giovedì 8 gennaio 2015

"La nuvola di smog", Italo Calvino

«Nel cortile gli sguatteri rotolavano i fusti della birra. La signorina Margariti dal buio delle sue stanze attaccò un chiacchierio interrotto da brevi scoppi di risa, come se avesse visite. Il coinquilino scoppiò in un'imprecazione meridionale. Io ero a piedi nudi sulle piastrelle del corridoio e dall'altro lato del filo la voce appassionata di Claudia mi tendeva le mani e io cercavo di correrle incontro con la mia balbuzie ma ogni volta che stavamo per gettare un ponte tra noi dopo un momento andava in briciole e l'urto delle cose stritolava e smentiva a una a una tutte le parole d'amore.»

La nuvola di smog è l'immagine di un sudiciume che dai pori della pelle si insinua fino a incrostare il sentimento, intaccare il pensiero: la sporcizia che rende il luogo inospitale si fa nevrosi, bisogno isterico di lavare continuamente le mani, fissazione che la polvere possa depositarsi su qualunque cosa. È così che quando Claudia, la donna amata, stende sul letto il suo corpo bianco e nudo, il protagonista le sfiora il seno con la mano, non per accarezzarla, ma solo per togliere la polvere depositata in quei pochi istanti di nudità.

Lo straniero che viene a vivere in città entra traslocando in una nuvola di smog, che si struscia sul paesaggio, lo impregna del suo grigiore, della sua polvere capace di insinuarsi in ogni orifizio, di velare ogni superficie. Chi vive nella nuvola di smog non la vede ma ne vive la pesantezza, il grigiore, l'essere stantio e sporco. Lo straniero inizia a lavorare per l'EPAUCI, istituzione che si propone di risolvere il problema dello smog e che gli commissiona articoli ottimisti ma non ingenui, accusatori ma non disperati. Il problema dell'inquinamento: lo risolveremo, lo risolveremo? Lo risolviamo? Lo risolviamo. Lo risolveremo? Lo stiamo risolvendo. Mille formule cancellate e riscritte per concludere un articolo scritto per forza, per lavoro, senza amore, come senza amore viene vissuta la nuova città. I rumori dell'osteria Urbano Rattazzi sotto casa, la presenza fantasmatica della sorda signora Margariti, la camera squallida dove la biancheria di organza e seta di Claudia stona tanto da dover essere nascosta nei cassetti appena sfilata da dosso: molecole di smog che strisciano tra la terra e la cappa irrespirabile, che chiudono il protagonista in un mondo sporco e triste, estraneo eppure, per un caso della vita, momentaneamente suo.
Da fuori, dalla collina, volgendo lo sguardo alla città si vede la nuvola di smog: la si vede che incombe sulle costruzioni, tra le altre nuvole ma diversa, inconfondibile. Claudia non la riconosce, col suo sguardo di transito. Lei può entrare nella nuvola, nella città, e riuscirne l'indomani linda e inconsapevole. Ma chi abita nella nuvola, chi ogni giorno vive la città polverosa, non ne può fuggire: non può lavare la polvere via dalle mani e dai colletti, dal dorso dei libri, dal piano opaco della scrivania in redazione. Chi vive nella nuvola vive di quella, la combatte ma ne è avvinta intimamente, solo di essa gli importa.
La nuvola di smog è il male di vivere che tormenta, consapevolmente o inconsapevolmente, e si nasconde in ogni piega del nostro vissuto. Strisciante, mellifluo, in un modo malinconico perfino piacevole: la tristezza di un Paese familiare ed estraneo, di un'epoca strangolante e smisurata, di un progresso che si rivela come stasi nell'inautenticità quando non regresso. Lo smarrimento attonito dell'uomo moderno, quello che percorre come una filigrana le opere di Calvino, dalla trilogia I nostri antenati a La giornata di uno scrutatore. È il racconto sottile e cristallino di una vita polverosa, come quella dei nostri antenati, come la nostra.

«In questi giri mi resi conto dell'esistenza d'un seguito di stanze di soggiorno, salotti, tinelli, tutti ingombri d'un mobilio vecchiotto e pretenzioso, con abat-jours e soprammobili e quadretti e statuine e calendari, ed erano stanze tutte in ordine, puliste, lustre di cera, con candidi pizzi sulle poltrone, senza neanche un granello di polvere. [...]
Io tornavo nella mia camera, e a vedere la mensola del lavabo o il paralume con un dito di polvere mi prendeva una gran rabbia: quella donna passava la giornata a tener lucide come specchi le sue stanze e da me non era buona a dare neanche un colpo di straccio. Andavo di là, deciso a fare una scenata, a gesti e a smorfie; e la trovavo in cucina, e questa cucina era tenuta peggio ancora di camera mia: con l'incerato del tavolo logoro e macchiato, tazze sporche sul piano della credenza, le mattonelle sconnesse e annerite. Io restavo senza parola, perché capivo che la cucina era il solo luogo di tutta la casa in cui quella donna veramente vivesse, e il resto, le stanze adorne e continuamente spazzolate e incerate erano una specie di opera d'arte, in cui lei riversava tutti i suoi sogni di bellezza, e per coltivare la perfezione di quelle stanze si condannava a non viverci, a non entrarci mai come padrona ma solo come donna di fatica, e il resto della giornata a passarlo nell'unto e nella polvere.»

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