle un grande "in bocca al lupo", auguro a Majra di coltivare sempre la sua passione, per poter crescere, migliorare e sviluppare al meglio le sue capacità!

venerdì 1 marzo 2013

"Lo stagno di fuoco" di Daniele Nadir

«Ci son mosche su di me
Ci son mosche su di te
Ma su Gesù neanche una
Ma su Gesù neanche una

Ci son mosche su di me-ee
Ci son mosche su di te-ee
Ma su Gesù neanche... una
Ma su... Ge-sù... neanche... una
No, no!


Cavallo di battaglia di Jou Gould (ubriaco)
mentre si esibisce (ballando)
nella ridda di Joseph Ferdinand Gould
alle feste più esclusive del Greenwich Village,
nonché canzone dell'Esercito della Salvezza
in voga i primi del XX secolo»


Premetto che amerei sbattere in galera (e dare la chiave della cella in pasto a un alligatore) chi scrive certe cavolate (per essere signorile) sulle copertine dei libri. Un esempio? "Lo stagno di fuoco" è un libro (incantevole, incredibile) ambientato quasi esclusivamente nell'Inferno, in un Inferno fantasioso e pazzesco; racconta dell'Apocalisse, di come un pugno di uomini e angeli restino fuori dalla suddivisione buoni-cattivi per motivi misteriosi, e di come i protagonisti si muovano tra dannati ed Eminenze, demoni e Squartatoi alla ricerca di un fine che sia il più lieto possibile.
Dove sta la cavolata, vi chiedete? Sta nel fatto che un maledetto genio ha definito "Lo stagno di fuoco" «il romanzo storico sugli ultimi giorni dell'umanità». Proprio così, storico. Non fantasy, eh! È evidente che un romanzo che tratta di tutte quelle belle cose non sia fantastico ma storico, e magari anche ben documentato. Già. E la cosa più bella è che a scrivere questa corbelleria non è stato un umile blogger come me, o qualche recensore folle o qualche bimbominkia con una cognizione distorta dei generi letterari. Qualcuno ha scritto questa definizione, con manifesta fierezza, sulla copertina de "Lo stagno di fuoco", e la Sperling, che non è certo una casa editrice piccola e sprovveduta, non ha evidentemente avuto niente da ridire. Boh. Lasciamo perdere.Tornando al libro... Anzi, no, voglio sproloquiare ancora un attimo. Sapete cosa si trova in giro? Recensioni in cui si dice peste e corna di questo libro perché, a detta di qualcuno, ha una grave pecca, un difetto inemendabile che dovrebbe coprire Daniele Nadir di onta ed infamia. Sapete quale difetto? Tenetevi forte. Quello di avere troppe pagine. Proprio così, il numero di pagine influisce direttamente, e non incidentalmente, sulla qualità di un romanzo. Non perché lo stile sia pesante, la lettura noiosa, la scrittura prolissa (cose che comunque reputo non vere, ma de gustibus...), ma proprio perché le pagine sono troppe. Tant'è...

Niente da fare, queste recensioni mi fanno ridere troppo. Mi sembra di rivedere la pubblicità della carta igienica, con Dante tutto contento che butta giù l'ultimo verso, «l'Amor che move il sole e l'altre stelle», e Beatrice che commenta: "Bellina codesta commedia, Dante, divina! Ma non sarà un tantino lunga?". Mi viene da chiedermi se questi signori reputino un biglietto da visita letterariamente più degno de "I fratelli Karamazov", vista questa corrispondenza biunivoca tra brevità e qualità.
Non intendo sostenere che "Lo stagno di fuoco" sia un romanzo perfetto e senza macchia, o che sia la punta di diamante della letteratura contemporanea. Eppure, la sua qualità mi sembra evidente. Nadir dà un po' il mal di mare, col suo stile oscillante tra picchi elevatissimi (le descrizioni gustosissime delle nature angeliche e demoniache, i brani aulici e quasi poetici e gli sfarzosi racconti nel racconto) e rarissime eppure presenti "fosse delle Marianne" (mi riferisco in particolare allo stile rapidissimo e quasi elementare delle prime pagine). Parlando di fantasy italiano, dopo aver letto Licia Troisi, Daniele Nadir sembra Calliope in persona. Giuro.
Lo Stagno non si presenta come un libro modesto o dimesso, ma questa sua ambiziosa esuberanza non è da rimproverare all'autore, che sembra decisamente all'altezza dei suoi propositi. Nadir è un mix esplosivo di erudizione (storica e mitologica in primo luogo), una fantasia allucinata, uno stile ricchissimo, un'attenzione maniacale per i dettagli più succulenti, il gusto per le suggestioni epiche, apocalittiche e fantastiche. Condire il tutto con le bellissime illustrazioni di Mattia Ottolini. Infornare per alcune settimane (ho impiegato parecchio a leggerlo, per la sua densità che non è necessariamente e direttamente correlata al numero delle pagine). Si otterrà una lettura capace di impressionare profondamente, colpire con tutto il proprio carattere, stupire per la sua qualità e per il suo essere così diversa dai best-seller del momento. Anche i personaggi (tranne la protagonista, Sara, che è praticamente un'ameba) sono delineati sapientemente. Spiccano su tutti, naturalmente, Joe Gould (il tizio che si esibisce ubriaco ballando e parlando il gabbianese), Giuda (scappato niente meno che dalla bocca di Satana, riportandone brutti ricordi e comprensibili motivi di disagio psichico) e l'Arcangelo Michele (potentissimo ed imperturbabile, insospettatamente virile, una lama di diamante, un guerriero santo e implacabile, dotato di «stronza cavalleria»).
Per farla breve, difficilmente nel panorama italiano riuscirei ad indicare un fantasy più ricco, documentato e letterariamente elevato. Allora, per quale motivo non reputo lo Stagno un romanzo perfetto?
Perché, in parte leggendo con attenzione e in parte facendo riferimento ai nutriti ringraziamenti dell'autore, ci si rende conto di quanto poca sia la farina del suo sacco. Certamente non è stato Nadir ad inventare cerchie angeliche e personaggi religiosi, questo è ovvio e banale. Neanche Dante ha inventato granché da quel punto di vista! No, quello che mi ha onestamente deluso è stato scoprire che da un punto di vista strettamente contenutistico lo Stagno sembra un gigantesco copia-e-incolla.
Il Quirim, il sadico gioco delle tre leve, Nadir lo deve ad un suo amico Federico. La Crociata dei Fanciulli, a quanto dice, è un evento storico attestato da non so chi. Il bombardamento di feci (ehm... leggete e capirete!) durante l'assedio di Nuova Dite è un omaggio al Fabulazzo osceno di Franca Rame e Dario Fo. La leggenda dell'Ebreo Errante, quella di Fenrir che inghiotte la luna e molte altre sono evidentemente attinte dalla tradizione mitologica di diverse culture. Il brano sulla luna verso la fine del romanzo è preso dal Cyrano di Rostand. Ma, ciò che ha demolito il mio entusiasmo più di tutto il resto, è stato scoprire che neanche il protagonista è originale di Nadir, bensì preso in prestito dalla realtà (essendo una persona realmente vissuta) attraverso la meravigliosa mediazione de Il segreto di Joe Gould di Joseph Mitchell.
Considerato che, come ho detto prima, l'originalità è uno dei migliori pregi dello Stagno, capirete la mia delusione (constatato che di originale, alla fin fine, non c'è neanche il protagonista!).
Eppure... Non so. Nutro una specie di amore-odio per questo romanzo. Gli devo delle suggestioni che sono rimaste incise davvero in profondità nella mia fantasia, e se rimprovero qualcosa a Nadir, ho molto altro per cui lodarlo. Lo Stagno è un romanzo davvero controverso. Ho detto (lungamente) la mia ma sento di non avergli reso giustizia, perché ci sarebbe ancora davvero molto da dire. Non mi resta che consigliarne caldamente la lettura. Nel bene e nel male, "Lo stagno di fuoco" è un libro raro e imperdibile.
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