sabato 28 marzo 2015

Lo scenografo è un autore: intervista a Lorenzo Baraldi, "lo scenografo di Monicelli"

Spesso trascurato dai critici, pressoché ignorato dal grande pubblico, lo scenografo spesso non può ambire che ad essere riconosciuto come un buon professionista. Lorenzo Baraldi come introduce il suo mestiere ai non addetti ai lavori? Sei un versatile ausiliario del lavoro del regista, come buona parte del pubblico spesso ritiene?

No, non sono un ausiliario del lavoro del regista e il regista lo sa benissimo. Noi siamo dei creativi, noi siamo autori. Ogni film che ho fatto è diverso da tutti gli altri. E - noi scenografi - siamo poliedrici. Riusciamo a fare di ogni film un film d'autore. Dunque, come ho detto e ripeto, siamo veramente degli artisti. Autori, credo che sia la parola giusta.


Eppure, generalmente la paternità dell'opera dal punto di vista artistico è attribuita al regista pressoché in esclusiva (specie quando è anche sceneggiatore), mentre a scenografi, costumisti e altri collaboratori si pensa spesso e genericamente come a dei tecnici. Se si intende così (ed erroneamente) un lavoro come il tuo, si può pensare che la tua creatività debba essere limitata, come può esserla quella di un elettricista. Ti è capitato di dover disputare con un regista i tuoi spazi autoriali?

No, non mi è mai capitato. Ne ho fatti di film, tu lo sai quanti ne ho fatti, con Monicelli e tantissimi altri, se dovessi farti l'elenco di tutti i registi con cui ho lavorato...! Registi anche di gran lignaggio, come si dice. E di questi nessuno, dico nessuno, mi ha mai detto "fai questo, fai quello": mi hanno sempre dato carta bianca. Io ho dato delle idee, che poi chiaramente si guardavano insieme perché si lavora in collaborazione, ma di solito quello che presentavo al regista piaceva talmente tanto che non aveva nulla da discutere.




Negli anni di cui ci racconti, l'industria cinematografica non lesinava sui mezzi scenografici e tu ti sei espresso attraverso lavori mastodontici, dall'arredamento di circa cento ambienti per un solo film in costume alla ricreazione dell'alluvione di Firenze in teatro alla riproduzione di intere facciate di palazzi, vicoli e navi. Ma c'è stata, in tutto questo lavoro, una trovata o una creazione piccola ma capace di dare al film a cui lavoravi un tocco in più?

In tutti i film che ho fatto c'è qualcosa di speciale, una scena. Un esempio è l'isola di Salina, nel film Il postino. L'isola di Salina è un classico. Nella mia ricerca, dopo 3-4 settimane, quasi un mese di ricerche e sopralluoghi ho incontrato nell'isola di Salina ciò che mi interessava, mi piaceva. È molto particolare... l'aria, il sole, il tramonto o l'alba. Vedi, ad un certo momento lo scenografo è come il pittore: deve trovare gli elementi giusti per dipingere. Mentre cammina per strada può trovare un angolo giusto, perfetto, un po' come trovare l'isola di Salina in mezzo al mare, bellissima, con dei colori splendidi. E può capitare entrando in ogni ambiente, qualsiasi ambiente: una fabbrica, un esterno, una periferia, una qualsiasi cosa che ti impressioni, che ti dia qualcosa. Lo senti, è una cosa elettrica in effetti, e quando la incontri la fissi: se hai una macchina fotografica puoi farlo subito, altrimenti la tieni in mente e il giorno dopo, due, tre giorni dopo vai a fotografarla.


Se anche lo scenografo lavora di ispirazione, ad esempio nel rimanere colpito da un ambiente incontrato per caso, può capitare che questa ispirazione preceda la realizzazione di un film? Come in effetti accade per il regista/sceneggiatore?

Sì, può capitare. Quello che mi diceva Monicelli è: "Vai a vedere, fai chilometri, guarda, fai fotografie".
Anche quando si facevano i sopralluoghi con Mario Monicelli, vedevamo tantissime cose. Alla mia domanda: "Mario, cosa facciamo? Abbiamo visto tante cose, tante cose che in questo film non servono, alla fine. Ti interessa qualcosa?"
"No, ma nel prossimo film o nell'altro ancora ti faranno comodo. Dunque prendi tutto quello che bisogna prendere. Senz'altro lì non gireremo, perché sceglieremo le cose giuste per noi, per questo film, però questa roba è un bagaglio che tu terrai da conto."


Molti dei film a cui hai lavorato sono diventati cult: Amici miei - Atto I e Atto II, Un borghese piccolo piccolo, Romanzo Popolare sono solo alcuni esempi. La qualità complessiva del tuo lavoro è stata riconosciuta con diversi premi tra i quali spicca il David di Donatello per il miglior scenografo del 1982 per Il Marchese del Grillo. Ma ci sono dei film che a parer tuo, per la loro riuscita complessiva, meritavano un'accoglienza più calorosa di quella che hanno ricevuto?

Il pubblico è un personaggio stranissimo, perché ancora oggi nel 2015 non riesce a capire cosa faccia lo scenografo nel film, puoi immaginare. Anche il critico è un personaggio molto strano, neanche lui sa cosa facciamo noi come scenografi, non parla mai di noi né dei costumisti. Devo dirti, ci sono dei film che io ho amato, come Temporale Rosy (che ha amato anche Monicelli) che in effetti non sono riusciti. Molte volte i film non riescono, ma non perché lo spettatore o il critico dicano che è brutto. Non sono riusciti, non c'è niente da fare, ce ne accorgiamo anche noi stessi quando li andiamo a vedere montati, dopo il primo montaggio o quello finale. Però per noi sono bellissimi. È una cosa stranissima questa, però per noi son sempre belli, anche quelli "brutti", ci troviamo sempre qualcosa di interessante.



Lei ha avuto la fortuna di conoscere Monicelli. Il vostro sodalizio è durato molti anni...

Su 38 anni, per 20 abbiamo convissuto. Era come un amante, insomma.


Quindi ha potuto conoscerlo molto bene sia sul piano professionale che su quello umano. Vuole offrirci un bozzetto del personaggio Monicelli?

Monicelli era una persona onestissima, una persona che quando diceva una cosa era quella, non cambiava mai. Quando lo incontravamo per leggere il copione, tutti insieme, diceva quello che voleva e non cambiava mai, ripeto. Era molto facile lavorare con Mario Monicelli.
Come persona? Abbiamo fatto tantissimi chilometri di sopralluoghi, soli molte volte, e lui si metteva in macchina, io guidavo. Aveva il suo giornale, lui leggeva, si appisolava qualche volta. Parlavamo pochissimo io e lui. In certi momenti si parlava, in certi momenti si leggeva, in certi momenti ci si fermava, in certi momenti andavamo alla trattoria... La trattoria era una cosa classica, all'una lui doveva mangiare, mangiavamo insieme, eravamo perfettamente d'accordo e parlavamo molto poco, ma lavoravamo molto. Nel rapporto proprio umano, per me è stato tutto, mi ha insegnato che cos'è il cinema, i film, le problematiche... Ero molto vicino a lui e lui mi voleva sempre vicino, nel montaggio, anche nella sceneggiatura per esempio, a volte mi ha chiamato quando lavorava con gli sceneggiatori. Ero lì al loro tavolo mentre  lavoravano parlando del film, scrivevano eccetera, mi voleva perché dovevo captare certe cose importanti. E in pratica dall'inizio della sceneggiatura, poi mi voleva con sé per tutta la preparazione, poi tutto il girato, poi addirittura il montaggio, il missaggio eccetera, fino alla prima copia. Voleva anche tutti gli altri ma io ero il primo che chiamava quando faceva vedere il primo montaggio al produttore. Mi chiamava anche per la musica, allora si faceva la vera musica, con gli orchestrali, il maestro Rota, Morricone, i grandi. Lavoravamo con gli orchestrali, non con le cassette come adesso.
In pratica mi ha accompagnato in questi anni, mi ha fatto capire cos'è il cinema dalla A alla Z. Questo ricordo, di questo rapporto che ho avuto con Monicelli, è eccezionale.

giovedì 12 marzo 2015

"Le 120 giornate di Sodoma" del Marchese de Sade

Questo maestoso ma incompiuto libro di De Sade, la sua ambiziosa enciclopedia delle passioni umane, porta un sottotitolo simpatico: La scuola del libertinaggio. Non molto spaventoso, a dire il vero: ci si potrebbe candidamente aspettare una lettura sfacciata farcita di aneddoti piccanti. Del resto, il nome del Divin marchese è una garanzia.
Eppure, la dimensione erotica di questo libro è piuttosto limitata: incredibile per l'epoca e ancora oggi fonte di scandalo, certo, ma annegata dagli altri contenuti, circoscritta a "perversioni" più o meno innocue e più o meno indecenti, non è l'unica (forse neppure la principale) fonte di soddisfazione per i protagonisti delle 120 giornate. Le pagine dedicate alle dramatis personae si incentrano sulle qualità erotiche (dimensioni degli attributi maschili, rotondità femminili, situazione igienica e olfattiva, condizioni della pelle, dei seni, degli orifizi, stato di verginità o meno, capacità erettile) solo nei personaggi non protagonisti, veri e propri oggetti sessuali: le intercambiabili mogli, i gaudenti o fottitori (secondo la traduzione), le giovinette e i giovinetti descritti come putti virginei la cui violenta deflorazione riserverà particolari piaceri. Anche sul Duca, sul Vescovo, sul Presidente Curval e su Durcet il lettore riceve informazioni riservate: caratteristiche fisiche, preferenze sessuali, vizi e vizietti. Eppure del Duca, innanzitutto, leggiamo:

«Di natura infido, insensibile, autoritario, rude egoista, tanto prodigo nel perseguire il piacere, altrettanto avaro quando vi fosse un motivo per spendere utilmente, bugiardo goloso, ubriacone, vigliacco, sodomita, appassionato dell'incesto, dedito all'assassinio, al furto, piromane, no, non una sola virtù compensava tale schiera di vizi. Anzi, cosa sto dicendo! non solo non aveva mai nemmeno sognato una sola virtù, ma le guardava tutte con orrore, e spesso lo si sentiva dire che per essere veramente felice in questo mondo, un uomo non dovrebbe semplicemente gettarsi in ogni vizio, ma mai dovrebbe consentirsi un atto virtuoso, non si trattava di fare sempre il male, ma anche, e soprattutto, di non fare mai il bene.»


Ritengo dimostrato che la perversità intrinseca dei quattro protagonisti solo di sghimbescio, come di conseguenza, investe l'area sessuale: non si tratta propriamente di libertini, di gente frivola e godereccia, ma di autentici criminali. Di fronte alla mole dei loro reati, che spaziano tra frodi e violenze di ogni tipo, le turpitudini sessuali appaiono ben poca cosa, soprattutto quelle praticate con partner consenzienti. Turpitudini sessuali da definirsi: le "devianze" sessuali dei quattro, difatti, non si limitano alla sodomia attiva o passiva, che pure resta l'attività maggiormente praticata nell'isolato castello di Durcet, location delle 120 giornate; si legge di stupri pressoché quotidiani, spesso di gruppo, anche ai danni di personaggi poco più che dodicenni; molti rapporti si consumano nella sporcizia o con l'esercizio della forza o della minaccia. La lettura può disturbare, ma è davvero nulla rispetto alle mutilazioni e uccisioni di cui si leggerà continuando a scorrere il calendario (incompiuto) delle giornate.
Abbiamo dunque una sorta di doppio binario: da un lato quelle che definirei perversioni "radicali", dall'altro, quelle identificate come tali dalla loro storicità, dai costumi, dall'ipocrisia sociale. Una coppia di esempi può essere la seguente: perverso è 
il Duca quando «vuole che il suo domestico deflori [una] fanciulla al massimo dodicenne, davanti ai suoi occhi» e quando «costringe un fratello ad avere rapporti con la propria sorella in sua presenza, poi possiede a sua volta la ragazza» (abusi piuttosto patenti); ma perverso è anche il Vescovo a violare il voto di castità (la sua "perversione" non sarebbe tale se il consesso civile del tuo tempo e della sua religione non fosse d'accordo su questo). È evidente la doppia provocazione di De Sade: da un lato, schiaffo al perbenismo sociale che etichetta come devianza o perversione qualunque forma di piacere che non sia il rapporto eterosessuale interno al vincolo matrimoniale; dall'altro, messa in discussione radicale della presunta bontà naturale dell'uomo (che pressoché negli stessi anni sosteneva Rousseau), della legittimità/necessità dell'esercizio di una qualche presunta moralità, del legame tra quest'ultima e la teologia o religiosità. De Sade mostra la fallibilità e l'ipocrisia delle istituzioni umane, soprattutto di quelle che si pretendono fondate divinamente: di una sua figlia naturale concepita con la moglie del fratello, leggiamo che «il Vescovo l'aveva lasciata nella più profonda ignoranza; a stento sapeva leggere o scrivere, e non aveva assolutamente idea dell'esistenza della religione». Parallelamente, De Sade prescinde dalle costruzioni umane e contesta alla radice la possibilità che virtù, morale e giustizia possano avere un fondamento naturale, negando contemporaneamente che possano averne uno divino. Il Duca fa apologia dei propri vizi, attribuendo alla Natura l'insorgere di determinati impulsi violenti in lui. Se neppure Dio può pronunciarsi in materia di moralità dall'alto della sua inesistenza, allora l'unico ostacolo all'esercizio dell'umana crudeltà deve essere di natura positiva, di fattura umana, storicamente determinato:

«"Così nulla, tranne la legge, si mette sulla mia strada, ma io sfido la legge, il mio oro e il mio prestigio mi tengono ben al di là della portata di quei volgari strumenti di repressione che potrebbero essere impiegati solo contro la gente comune."
Se uno avesse sollevato l'obiezione che, tuttavia, tutti gli uomini posseggono l'idea del giusto e dell'ingiusto, il che può essere solo prodotto della Natura, dal momento che queste nozioni si trovano in ogni popolo ed anche tra gli incivili, il Duca replicava affermativamente, dicendo che sì, quelle idee sono sempre state soltanto relative, che il più forte ha sempre considerato oltremondo giusto ciò che il più debole ha considerato come palesemente ingiusto, e che non occorre null'altro che un mero rovesciamento delle loro posizioni, perché ciascuno sia capace di cambiare anche il proprio modo di pensare.»

La tematica sociale impregna il discorso desadiano ed esplode in passi come questo: se il limite alla crudeltà umana è determinato dalle forme del potere (ricchezza, legge, forza, capacità di corrompere, minacciare, comprare favori), allora diventa prerogativa del potente. Non è un caso che i quattro protagonisti delle giornate siano papaveri alti della nobiltà e del clero: le loro voglie sofisticate e abbondanti possono essere saziate solo con un grande dispendio di denaro, ma soprattutto occorre un grande potere per poter uscire impuniti dai peggiori delitti con cui essi stessi accompagnano festini e innocue baldorie. Già nelle prime pagine si legge di come i quattro, al di fuori dell'universo rigidamente regolamentato delle 120 giornate, si dilettino nell'esercitare ogni forma di violenza su esponenti delle classi meno abbienti, che nulla possono per difendersi dall'arroganza dei potenti. Abbiamo umili lavoratori 
incriminati per nulla e condannati a morte per colpe mai commesse (il Presidente, prima di ritirarsi a vita privata, era un magistrato), abbiamo donne povere minacciate e ricattate, costrette a cedere le proprie figlie per poi essere avvelenate e vedersi (con un ideale sguardo dall'aldilà) protagoniste di casi insabbiati e mai vendicati. Non è un caso neppure che i sedici fanciulli maschi e femmine rapiti dalle loro case per allietare l'universo antirealistico delle 120 giornate (un microcosmo isolato, regolato da leggi proprie) siano rampolli della classe alta, giovani esponenti della nobiltà, piccoli ereditieri: poter stuprare e massacrare un proprio giovane pari, il figlio prediletto di un uomo potente e ricchissimo, è un piacere raro per allestire il quale occorrono mesi di preparativi, dispendio di denaro, sguinzagliamento di
agenti e sicari; invece, esercitare la stessa violenza su un figlio di contadino è piacere d'ogni giorno e come tale può consumarsi a Parigi o in qualunque luogo, senza allestimenti e regolamenti, seguendo la voglia di un secondo.
La portata politica e sociale di De Sade dà forma e colore a tutto il resto. È allora tutt'altro che marginale l'ambientazione della storia, che pure ruba poche righe all'inizio del racconto: le 120 giornate si svolgono alla fine del regno di Luigi XIV, che con le sue numerose guerre aveva affamato i ceti produttivi e arricchito gli squallidi speculatori cui il sangue dei propri compatrioti non faceva alcuna impressione, se non quella di un succulento investimento. Ambientazione precisa dunque, e allo stesso tempo storia vecchia e nuova, destinata a ripetersi ancora e ancora, finché l'uomo sarà una bestia. È tutta una poesia, allora, che Pasolini abbia ambientato la stessa storia nella neonata Repubblica di Salò, nel suo film agghiacciante e meraviglioso, e che abbia fatto dei quattro protagonisti dei potenti fascisti arricchiti dalla guerra, di uno dei giovani ammazzati un ribelle coraggioso che aspetta i proiettili con il pugno chiuso: licenza artistica, ma non troppo.


martedì 10 marzo 2015

Arance e Martello, Diego Bianchi

Primo film di Diego Bianchi, detto “Zoro”, noto per la sua attività televisiva (in questo periodo conduce il programma televisivo Gazebo, in onda  la domenica ed il lunedì in seconda serata su Rai3), realizzato lo scorso anno, Arance e martello costituisce un microcosmo della situazione politica italiana. Se volessimo fare una fotografia di quello che la sinistra è diventata in Italia, del rapporto tra “Popolo” e “Partito”, delle dinamiche del Partito Democratico, delle sue divisioni interne, sicuramente questo film sarebbe una fotografia nitida dello stato di cose attuale.
Il film è ambientato nel quartiere San Giovanni di Roma, in una calda giornata d’agosto. Cuore pulsante del quartiere è il mercato rionale, in cui il giornalista Diego Bianchi si reca per girare un documentario. Al mercato vi si reca anche una coppia di coniugi, Trieste e Armando, che un tempo furono militanti del Partito Comunista, e che oggi sono militanti del PD. Con figli e altri giovani militanti del partito al seguito, armati di tavolino, seggiole pieghevoli e volantini, sperano di raccogliere firme tra commercianti e passanti per porre fine una volta per tutte all'impero di Silvio Berlusconi. Non riscuoteranno molto successo. La vita del quartiere scorre tranquilla, fatta di liti tra i commercianti, di personaggi divertenti e folkloristici come il fruttivendolo specializzato in carciofi e devoto a Padre Pio, momenti di “concorrenza sleale” tra due fruttivendoli, l’uno pachistano, l’altro indiano, il primo romanista, il secondo laziale, le cui liti sono caratterizzate da una strana commistione di questioni calcistiche, persuasione dei clienti a comprare i propri prodotti piuttosto che quelli del concorrente e riflessioni sull'imperialismo inglese in India. Degne di nota le pescivendole che utilizzano come attrattiva per i clienti tabù di matrice freudiana: consapevoli che ogni cosa a questo mondo rimanda al fallo, maneggiano il pesce in modo da suscitare le più profonde fantasie erotiche degli acquirenti; per questo, i loro concorrenti dirimpettai le definiscono “mignotte”. Ad interrompere la routine, un messaggio comunicato dalla radio locale, Radio Carbonara Sushi, perché elegante e delicata, ma anche “de panza e de sostanza”: l’amministrazione locale annuncia la chiusura del mercato rionale il prossimo 15 settembre per la costruzione di un parcheggio sotterraneo. A questo punto si entra nel vivo del film: i mercanti si rivolgono a quei militanti che avevano poco prima ignorato e disprezzato, i membri della sezione decidono di mettere ai voti la linea che il partito intende seguire, i risultati delle votazioni sono incerti e oggetto di molteplici interpretazioni. Di fronte all'indecisione del partito, i mercanti decidono di occupare la sezione e di tenere con sé alcuni militanti come ostaggi; questi finiscono con il solidarizzare con la causa dei commercianti, arriva la polizia, i giornalisti, il sindaco (siamo nell' “epoca” della giunta Alemanno), arrivano i fascisti che discutono sull'ipotesi di bruciare la sede del PD, in modo da sabotare la protesta. Il tutto si conclude con l’incendio della sede, causato però da un incidente: irrompe la polizia, cominciano gli scontri, e alla fine un commerciante viene ferito. Gli ostaggi e gli scioperanti vengono arrestati,  la videocamera di Bianchi, con cui aveva filmato il documentario che lo avrebbe condotto al successo, si rompe,  e addio sogni di gloria.
Questo film è densissimo di elementi che fanno pensare, le parole sono semplici e ben ponderate, ogni scena emblematica, il significato delle cose è concreto e tangibile. Per questo sceglierò soltanto alcuni aspetti su cui soffermarmi, quelli che a mio avviso sono i più interessanti.
Potremmo cominciare delineando lo schema del film: qui Bianchi ci descrive due mondi, quello del mercato e quello del partito. I due momenti principali in cui emergere la riflessione del partito su se stesso sono quello in cui i due coniugi discutono in casa, e quello in cui viene convocata un’assemblea nella sezione per decidere del destino del mercato rionale: nella prima scena, Armando contesta a sua moglie l’utilità, la necessità di raccogliere firme per cacciare Berlusconi. Se non lo hanno fermato i processi, i continui scandali, perché dovrebbe fermarsi di fronte ad una petizione? Trieste risponde che così ha deciso il partito. Ma veramente credi che il PD sia il partito? “Fino a prova contraria, almeno qui in casa siamo comunisti”, dice suo marito. Si mette in discussione innanzitutto l’iniziativa, a dir poco ridicola, del partito, e soprattutto, si mette in discussione la filiazione diretta PCI-PD, filiazione che ha subito mutazioni genetiche abbastanza considerevoli. Nella seconda scena, quella dell’assemblea, sono diversi i punti interessanti: innanzitutto, la modalità di voto. Chi vota? Solo i militanti o tutti i presenti? Si decide che tutti i presenti, iscritti e non, possano parlare e votare. Bisogna però rispettare i “tempi europei”: ognuno può parlare solo per cinque minuti, come a Strasburgo. Un vecchio militante chiede come sia possibile render conto della complessità di una situazione in cinque minuti. Ma bisogna decidere, e decidere in fretta. Il risultato delle elezioni è emblematico: la maggioranza relativa sostiene la causa dei commercianti, ma tra schede nulle e indecisi, il risultato non può essere considerato netto e preciso. Alla fine, la compagna Trieste si recherà dai commercianti a dire che il partito “ha deciso di non decidere”. Due mondi completamente distanti, che non si comprendono: i commercianti disprezzano i militanti, e i militanti disprezzano questi zoticoni che per vent'anni hanno votato Berlusconi e leccato il culo ai padroni, guardando i comunisti come dei mostri.
Nel mercato emerge soprattutto la questione dell’integrazione: il salumiere si rifiuta di vendere ad un mercante ambulante pachistano una bibita, partono gli insulti e la lite. Gli esercenti non hanno nessun amore per la politica: vogliono che i militanti del PD che occupano spazio con questa cazzata delle firme, se ne vadano per non ostacolare il loro commercio. Ma quando si annuncia l’imminente chiusura del mercato, uno dei commercianti chiederà ad un’arancia: “Ma dov'è la politica?”, e allora tutti all'assalto della sede del PD, a chiedere ai militanti di aiutarli, se davvero vogliono “radicarsi sul territorio”.
Sembra che politica e “popolo” finché tutto va bene, finché si tira a campare, non abbiano bisogno l’uno dell’altro, si tollerano a malapena, si disprezzano. I militanti sembrano fare politica per una strana forma di egocentrismo, non hanno nessun amore per quella gente in nome della quale dicono di combattere. Sembrano dei pastori, dei predicatori che parlano da un pulpito. E dall'altro, la gente pensa che la politica sia qualcosa che sta nelle sedi dei partiti, o nei palazzi della “casta” e che non li riguardi. Non vogliono la politica, vogliono lavorare e guadagnare. Loro sono gente concreta, che non può perdere tempo in chiacchiere. Ma quando qualcosa va male, è alla politica che si rivolgono, perché capiscono che nient’altro può aiutarli: quando c’è un male che colpisce tutti, un dolore e una paura, solo nella sfera politica si può dare forma ed espressione alle proprie paure, trasformarle in azione. Soltanto nel partito, luogo fisico ed ideale, si può cercare di rivendicare i propri diritti. Se i membri del partito non sanno decidere, o non vogliono, chi ne ha bisogno deve prendersi il partito, deve impossessarsi di quei pochi strumenti che una democrazia offre per dar voce alle proprie esigenze. 
Una figura emblematica è quella del sindaco: un fascista ripulito, opportunista ed ipocrita. Quando giunge davanti alla sede occupata del PD, lo ferma uno dei ragazzini fascisti e gli dice “Io sono come te!”, mostrandogli la croce celtica. Lui rifugge il suo sguardo, imbarazzato. Ma, nel momento in cui i fascistelli armati di benzina e accendini, con il volto coperto, tentano di far saltare in aria la sede del partito, mentre i poliziotti cercano di fermarli, il sindaco li lascia passare, sostenendo che li conosce e che sono bravi ragazzi. Un riferimento per nulla velato alla strategia del terrore…
Importante è anche il ruolo dell’informazione. Ad un certo punto arriva un giornalista Rai ad occuparsi della faccenda. È un povero emarginato, il quale, per aver cercato in precedenza di descrivere con spirito lucido e critico quello che vedeva, era ormai considerato come un appestato nel suo ambiente lavorativo. Se vuole lavorare deve adeguarsi alla linea: allora, nel descrivere l’evento, comincia a porre l’accento sulla presenza di immigrati clandestini, sull'allarme terrorismo, sulla sicurezza dei cittadini. La manipolazione dell’informazione per motivi ideologici, la questione del potere nella comunicazione, è un tema che meriterebbe un approfondimento che per ragioni di spazio e tempo non posso fare.
Altro momento fondamentale del film è lo scontro finale tra gli occupanti e la polizia: la poliziotta all'inizio cerca di avere un atteggiamento moderato, cerca il dialogo con i manifestanti. Tira in ballo Pasolini, il solito Pasolini, “che avrebbe potuto tacere invece di dire cazzate! S’è pure inventato il mestiere dell’opinionista!” Esauriti gli argomenti, la polizia comincia a menare, e l’avventura dei nostri eroi (“Ma vorranno davvero essere eroi?” si chiede lo speaker di Radio Carbonara Sushi) si conclude con un duro atto di repressione.
Come potete ben vedere, i temi sono tanti e tutti molto complessi: Bianchi decide di fare una carrellata generale di quegli aspetti che caratterizzano la politica italiana, l’informazione, il rapporto tra giovani e politica, il rapporto tra "popolo" e politica. Non manca la riflessione storica, che nasce dal commento delle fotografie affisse al muro della sede del PD: da Gramsci a Togliatti, da Che Guevara a D'Alema e Bersani, da Berlinguer a Francesco Totti! Con un linguaggio semplice e ironico, con frasi schiette in dialetto romanesco, con poche battute, questo film riesce a dire molto. Questo è, secondo me, il merito fondamentale di Bianchi. Il regista ha saputo realizzare un film che può essere definito popolare nel senso positivo del termine: è un film indirizzato non ad un' elité di intellettuali e radical chic, eppure non è un film stupido e superficiale. Non è facile coniugare le due cose, perché a volte per film “popolare” si intende un film spazzatura, che ha come unico obiettivo quello di fare cassa, di ottundere le menti di chi va al cinema a “distrarsi”, quando la nostra esigenza primaria sarebbe quella di concentrarci sulle cose, di riflettere, dato che un intero apparato si muove per farci distrarre continuamente.
Ma voglio concludere con una nota polemica: non mi è piaciuta la presenza di un personaggio decisamente ingombrante e superfluo nell'economia del film, il culo femminile. Non mi è piaciuta l’inquadratura di un bellissimo fondoschiena che cammina per le vie del mercato e che poi scopriamo appartenere ad una bellissima ragazza, e perfino colta, una ricercatrice.  Che le femmine non piacciano solo a Berlusconi, ma anche ai virili compagni del Partito Democratico è una cosa che non c’era bisogno di sottolineare, perché lo sappiamo, e perché, in fondo,  non ce ne può “fregà de meno”.
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