martedì 4 ottobre 2016

Produci consuma crepa: la (cosiddetta) vita di un'operaia-consumatrice

18 quadri della vita di una ragazza della fabbrica di conserve: il cortometraggio, diretto dalla regista ungherese Ágnes Kocsis, onestamente non è molto facile da reperire: 22 minuti che devi sudarti, e alla fine ti lasciano svuotato, amaramente divertito e rabbioso. Se riuscite a rimediarlo, guardatelo, ne vale la pena: questo post non ne sarà un riassunto esauriente, né vuole sembrare una vera recensione, ma contiene qualche mia considerazione peregrina.
Il tono emotivo dei 18 quadri non è una disperazione esplicita, ma un senso omogeneo e costante di stordimento, ottusità, carenza di senso. Tale vuoto ideale e vitale (se si prescinde dalla mera sopravvivenza materiale e dagli automatismi corporei quotidiani) si manifesta nell'espressione fenomenologica forse più propria della nostra società: il consumismo. Qui intendiamo il consumismo non come pratica economica o come elemento sociologico e di costume, ma come dimensione esistenziale. Dimensione sulla quale non occorre che io mi soffermi, visto che è giù stata ampiamente espressa in un autentico trattatello filosofico contemporaneo: il brano "Morire" del gruppo punk rock CCCP Fedeli alla linea:

PRODUCI CONSUMA CREPA 
SBATTITI FATTI CREPA 
PRODUCI CONSUMA CREPA CREPA 
RIEMPITI DI BORCHIE SBATTITI FATTI CREPA 
ROMPITI LE PALLE COTONATI I CAPELLI RASATI I CAPELLI 
CREPA CREPA CREPA CREPA

In questo circuito senza senso la protagonista è avviluppata non solo sotto l'aspetto delle risorse economiche e del tempo vitale (a Bologna, se non erro tra la Stazione ferroviaria e il quartiere Bolognina, un graffito fa notare che "Lavori per comprarti la macchina per andare a lavoro") ma, tristemente fino a toccare i toni del tragico, anche sotto l'aspetto soggettivo-emozionale. L'esperienza quotidiana del consumismo è quella che induce il soggetto consumatore a percepirsi sì ancora come progettualità, ma come progettualità a brevissimo termine, se non a vuoto. Lo svuotamento del senso è totale nella ripetizione, virtualmente all'infinito, di questo ciclo formale. La protagonista, una giovane operaia, acquista e mangia yogurt su yogurt, e non perché le piacciano particolarmente o abbia carenze di calcio, ma per una raccolta punti, ossia per vincere un premio che non le serve (e che, una volta ricevuto, saluterà con un «Che figata! Cos'è?»).


Da qualche parte, nella sezione de Il Capitale dedicata alla forma del valore, il bonario sociologo barbuto spiega i meccanismi basilari dello scambio e i concetti di valore d'uso e valore di scambio. Il valore d'uso del pane è il mio potermene nutrire, il valore d'uso di un maglione è il mio poterlo indossare per ripararmi dal freddo. Semplificando, si può in questo modo descrivere uno scambio tra valori d'uso, mediato dal denaro: ho molto pane, ma niente con cui scaldarmi; vendo parte del pane, ne ottengo del denaro (ossia quell'unica merce il cui valore d'uso è l'essere scambiabile con qualsiasi altra merce) e con questo compro un maglione. Ho ceduto un valore d'uso per averne un altro: lo scambio è stato finalizzato a soddisfare dei miei bisogni, e il denaro non è stato per me che il mezzo atto a tale scopo. Nel ribaltamento di questo schema, ossia nella sostituzione dei mezzi con i fini, si colloca la trasformazione dell'uomo in capitalista: possiedo del denaro, e voglio che figli altro denaro. Allora, acquisterò una merce il cui valore d'uso non mi serve, né mi importa, e la rivenderò a chi ne ha bisogno per averne in cambio altro denaro, che diventa capitale in questo processo di accumulazione estraneo ai bisogni reali e umani.
Possiamo sperimentare un simile capovolgimento paradigmatico, sostituendo i fini con i mezzi nell'osservazione delle attività, non solo umane ma anche macchinali, di produzione e consumo. Mi vengono in mente un tosaerba o un motozappa, o più genericamente un'automobile o una macchina. Considerandoli come "aiutanti" in alcune pratiche umane, emerge innanzitutto la loro natura di strumenti. Loro proprio è il consumo preventivo (o, dal punto di vista del loro utilizzatore umano, l'investimento) di carburante a fronte di un'attività da svolgere, di una "produzione", di un lucro (che sperabilmente coprirà tale spesa anticipata e la renderà conveniente). Questa coniugazione di Consumo-Produzione è l'unica possibile per gli strumenti inanimati del nostro lavoro, in quanto privi di appetiti, di pulsioni desideranti, perfino di "bisogni" materiali (carburante e manutenzione, come l'ammortamento del materiale stesso, non sono certo "richiesti" dal macchinario, ma sono spesa implicita nel processo produttivo).
Ora, ribaltando l'endiadi, dovremmo trovarci di fronte ad un'agenda più propriamente umana: Produzione-Consumo. L'idea è che il lavoro, liberamente intrapreso ed eseguito secondo le proprie esigenze e nella quantità necessaria e sufficiente a soddisfarle, sia solo un mezzo (indiretto, cioè socialmente mediato) finalizzato al consumo. Un "consumo" composito, poiché, a differenza del tosaerba e dei proletari descritti da Engels nel 1845, il contemporaneo operaio-consumatore non vive solo del carburante per sopravvivere e lavorare, ma anche di una quantità di cose superflue, soddisfacenti bisogni secondari o perfino pseudo-bisogni, bisogni indotti o immaginari, i quali non rimandano ad alcuna esigenza umana salvo quella, socialmente determinata, dell'"apparenza".
Alcune considerazioni inducono a osservare come tale paradigma del lavoro libero e scelto, come mezzo di soddisfazione dei bisogni (appunto, Produzione-Consumo), sia più accidentale che essenziale (o perfino più ideale che reale). La prima considerazione è immediatamente conseguente la definizione dei "bisogni indotti": indotti da chi, e a che fine?
L'introduzione di bisogni inesistenti, ma che pure bisogna soddisfare se non si vuol vivere a margine della società, allunga a dismisura il tempo del lavoro necessario: si è costretti a lavorare più del necessario se ci si vuole permettere il superfluo. "Superfluo" che tale solo di rado può essere considerato, a meno che non si sia pronti a essere tacciati di eccentricità (o di comportamenti antisociali).
L'immissione sul mercato di bisogni ulteriori richiede l'istituzione di nuovi processi di produzione che li sorreggano e rendano soddisfabili. Molti bisogni secondari non servono che a innescare nuove produzioni, a concimare nuovi rami del mercato. Qui si vede come il ribaltamento (umano) di Consumo-Produzione in Produzione-Consumo sia fittizio: il consumo è finalizzato ad altra produzione, la quale sottende nuovi consumi e nuove produzioni, e stringe sempre più le spire di un mostro mangiatempo, che alla fine rivela come la condizione dell'operaio-consumatore non sia, se non illusoriamente, diversa da quella del tosaerba. Resta vera per l'essere umano la sequenza Consumo-Produzione, e lo sventolare del consumo al termine della sequenza è dovuto semplicemente al fatto che l'essere umano, a differenza degli strumenti inanimati, ha bisogno di un fine, seppure fittizio, a cui tendere. In questo senso, propriamente, il paradigma consumistico è disumanizzante: degradante dal punto di vista ideale, nel suo porre come fine degno di essere conseguito nella vita sempre un qualcosa che possa essere acquistato (e sostituito con un modello più nuovo secondo i tempi dell'obsolescenza programmata), sia dal punto di vista "materiale", nel suo ridurre di fatto l'essere umano a ingranaggio, in niente diverso dall'ingranaggio, se non nel necessitare, all'avviamento, un piccolo surplus di persuasione (a cui l'ideologia dominante, mediata da montagne di trash televisivo e da propaganda cinematografica, contribuisce ampiamente).
In tutto questo, si verifica un altro ribaltamento, il più distruttivo e angosciante: quello del lavoro in schiavitù. Il lavoro inteso in senso hegeliano, come chiave del riconoscimento e dell'affermazione di sé, diventa una trappola, la maledizione veterotestamentaria lanciata sull'umanità dal Dio-Denaro. Il lavoro è esperito come prigionia, come una macchina produttrice di sudditanza e insoddisfazione, che fagocita più tempo di quello che basterebbe per sopravvivere e snatura quel poco che resta libero, riempiendolo di svaghi socialmente suggeriti, a cui fin da piccoli si è addestrati, e che servono più a distrarre dalla vita che a riempire la vita. La protagonista dei 18 quadri e la sua coinquilina, dopo il lavoro, si dedicano al divertimento (e alla ginnastica davanti alla televisione): a qualcosa che non fa sentire meglio, che non indica alcuna alternativa alla mostruosità della vita dell'operaio-consumatore. Ma non è detto che l'alternativa non esista. Forse alludono a questo le preoccupazioni della protagonista quando Paloma, la sua gatta, cerca di sgattaiolare dal piccolo e squallido appartamento: «Non possiamo farla uscire, o vedrà quanto è bello fuori e non vorrà tornare.»
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