lunedì 28 ottobre 2013

Cuore di tenebra, Joseph Conrad

Il cuore di tenebra è un luogo situato al centro mondo. Un luogo che la "civiltà", ossia la cultura occidentale, ha cominciato a sfiorare, ma non è riuscita a penetrare, e forse non ci riuscirà mai. Sarà questo luogo selvaggio, inquietante e originario, a penetrare negli uomini della civiltà che vivranno quel luogo: sarà come un ritorno all'origine dell'umanità, all'origine di se stessi.
Questa è l'esperienza narrata dal capitano Marlow ai suoi marinai, i quali aspettano l'arrivo dell'alta marea per proseguire il loro viaggio nella terra madre della civiltà, l'Inghilterra. Marlow incanta i suoi ascoltatori con la sua narrazione, un'esperienza fuori dal comune, un incontro straordinario: l'incontro con un mondo assurdo, estraneo e originario, l' incontro con un uomo straordinario, magnifico ed orribile, saggio e sanguinario, il capitano Kurtz.
L'esperienza straordinaria di Marlow ha inizio dalla sua ossessione per i luoghi selvaggi e deserti, per quei posti affascinanti ed inquietati al tempo stesso; la sua indole avventurosa lo porterà nel cuore dell'Africa, un cuore oscuro e misterioso.
"È vero, da quel tempo non è ormai più uno spazio vuoto. Fin dalla mia fanciullezza si era riempito di fiumi di laghi e di nomi. Aveva cessato di essere uno spazio vuoto piacevolmente misterioso - uno spazio bianco sul quale un ragazzo potesse sognare la gloria. Era diventato un luogo di tenebra. Ma c'era in esso soprattutto un fiume, un gran fiume possente, che si poteva vedere sulla carta, simile ad un enorme serpente srotolato, la testa nel mare, il corpo in riposo le cui anse si snodavano lontano su una vasta regione, e la coda era perduta nelle profondità di quel territorio. E quando lo vidi sulla carta nella vetrina di un negozio, mi affascinò come farebbe un serpente con un uccello - uno stupido uccellino. Poi ricordai che c'era una grossa impresa, una compagnia commerciale con basi su quel fiume. Accidenti!, pensai tra me, non possono commerciare senza usare qualche specie di imbarcazione su quella gran massa d'acqua dolce - battelli a vapore! Perché non tentare di ottenere il comando di una? Proseguii lungo Fleet Street, ma non riuscii a liberarmi di quell'idea. Il serpente mi aveva incantato."
Giunto in questa terra "aspra e forte, che nel pensier rinova la paura",  la prima sensazione di Marlow è quella di una profonda insensatezza, sentimento che lo accompagnerà per tutto il suo viaggio. I villaggi sono deserti a causa della colonizzazione europea: non solo gli abitanti, ma le abitazioni stesse sono scomparse. Un immenso nulla si apre di fronte allo sguardo di questo uomo sceso negli inferi, venuto a cercare il senso stesso della sua esistenza nel centro della Terra. Tutto è incomprensibile: le grida dei selvaggi, la loro stessa presenza. Il tono del racconto è onirico: sembra che si stia descrivendo un'allucinazione, piuttosto che un'esperienza concreta e reale. Un sogno, un incubo, un senso di attesa e di sospensione nel vuoto. Marlow pensa a Kurtz, a questo grande e leggendario cacciatore di avorio, uno dei migliori, una leggenda divenuta motivo di inquietudine e di imbarazzo per i coloni occidentali, per chissà quale motivo.
Bisogna raggiungere Kurtz, Marlow sa solo questo, pensa solo al momento in cui potrà conoscerlo.

Il cuore di tenebra è un luogo dentro noi. È il nostro stesso cuore. Siamo noi quando saltano per aria tutte le convenzioni e le costruzioni sociali che ci danno sicurezza, che ci permettono di vivere. È la nostra mera natura, aspra e selvaggia come una terra dimenticata dalla civiltà, inquietante ed incomprensibile.
È quasi impossibile addentrarsi in questo luogo, ma Kurtz lo ha fatto: è giunto nel cuore dell'Africa, e da qui, ha raggiunto il suo cuore di tenebra.
Kurtz è spietato, è un pazzo, è solito decapitare i suoi nemici, infilare le teste su dei pali, ed esporle intorno alla sua casa; gli altri coloni della compagnia non ne condividono i "metodi". I metodi? Marlow si chiede che senso abbia condividere o meno i metodi di un cacciatore d'avorio che massacra decine di uomini per ottenere ciò che vuole. Esiste un metodo condivisibile?  È assurdo, insensato, agghiacciante.
Questi pensieri porteranno Marlow a sentirsi vicino a Kurtz, a trovare nella sua esperienza un senso. Il senso è l'assenza di senso. Il senso sono le nostre piccole e rassicuranti ipocrisie, costruzioni precarie, fragili. È il venire meno di queste costruzioni a contatto con la natura selvaggia.
Kurtz sintetizza il senso della sua vita in una sola parola, pronunciata poco prima di morire: "Orrore!".

"Kurtz era un uomo notevole. Lui aveva qualcosa da dire. L'aveva detta. Siccome io stesso avevo sbirciato dall'orlo del precipizio, capisco meglio il significato del suo sguardo fisso, che non poteva vedere la fiamma della candela, ma era abbastanza ampio da abbracciare l'universo intero, abbastanza pungente da penetrare tutti i cuori che battono nelle tenebra. Aveva tratto le somme - aveva giudicato. "Orrore!". Era un uomo notevole. Dopo tutto, quella era l'espressione di un qualche credo; aveva candore, aveva convinzione, aveva una vibrante nota di rivolta nel suo sussurro, aveva la faccia spaventevole di una verità intravista - lo strano mescolarsi di desiderio e odio. E non è il mio momento estremo che ricordo meglio - una visione di grigiore senza forma ricolmo di dolore fisico, e un noncurante disprezzo per l'evanescenza di tutte le cose - persino di quello stesso dolore. No! È il suo momento estremo che mi sembra di aver vissuto."

Ispirato a questo romanzo è  Apocalypse Now, film del 1979 realizzato da Francis Ford Coppola. La genialità del regista sta nel riportare il senso stesso del romanzo in un contesto differente: dall' Africa colonizzata di fine Ottocento, si passa al Vietnam invaso dagli americani negli anni Sessanta. Il regista traduce in immagini l'insensatezza che Conrad esprime a parole.
Sia leggendo il romanzo, che guardando il film, si compie un viaggio, si attraversa l'orrore, si comprende che la guerra, la violenza, il dolore sordo e insensato delle vittime innocenti, lungi dall'essere espressione di una razionalità superiore (sia essa Commercio, Libertà, Democrazia), altro non è che delirio.

sabato 26 ottobre 2013

L'ultimo dei poeti beat - John Giorno


Noi di Caratteri Vaganti non potevamo farci scappare un'occasione ghiotta come un incontro con quella "epifania poetica" che è John Giorno, l'ultimo dei porti beat. L'evento, organizzato al Cineporto di Bari il 7 Ottobre, nasce dalla collaborazione tra l'Università degli Studi di Bari e il Centro Studi di Apulia Film Commission e si propone di presentare al pubblico l'uomo che, ormai settantasettenne, ha realizzato una incredibile sinergia tra la voce e la poesia. Con Giorno, la "Spoken Word" diventa, infatti, essa stessa poesia, manifestandosi come ciò che fa parlare i caratteri "meramente" impressi sulla carta. La poesia è performance e il poeta è un modulatore di suoni, che usa la voce alla stregua della penna. Per un poeta di tal genere non si parla, dunque, solo di una bibliografia, ma di una vera e propria discografia: di John sono famosi l'lp del 1967 "Rasberry and Pornographic Poem" e il cd del 1993 "Cash Cow. The best of Giorno Poetry Systems, 1965-1993".


John Giorno durante una performance
L'approdo a questo tipo di scrittura parlante è stato sicuramente un approdo graduale in qualche modo influenzato dal lavoro della "Factory" warholiana. Ebbene, beat generation e pop art sono due mondi inconciliabili che, tuttavia, si sono amalgamati nella persona di John Giorno: «Sono stati una fonte di ispirazione. Loro facevano questo lavoro con la pittura e ho pensato: perché non fare la stessa cosa con la poesia?», ci dice John durante l'intervista coordinata dalla professoressa Francesca Recchia Luciani, docente di Storia della Filosofia Contemporanea. Così, al 1965 risale il progetto "Dial-A-Poem": chiunque, componendo dei numeri telefonici, poteva ascoltare cinque minuti di poesie perlopiù dal tema sensuale. Una provocazione, certo, ma anche il tentativo lucido e legittimo di dare spazio all'attività poetica: come ci suggerisce la professoressa, il tentativo era quello di portare la poesia dove era arrivata la pop art.
Warhol e Giorno divennero amanti e collaborarono per realizzare "Sleep" (1963), il primo film in cui il corpo di un uomo veniva presentato "come campo di luci e ombre": si trattò di riprendere John dormiente per 5 ore e 20 minuti.
Il documento visivo di Manlio Capaldi ci mostra il lato più intimo e sconosciuto della relazione tra i due: significativi sono il racconto della morte di John Fitzgerald Kennedy («La morte di J.F.K. sembrava indicare la morte delle certezze dei desideri di tutti») e la spiegazione del quadro che Warhol realizzò con una Jackie Kennedy devastata dal dolore, muta e implacabile nella sua bellezza perfetta.
Fu però un altro quadro a convalidare questa forte amicizia: "Bellevue I", del 1963, che poi Giorno vendette ad un collezionista. Anni dopo commentò: «Glielo vendetti...l'ultima benedizione degli anni '60!».


Andy Warhol, Jackie Kennedy, 1964


Andy Warhol - Bellevue I, 1963

John ci parla del suo passato con un sorrido nostalgico e, qualche volta, con una risata contagiosa. Se il pubblico gli chiede qualche aneddoto, eccolo mostrare una disponibilità incantevole e una simpatia straordinaria: nel 1958, quando era un anonimo laureato della Columbia University, andò ad una festa con una amica. Tra gli invitati spiccavano Jack Kerouac (che l'anno prima aveva pubblicato "On the Road") e Allen Ginsberg (che era ancora imputato per aver scritto "Urlo"). Il primo, con un evidente "gay behaviour", si avvicinò al novellino, ma la confusione non permetteva loro di capirsi. «Questo è un incubo! Jack Kerouac mi sta parlando e io non sento!» racconta Giorno, tra le risate del pubblico.




Gli occhi vispi di questo incredibile poeta ci colpiscono profondamente e si ergono a testimoni di una professione di fede: «La poesia, che è saggezza, sorge prima come luce e poi come suono. La poesia è parole, le parole sono suono, il suono è saggezza, la saggezza è luce. Detto altrimenti: la luce è saggezza e il suo suono è composto da parole che contengono la poesia. [...] Nella performance, la luce può divenire un punto morto se non la trasformi in un'energia che è calore, e il calore è sudore, e il sudore è il poeta che fluttua su questa soglia.» (La saggezza delle streghe, Stampa Alternativa, 2006)
La poesia ha a che fare con la fisicità, con una gestualità marcata che si imprime nello spettatore con una delicata violenza: la performance di John  Giorno è qualcosa che bisogna vedere almeno una volta nella vita perché, inesprimibile, è una di quelle esperienze che devono essere capite in quanto vissute e metabolizzate. Quando Domenico Brancale gli dice che qualcuno ha detto che la poesia è erezione, Giorno risponde: «Lo spero proprio!». Noi non possiamo che sorridere, ammirando la profondità dietro l'ironia, la poetica dietro la voce, la forza pimpante dietro il viso stanco di un settantasettenne.

Vi salutiamo con due regali: il primo è il video del singolo con cui i R.E.M., nel 2011, diedero l'addio alle scene musicali. Il secondo è un pezzo della performance di John del 7 Ottobre.



venerdì 25 ottobre 2013

"Le stelle che stanno giù - Cronache dalla Jugoslavia e dalla Bosnia Erzegovina" di Azra Nuhefendić

«Guardando dalle finestre, di notte, le luci della città apparivano come fossero delle stelle. "Guarda, le stelle stanno giù", diceva da bambina.
Anche noi adulti contiamo le stelle di Sarajevo che stanno sotto.»

Dei punti luminosi, terreni e terrestri, scambiati per stelle cadute: è la sacralità della "fratellanza dei popoli jugoslavi" che precipita su una terra dilaniata da contrasti fratricidi. Alla morte di Tito, le contraddizioni esplodono e non ci sono più Jugoslavi, ma Bosniaci, musulmani, Serbi, cattolici, Croati, comunisti atei. I solchi sono culturali, religiosi, etnici, e laddove la lingua parlata dagli ex-jugoslavi sia quasi identica ovunque si pretende anche ci siano barriere linguistiche.
In questo magma vorticante di contrasti e violenza, la giornalista Azra Nuhefendić è profondamente avviluppata.

«Pochi mesi dopo l'inizio della guerra in Bosnia Erzegovina, mi licenziarono dal lavoro. Nella capitale della Serbia, il Paese che faceva la guerra alla Bosnia Erzegovina, a Belgrado, una musulmana non poteva sperare di trovare lavoro. Disoccupata, dichiarata un nemico pubblico, cercavo di sopravvivere

Coi diciotto racconti della raccolta, Nuhefendić ci trascina nelle odissee piccole e gigantesche di chi per la guerra ha perso il lavoro, la casa, la considerazione altrui, l'identità. Le contraddizioni dell'ex-Jugoslavia ci sono raccontate attraverso la storia della Zastava di "Kragujevac la rossa", la fabbrica dal passato solidamente socialista i cui operai negli anni Duemila manifestavano per poter continuare a produrre e vendere armi; la storia del "Six billion baby", il seimiliardesimo nato dell'umanità, che divenne occasione di pubblicità e risalto per l'allora presidente dell'ONU Kofi Annan per poi essere rigettato nella sua condizione poco migliore della miseria; la storia della Haggadah di Sarajevo, un manoscritto che gli Ebrei sefarditi portarono da Barcellona dopo l'espulsione del 1492 e che, tra atti di viltà e di coraggio, riuscì a sopravvivere ai secoli e infine alla follia nazista; attraverso la storia di Alija Sirotanović, il minatore che batté il record di Stahanov (estraendo coi suoi compagni ben 154 tonnellate di carbone) e diventò l'eroe nazionale, il volto stampato sulla banconota da dieci dinari negli anni '50.

«A Belgrado, fu ricevuto dal presidente Tito in persona e decorato con la Medaglia dell'Eroe. 
Scrivevano che Tito gli avesse domandato cosa egli volesse per sé. E Alija chiese due cose: che portassero l'elettricità nel suo paesino e che lo collegassero, con pochi chilometri di strada asfaltata, alla città più vicina. Detto fatto. Dopo, insistettero perché Alija esprimesse un desiderio più personale. Fedele a se stesso chiese una vanga più grande, per poter prendere più carbone.»

Piccole storie ereditate da una Jugoslavia socialista ormai in pezzi. Racconti tenebrosi di guerra, racconti semplici e toccanti di umanità e speranza. Nuhefendić racconta la sua Bosnia (e anche la sua Jugoslavia) attraverso uno stile snello, pulito, giornalistico: stupisce, coinvolge, istruisce e commuove senza artifici né facile retorica. I suoi diciotto racconti brillano per la propria intrinseca potenza narrativa, puri plot spesso didascalici e ricchi di digressioni e divagazioni. Chiaro e potente, "Le stelle che cadono giù" si legge in mezza giornata e lascia la gola riarsa, il desiderio inappagato di lasciarsi condurre ancora da Nuhefendić nella terra pacificata della sua infanzia, in quella dilaniata della sua età adulta. È una piccola lucente sorpresa, un libro raro e delicato che spalanca una finestra su una realtà storica e geografica che è interessante ed edificante indagare nei suoi risvolti più tangibili, umani, intimi. Un autentico Hemingway bosniaco, Azra Nuhefendić ci affida le sue cronache semplici come racconti orali, chiari come articoli, vividi come frammenti di vita vissuta.
Ogni racconto è un nocciolo di luce, una stella caduta giù per farci esprimere un desiderio. Quello di un'"internazionale futura umanità" in cui gli uomini smettano di scannarsi tra loro ed immiserirsi e dimenticarsi gli uni degli altri.

mercoledì 16 ottobre 2013

"I dannati della terra" di Frantz Fanon

Chi sono i dannati della terra?
Sono «les damnés de la terre», «les forçats de la faim» ("i forzati della fame"), «foules, esclaves» che l'Internazionale incoraggia ad alzarsi in piedi con il suo «Debout!». Sono gli schiavi della Terra, gli oppressi, gli uomini relegati da altri uomini ad una condizione di minorità, misera, subumana e priva di dignità. Sono i servi della gleba e i proletari del nostro mondo occidentale, ma nell'opera di Fanon sono soprattutto i colonizzati: i popoli latino-americani, asiatici e nordafricani, schiacciati, dominati e sfruttati dall'Europa e dal «mostro supereuropeo» suo figlio, gli Stati Uniti.
Nato nel 1925 nella Martinica francese, discendente di schiavi africani, Fanon si è sempre trovato immerso nella condizione di sudditanza e di menomazione culturale che caratterizza il colonialismo. La sua condizione di piccolo-borghese gli permise di studiare psichiatria, filosofia, sociologia fino a diventare l'ideologo del terzomondismo. Il suo disgusto per le violenze operate dagli Europei ai danni dei popoli colonizzati lo portarono a militare nella Resistenza francese durante la Seconda Guerra Mondiale, per poi trasferirsi nell'Algeria che lottava per la propria indipendenza e collaborare alle operazioni dell'F.N.L. (il Fronte di Liberazione Nazionale algerino).

"I dannati della terra" è una ricerca estremamente ricca, attenta e raffinata sul tema del colonialismo, sui suoi risvolti sociali e culturali, sulle sue tragiche implicazioni per i popoli colonizzati.Vivendo sul campo e lavorando per i ribelli durante la Guerra d'Algeria, Fanon poté anche raccogliere materiale psichiatrico (che costituisce l'ultima parte dell'opera) sconvolgente, che corrobora la sua tesi e la sua accurata riflessione sociologica: un uomo diventato impotente in seguito allo stupro subito da sua moglie ad opera di un soldato francese, un padre di famiglia spinto sull'orlo della follia dal lavoro che lo obbliga a torturare i partigiani algerini per dieci ore al giorno, due bambini algerini che, subissati di messaggi di violenza e razzismo, testimoni delle angherie subite dal proprio popolo finiscono con l'assassinare brutalmente il loro compagno di giochi francese. La violenza distruttrice del colonialismo si riflette sulla mente e sul corpo delle vittime, che somatizzano impotenza, alienazione, dissociazione, spersonalizzazione in una serie di psicosi, irrigidimenti muscolari, attacchi nervosi, allucinazioni, deliri di persecuzione e auto-accusa, tentati suicidî.
L'opera analizza con enorme attenzione la dialettica che si instaura tra coloni e colonizzati, l'insieme di meccanismi che scattano a livello internazionale in risposta ad occupazioni, violenze colonialiste o tentativi di emancipazione da parte dei popoli occupati. Il rapporto tra Nord e Sud del mondo è sviscerato dal punto di vista fenomenologico e teorico, è illustrato con assoluta trasparenza. Fanon spiega che il Terzo Mondo non è una creazione dell'Europa, ma «l'Europa è letteralmente la creazione del Terzo Mondo», perché costruisce il suo potere, la sua ricchezza, la sua fama, la sua tecnica sulle risorse estorte ai Paesi sottosviluppati. La presa di coscienza di questa dialettica servo-padrone, per cui è il Primo Mondo ad avere disperatamente bisogno del Terzo Mondo (da violentare e sfruttare, ovviamente), è un primo passo da parte dei popoli colonizzati sulla strada dell'emancipazione culturale e infine politica. Infatti, Fanon illustra il nesso inscindibile tra la formazione di una coscienza nazionale, la riappropriazione di identità popolare, la lotta armata e infine la rivoluzione politica che possa condurre un popolo oppresso ad una nuova libertà.
«Miseria del popolo, oppressione nazionale e inibizione della cultura sono una sola e medesima cosa» e questo è evidente: dacché l'uomo esiste e fa danni, gli invasori e i colonizzatori si sono sempre adoperati per la distruzione delle culture native parallelamente alla violenza armata e allo sfruttamento economico. Se questo è vero (ed è vero) in un senso, Fanon mostra che può esserlo anche nell'altro: l'autoaffermazione culturale, l'emancipazione dal dominio linguistico, religioso ed ideologico imposto dagli occupanti, la riscoperta della cultura delle origini accompagna il processo politico che può fare del colonizzato, dell'indigeno, del sottouomo un nuovo uomo, un uomo libero. Alla domanda: «la lotta nazionale è una manifestazione culturale?», Fanon risponde che «la lotta organizzata e cosciente intrapresa da un popolo colonizzato per ristabilire la sovranità della nazione costituisca la manifestazione più pienamente culturale che esista». Un popolo che sia stato annichilito, il cui pensiero sia stato atrofizzato, la cui dignità sia stata misconosciuta, ha bisogno innanzitutto di riscoprirsi popolo per poter desiderare e attuare la propria riabilitazione come tale.
Nel processo per cui «la "cosa" colonizzata diventa uomo» è allora importante il ruolo dell'intellettuale e dell'artista. Prima dei fermenti rivoluzionari e durante le guerriglie per l'indipendenza, vediamo modifiche nella lavorazione del legno o di altro materiale da parte degli artigiani tradizionali, ad esempio: «animando volti e corpi, prendendo come tema creativo un gruppo avvitato su uno stesso zoccolo, l'artista chiama al movimento organizzato». L'introduzione del moto nelle composizioni estetiche, il maggiore fermento e le innovazioni nelle manifestazioni culturali, l'abbandono del formalismo sono il riflesso della coscienza nazionale che matura e ribolle. Osservazioni analoghe riguardano la produzione musicale, orale, scritta. Dopo una prima fase di omologazione con la cultura dell'occupante (è il caso degli indigeni africani e nordafricani che sono stati istruiti e formati attraverso l'istituzione di scuole francesi, apprendendo la lingua del colono, studiandone e apprezzandone la letteratura), l'intellettuale colonizzato riscopre la cultura originaria del suo popolo e cerca di rinverdirla, la fa fermentare, cerca di diffonderla, se ne serve come strumento di propaganda e di lotta.
Se il nazionalismo è reazionario nel mondo occidentale, esso è progressista in un Paese del Terzo Mondo: affermare la propria identità nazionale è per un popolo colonizzato una tappa fondamentale verso la libertà dalla violenza straniera, verso l'appropriazione di un'identità riconosciuta a livello internazionale che permetta il dialogo con gli altri Paesi. «La coscienza di sé non è chiusura alla comunicazione. La riflessione filosofica ci insegna invece che ne è la garanzia». Scattano allora una serie di meccanismi che coinvolgono amici e nemici di tutto il mondo: se altri popoli oppressi vedono nel ribelle un compagno di lotta e una fonte di ispirazione, gli artefici del colonialismo e i propugnatori della sua ideologia si sentono minacciati e tenuti ad intervenire con la forza.


«Castro prende il potere a Cuba e lo dà al popolo. Quest'eresia è risentita come flagello nazionale tra gli yankees e gli Stati Uniti organizzano brigate controrivoluzionarie, fabbricano un governo provvisorio, incendiano i raccolti di canna, decidono infine di strozzare spietatamente il popolo cubano. Ma sarà difficile. Il popolo cubano soffrirà ma vincerà. Il presidente brasiliano Janos Quadros, in una dichiarazione d'importanza storica, ha ora affermato che il suo paese difenderà con tutti i mezzi la Rivoluzione Cubana. Perfino gli Stati Uniti forse indietreggeranno davanti alla volontà dei popoli. Quel giorno, noi metteremo fuori le bandiere, poiché sarà un giorno decisivo per gli uomini e per le donne del mondo intero. Il dollaro che, tutto sommato, è garantito soltanto dagli schiavi ripartiti sul globo, nei pozzi di petrolio del Medio Oriente, nelle miniere del Perù o del Congo, nelle piantagioni dell'United Fruits o di Firestone, cesserà allora di dominare con tutta la sua potenza quegli schiavi che l'hanno creata e continuano a testa vuota e pancia vuota a nutrirlo della loro sostanza.»


Capita anche che un capo di Stato europeo dichiari di voler aiutare i Paesi sottosviluppati, in un moto di strepitosa benevolenza. In casi del genere, Fanon osserva come gli ex-colonizzati non trepidino (e giustamente!) di riconoscenza: non si tratta di un'opera di carità o di un esempio di liberalità, ma di un dovere sacrosanto. Le potenze capitaliste devono pagare, e questo risarcimento è dovuto ai Paesi colonizzati, e non è comunque sufficiente a ripagarli dei danni subiti.
Infatti, l'Europa si è macchiata nel corso della storia di un'infinità di delitti, «di cui il più efferato sarà stato, in seno all'uomo, lo squarcio più patologico delle sue funzioni e lo sbriciolamento della sua unità; nel quadro d'una collettività, la rottura, la stratificazione, le tensioni sanguinose alimentate da classi; infine, alla scala immensa dell'umanità, gli odi razziali, la schiavitù, lo sfruttamento».
Ne "I dannati della terra", Fanon non si rivolge a questa Europa violenta e sfruttatrice, né agli Stati Uniti e alle loro ambizioni: gli interlocutori dell'autore sono proprio «les damnés de la terre», gli schiavi, i colonizzati. A loro Fanon rivolge un appello accorato: questo libro, il pilastro ideologico e teorico del terzomondismo, è un vero e proprio manifesto di liberazione dell'oppressione, di redenzione dell'Uomo propriamente umano dalle violenze azzeranti dei più forti, di recupero della propria dignità annullata dal capitalismo, dallo sfruttamento, dal sistema economico. "I dannati della terra" è un libro che non dovrebbe mancare nella libreria di nessuno.

sabato 5 ottobre 2013

"Il bar sotto il mare" di Stefano Benni

«- Siamo stati lieti di averla tra noi - disse il vecchio con la gardenia - e ci auguriamo che lei non vorrà venire meno alla nostra consuetudine: chiunque entra nel bar sotto il mare deve raccontare una storia.»

Un vecchio con la gardenia all'occhiello, tre uomini col cappello, un marinaio, una bionda, un nano, una sirena, un cuoco, un cane, la sua pulce, un uomo invisibile... Questi e altri sono gli avventori del bar sotto il mare. Un anonimo ospite si immerge con nonchalance nei flutti e arriva nell'onirico bar sotto il mare, dove nessuno esce senza aver ascoltato le storie degli altri e averne raccontata una a sua volta.
Ogni avventore prende la parola in un giro di valzer verbale: raffiche di parole, di stili, di citazioni, di suggestioni si susseguono a ritmo serrato, 24 racconti (più prologo) che Benni snocciola con mano liberale e frizzante. Leggere questa raccolta è come sgranare un rosario, un racconto via l'altro, in un concatenarsi avvincente e leggero.
Benni lancia occhiate fugaci ma gustose su ambientazioni del tutto diverse: un ristorante francese di mezzo secolo fa, i mari tropicali, una lussuosa California, la giungla nera africana, una dittatura sudamericana non meglio specificata e l'incredibile paesino di Sompazzo, nei cui pressi atterrano marziani innamorati e i cui abitanti ne vedono e vivono di tutti i colori. Tra i mille ambienti delineati in modo essenziale e brillante da Benni, Sompazzo è quello che strappa più sorrisi, tra le imprese da Pirgopolinice dei suoi uomini e le follie sproporzionate del suo clima. Nell'anno del tempo pazzo, ci si addormenta sotto un albero carico di mele acerbe e ci si sveglia coperti di marmellata. E se scoppia una diatriba tra due amici per una bicicletta senza proprietario, essa viene risolta in tre tempi: a fiatate e a vino e salsiccia, ma solo dopo un primo round di insulti. Ettore e Achille di Sompazzo, dopo essersi scambiati piccanti offese in rima e prima di sciorinare improperi in un'incomprensibile scriptio continua dialettale, fanno tappa sull'insulto politico:

«Carogna fetente di un fascistaccio più fascista di tutti i padroni fascisti della casa del fascio più fascista del peggio fascista che a confronto a te Mussolini era un compagno che compagno a tresette ti ci vorrebbe Kappler e compagno a bocce il führer che sei più fascista di un prete fascista e più democristiano di un treno di suore e fascista più di tutte le esseesse passate di qua e di tutti i dittatori del Vanzenzuela e di tutti i preti che c'è a Roma e di tutti i padroni che c'è al mondo.»

Basta sfogliare un attimo il libro per essere colpiti dalla varietà e dalla versatilità di cui fa sfoggio Stefano Benni. Modella il proprio stile in base al racconto (tetro e misterioso nel racconto in stile Edgar Allan Poe, snello e fiabesco in quello del venditore di tappeti, composto di grammelot e supercazzole marziane quello sull'alieno innamorato), sempre conservando un registro colto, un tono vivace e una piacevole leggerezza.
"Il bar sotto il mare" è un cabaret di racconti gustosi, divertenti, intelligenti e mai scontati, una carrellata di storie brevi o brevissime che si leggono tutto d'un fiato. Consigliatissimo!

«IL RACCONTO DELLA PULCE DEL CANE NERO
RACCONTO BREVE

C'era un uomo che non riusciva mai a terminare le cose che iniziava. Capì che non poteva andare avanti così. Perciò una mattina si alzò e disse:
"Ho preso una decisione: d'ora in poi tutto quello che inizie..."»

venerdì 4 ottobre 2013

"Ragione e sentimento" di Jane Austen

Pubblicato anonimo nel 1811 ed inizialmente intitolato "Elinor e Marianne", "Ragione e sentimento" è il primo romanzo compiuto della preromantica Jane Austen. Nonostante la congiunzione copulativa presente nel titolo, l'idea che si impone immediatamente è quella di un contrasto (niente affatto ostile, meglio forse dire una divergenza) tra le due protagoniste, appunto Elinor e Marianne.
Diciannovenne la prima, diciassettenne la seconda, le sorelle Dashwood incarnano due perfetti antipodi caratteriali, la passionalità e la posatezza, maldestramente rese dal titolo italiano "Ragione e sentimento" (non è poca la differenza col titolo in lingua inglese, "Sense and sensibility", che nessuna delle alternative italiane è mai riuscita a rendere soddisfacente, neppure il "Sensibilità e buon senso" proposto nel 1945 da Evelina Levi, che pure si avvicina di più al risultato auspicato e conserva l'allitterazione dell'originale). La contrapposizione tra la ragione e il sentimento, infatti, sembrerebbe suggerire una soggiacenza all'amore da parte di una protagonista e un'austera indifferenza (insensibile e magari calcolatrice) da parte dell'altra. Non è affatto così.
Infatti, la primogenita, Elinor potrebbe essere considerata incarnazione di un ottimo antirazionalismo, piuttosto che di una fredda razionalità a tenuta stagna. Come sua sorella è innamorata (del poco brillante e caratterialmente amorfo Edward Ferrars), ma fa sfoggio del suo "sense" mostrando un carattere pacato e la capacità di gestire le proprie pene amorose con dignità. Diversamente,

"Ragione e sentimento" nella 
bellissima edizione curata da 
Dacia Maraini per la collana
 "Grandi Autrici" del 
Corriere della Sera
«Marianne Dashwood era nata per un singolare destino. Era nata per scoprire la falsità delle sue opinioni e per sconfiggere con la sua condotta le sue massime più care

La secondogenita è infatti impulsiva, preda di stati d'animo tracotanti ed ingestibili, al punto da finire allettata, indebolita e considerata in fin di vita in seguito alle pene d'amore (che, del tutto analoghe a quelle di Elinor, sono subite con trasporto piuttosto che affrontate).
Infine la terzogenita, Margaret, «aveva già assorbito una discreta quantità del romanticismo di Marianne senza aver la sua intelligenza, non prometteva, a tredici anni, di uguagliare le sorelle in un periodo più avanzato della sua vita». In poche parole è un'indegna nullità che si limita a fungere da tappezzeria, brillando per la sua assenza e irritando per la mediocrità che emerge da quell'unico rigo di descrizione che le è concesso in tutta l'opera.
La storia delle due sorelle maggiori si dipana tra villeggiature di campagna e soggiorni nella trafficata Londra, nell'accogliente benché modesto villino di famiglia e nei salotti altrui, in un avvicendarsi estenuante di ricevimenti, gite ed inviti. Con un'ironia che sembra a tratti lasciar affiorare una punta di disprezzo, Jane Austen offre spaccati attenti ed eloquenti della società borghese e aristocratica tardo-settecentesca e dei primi dell'Ottocento, dandone un'immagine piuttosto squallida. La necessità di intessere pubbliche relazioni, di curare la propria immagine e di stringere i rapporti giusti campeggia nelle preoccupazioni dei personaggi, che si dedicano senza requie all'abbellimento della propria dimora e alla selezione delle giuste frequentazioni, e che consumano il proprio intelletto e spremono le proprie meningi nella decisione su come trascorrere il pomeriggio (esercizio al pianoforte o gitarella sui verdi prati fuori porta?). Neanche il rubacuori Willoughby è esente da critiche (del resto meritate) per il suo opportunismo.

«"Tutto il suo comportamento" rispose Elinor, "dal principio alla fine di questo affare, è stato basato sull'egoismo. E' l'egoismo che da principio lo ha fatto scherzare col tuo affetto; che in seguito gli ha fatto ritardare la dichiarazione del suo, e che finalmente lo ha portato via da Barton. Il proprio piacere, o il proprio vantaggio, è stato sempre, in ogni particolare, il principio che lo ha diretto"

Il frammento di società messo a nudo in "Ragione e sentimento" (come in tutta la produzione della Austen) è dei più repellenti. Gentaglia ben vestita e benpensante che vive di rendita e si sdilinquisce in affettati convenevoli, misconoscendo la fatica come l'autenticità dei rapporti umani. Si potrebbe godere del caustico sguardo dell'autrice se in "Ragione e sentimento" si conservassero intatti e coerenti quel tono critico e quella ironica presa di distanza che mi hanno fatto apprezzare "Lady Susan". Invece, nonostante i personaggi che fungono da contorno e sfondo (l'ottusa lady Middleton con i suoi marmocchi, la pettegola signora Jennings convinta con le sue invadenti e maldestre pratiche da agente matrimoniale dilettante, le sorelle Steele con i loro modi da gattemorte, la gelosissima e perfida Sophia Grey che si disputa il belloccio Willoughby con Marianne) siano spietatamente descritti in tutta la loro pusillanime superficialità, anche le due protagoniste sembrano avviluppate nella mentalità del loro ceto.
Anche loro vivono di salotti e tempo libero, osservarlo è ovvio e banale, oltre che superfluo. La narratrice cerca di rendere le sue protagoniste più apprezzabili mostrandone le sofferenze amorose, le oneste intenzioni, la sincerità dei sentimenti, il mancato attaccamento ai rapporti intessuti per interesse o per prestigio. Quando una delle due sorelle riesce a coronare il suo sogno d'amore, accasandosi con l'amato, ogni lettore si direbbe appagato così e sguazzerebbe festoso nel lieto fine. Invece, Jane Austen rimane vittima della mentalità borghese che sembra tanto aspramente criticare, e si mette a puntualizzare sulla rendita del marito, sull'eredità dei suoceri, sul fato benevolo che garantisce ai neosposini maggiore benessere di quello preventivato (poveri cari, non si poteva certo lasciare che la protagonista vivesse modestamente solo d'amore!).
Non si può comunque decontestualizzare quest'opera, dimenticandone il retroterra sociale e storico. Non esiste parola disincarnata e Jane Austen era pur sempre una signorina dello Hampshire di duecento anni fa. Ciò considerato, "Ragione e sentimento" dev'essere senza dubbio ritenuto una lettura importante e onestamente anche abbastanza piacevole (a me i languori dei salotti e gli struggimenti delle signorine inglesi danno l'orticaria, eppure sono sopravvissuta).

«"Lì, proprio lì" e indicò con la mano, "su quel monticello sporgente, lì caddi, e vidi Willoughby per la prima volta."
La sua voce si abbassò a quella parola, ma subito riprendendosi aggiunse:
"Grazie a Dio posso guardare quel punto con così poco dolore! Ne riparleremo ancora, Elinor" disse, esitante, "o sarà meglio di no?... Spero di poterne parlare adesso come si deve:"
Elinor la invitò teneramente ad aprirsi con lei.
"Quanto al rimpianto" disse Marianne "l'ho superato per ciò che lo riguarda. Non voglio parlarti di quello che sono stati i miei sentimenti verso di lui, ma di quello che sono adesso. Oggi, se potessi assicurarmi di una cosa sola, se mi fosse concesso di pensare che non ha rappresentato sempre una parte, che non mi ha ingannata sempre, ma, soprattutto, se potessi sentirmi sicura che non è stato mai tanto perfido come ho paura di averlo immaginato qualche volta [...]".»

giovedì 3 ottobre 2013

"Cuore di cane" di Michail Bulgakov

"Cuore di cane" è un romanzo fantascientifico-satirico pubblicato per la prima volta nel 1928 nella Russia comunista. Il peso delle recenti vicende economico-politiche si avverte sin dalle prime pagine, dove salta all'occhio il tono marcatamente polemico con cui Bulgakov ironizza sul nuovo stato comunista (l'Urss) fondato da Lenin pochi anni prima (1922). Lo si nota subito: i proletari, senza alcuna eccezione, vengono dipinti come gretti, rozzi e violenti. L'incipit dell'opera è eloquente: a parlare è un cane ferito che si rifugia vicino ad un portone nel centro di Mosca dopo la truce aggressione di un cuoco.

«Uuuuhhh! guardatemi sto morendo. La bufera nel portone mi urla il de profundis e io ululo con lei. Sono finito, finito. Un delinquente col berretto sporco, il cuoco della mensa degli impiegati del Consiglio Centrale dell'Economia Nazionale, mi ha rovesciato addosso dell'acqua bollente e mi ha bruciato il fianco sinistro. Che bestia! E sì che è un proletario! Signore santissimo, che dolore! Quella maledetta acqua bollente mi ha ustionato fino alle ossa e adesso ululo, ululo, ululo, ma serve forse a qualcosa?»

Nelle prime pagine i pensieri del cane scorrono fluenti, mostrandone un tagliente spirito critico: dal suo rifugio di fortuna, l'animale dà modo al lettore di avere un primo sguardo lucido sul contesto della vicenda attraverso il susseguirsi di giudizi implacabili sui proletari, che vengono presentati per categoria. Gli spazzini? Di certo i più infimi! I cuochi? Bisognerebbe aprire un discorso a parte! Una dattilografa di nona categoria guadagna quarantacinque rubli...come fa a comprare quelle costose calze di seta? Gliele darà sicuramente l'amante!

«Gli spazzini, fra tutti i proletari, sono i più vigliacchi; sono canaglie, feccia dell'umanità, sono la categoria più bassa. Per i cuochi, be', per i cuochi è un altro paio di maniche; prendi, per esempio, la buonanima di Vlas di via Prečìst'enka. Ha salvato la vita a un sacco di cani! [...] Vlas era un grand'uomo, un cuoco da signori: il cuoco dei conti Tolstoj! Niente a che vedere con quei dannati cuochi del Consiglio dell'Amministrazione Normale. [...] Una dattilografa di nona categoria guadagna quarantacinque rubli. Le calze di seta, d'accordo, gliele regala l'amante; ma quante umiliazioni deve ingoiare, per quel filo di seta! [...] Mia fa una pena, la ragazza! Ma io mi faccio ancora più pena. Non parlo per egoismo, questo no, ma effettivamente c'è una bella differenza tra lei e me. Lei perlomeno a casa se ne sta al caldo e io invece...dove vado io? Uuuuhhh...!»

Il malcapitato è ormai al culmine della disperazione quando, prossimo all'accettazione del proprio inequivocabile destino, gli si avvicina un distinto signore, uno di quelli che "non prende a calci ma non ha paura di nessuno, e non ha paura perché è sempre sazio". Non si tratta certo di un proletario! Qui la perfidia di Bulgakov raggiunge vette scandalose, nella misura in cui ci presenta l'accoppiata cittadino-compagno come un'accoppiata ossimorica: «Dall'altra parte della strada sbatté la porta di un negozio vivamente illuminato, e ne uscì un cittadino: "Beh, si: si tratta proprio di un cittadino, non certo di un compagno; anzi, questo qui è addirittura un signore. E non che giudichi dal cappotto -non sono così sciocco-. Oggi il cappotto ce l'hanno anche i proletari, o molti di loro.»

L'uomo offre al cane un pezzo di salame e si fa seguire sino al suo lussuoso appartamento sulla Prečìst'enka, dove l'animale malmesso viene curato e sfamato. Non c'è da stupirsi se il buon samaritano, il cui nome è Filìpp Filìppovič Preobražénskij, presto si rivelerà un professore di medicina di fama mondiale, che ha avvicinato l'animale unicamente per il bene della propria sperimentazione scientifica: l'intento è sempre stato quello di trapiantare nel cane i testicoli e l'ipofisi di un uomo morto al fine di compiere quell'esperimento straordinario che avrebbe finalmente dimostrato l'utilità e il compito dell'ipofisi. Dal momento in cui Pallino (è così che viene chiamato l'animale) viene anestetizzato per procedere con l'operazione chirurgica, la narrazione (inizialmente un flusso di pensiero del cane) cambia registro: il lettore legge direttamente dal diario del dottor Bormentàl, il fedele assistente di Filìppovič. Bormentàl annota dettagliatamente le condizioni della cavia, fino ad arrivare ad una scoperta inimmaginabile: l'ipofisi determina la natura umana! Dopo l'operazione, infatti, Pallino perde la coda e gli artigli, inizia a camminare su due zampe e, a tutti gli effetti, diventa un uomo.

«Si apre un nuovo capitolo della scienza: senza ricorrere agli alambicchi di Faust abbiamo creato l'homunculus. Il bisturi del chirurgo ha dato vita a una nuova entità umana. Prof. Preobražénskij, lei è un creatore!»

L'ipofisi, però, è anche portatrice di una serie di informazioni cerebrali che l'homunculus si ritrova a possedere: l'ex cane parla di Marx ed Engels, esige di avere dei propri documenti di riconoscimento, si esprime come un topo da osteria. La situazione tragicomica che si viene a creare diviene insopportabile, non solo per le evidenti conseguenze politiche (il medico controrivoluzionario ha creato un proletario!), ma anche per quel trascinamento animalesco che ancora Pallinov Poligràf Poligràfovič (è questo il nome che Pallino si dà in quanto cittadino registrato all'Anagrafe del Comune di Mosca) porta con sé: egli dà la caccia ai gatti e, assecondando il proprio istinto sessuale, si intrufola nella stanza della governante in piena notte e senza alcun ritegno! 
Dopo l'ennesima marachella, Preobražénskij decide, dunque, di sostituire nuovamente l'ipofisi umana con quella del cane, dando il via al processo che dall'uomo Pallinov riporterà in vita il cane Pallino. 

La critica mossa dallo scrittore è una critica su più fronti: la satira tocca, da un lato, i "nuovi ricchi" (i ricchi che sono diventati ricchi, ma che non hanno perso le proprie rozze abitudini), dall'altro lo spingersi della scienza al di là dei limiti sanciti per essa dalla natura stessa. 

«Ecco, dottore, cosa si ottiene quando il ricercatore, invece di procedere in armonia con la natura, forza le cose e solleva il velo: ora tieniti Pallinov e goditelo

Lo stile di Bulgakov è certamente figlio della più arguta tradizione russa: la traduttrice Viveka Melander rintraccia un chiaro albero genealogico-stilistico che vanta nomi quali Gogol', Saltykov-Scedrìn, Majakovskij («L'esasperazione, la tensione, la sovreccitazione narrativa, la dilatazione dello spazio in dimensione infinita, la dinamica aerea, l'attenzione per le macchine, per il jazz, per il neon [...] sono caratteristiche decisamente futuriste»). Caratteristiche frequenti in Bulgakov e nella letteratura russa in generale sono certamente "l'animazione oggettuale" («occhiali che parlano, vestiti che significano: "La bufera, vecchia strega, fece sbattere il portone e galoppando sulla scopa, ferì l'orecchio della ragazza"»), ma anche il fatto di assegnare ai personaggi denominazioni significative. Preobražénskij, ad esempio, significa "colui che trasfigura". Non solo! All'interno della struttura dell'opera, il lettore si accorgerà sicuramente della presenza di quattro differenti stili linguistici associabili ad altrettante classi sociali: c'è una lingua rude tutta fatta di imprecazioni (la lingua del sottoproletariato), poi c'è quella burocratizzata (la lingua dei compagni fedeli al partito), quella del parlato semplice (la lingua quotidiana della governante) e, infine, quella della ex classe dominante (la lingua dei borghesi). Procedendo nell'analisi di questa gerarchia linguistico-sociale, «con Preobražénskij, anzi, con Filìpp Filìppovič Preobražénskij, ché lui ci tiene a essere chiamato per nome e patronimico, siamo all'aristocrazia della lingua, alla nobiltà semiologica, alla sublimazione del parlato». 

Un libro pungente e al tempo stesso toccante, che si divora in pochi giorni. Bulgakov non sarà stato il massimo nelle scelte politiche, ma è stato sicuramente un valido scrittore. Assolutamente da avere in libreria!
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