martedì 23 giugno 2020

Reggio: la rabbia esplode. Un ricordo dal Canzoniere delle Lame - Janna Carioli


Janna Carioli, mitica componente del Canzoniere delle Lame, ci racconta di quando compose la canzone "Reggio: la rabbia esplode", in occasione dei moti scoppiati a Reggio Calabria, cinquant'anni fa, per la definizione del nuovo capoluogo di Regione.
Erano tempi in cui una solidarietà, oggi dimenticata, univa i compagni e le compagne, da un capo all'altro dell'Italia, per combattere insieme una lotta comune. E per combattere, ci si serviva anche della musica.



In questi giorni, su molti giornali, si ricordano i pesantissimi scontri avvenuti 50 anni fa per la definizione del capoluogo dell’allora neonata Regione Calabria. Il contendere era fra Catanzaro e Reggio. Ovviamente non era questione di campanile ma di soldi.
Tanti soldi.
La destra e dietro di lei la ‘ndrangheta si mobilitarono attivamente per ottenere che il capoluogo fosse a Reggio e non nella designata Catanzaro.A me capitò di partecipare a quella avventura.
All’epoca facevo parte del Canzoniere delle Lame, un gruppo che cantava canzoni di protesta.
In genere facevamo concerti nella nostra regione o poco più lontano, ma un giorno ci arrivò un S.O.S da Reggio Calabria.
Ci telefonò un funzionario della federazione del PCI di Bologna che era stato mandato in Calabria per “dare una mano” ai compagni calabresi.
“Dovete venire qua subito a fare concerti. I fascisti sono pieni di soldi e fanno dischi, manifesti, materiali di propaganda. Noi non abbiamo nulla, serve un aiuto”.
Prendemmo le ferie e ci sciroppammo 1500 chilometri per andare in Calabria.
Rimanemmo una settimana durante la quale cantavamo in media quattro volte al giorno.
La situazione era pesantissima. Il primo concerto lo facemmo a Reggio, nel quartiere di Sbarre, mentre a una ventina di metri dal palco un gruppo di ragazzini di 8 anni rovesciava macchine. In un paese qualcuno mise una bomba davanti alla porta del sindaco (democristiano) perché aveva dato il permesso di fare il nostro concerto.
Ovunque ci chiedevano di scrivere una canzone che parlasse di loro, di quello che succedeva, delle lotte che stavano facendo. Ma con tutta la buona volontà a me quella canzone proprio non veniva. Alla fine della settimana avevamo le tonsille in fiamme. Avevamo fatto 20 concerti in 5 giorni. Le ferie erano finite e dovevamo assolutamente rientrare.I lunghissimi 1500 chilometri del ritorno li feci guidando il pullmino, con un foglietto sulle ginocchia. A mano a mano che i brandelli di quella esperienza tornavano a galla nella mente, scrissi la famosa canzone che non mi era venuta durante tutta la settimana.
All’ultimo autogrill prima di Bologna la canzone era fatta.
Ci procurammo dei gettoni (allora i telefoni pubblici funzionavano così) e chiamammo Reggio Calabria.
“La canzone è uscita… ma magari non vi serve più!”.
“Ci serve e come! Mandateci subito 1000 dischi”.
Il giorno seguente eravamo in uno studio a registrare e una settimana dopo mille 45 giri partivano per Reggio.
Come andò a finire lo leggemmo sui giornali: Reggio Calabria diventò capoluogo della Regione.
Della sorte dei dischi non avemmo più notizie. Poi, un anno dopo, in treno, sentimmo che nello scompartimento a fianco cantavano la canzone che avevo composto.
Rimanemmo esterrefatti e andammo a chiedere col tono più indifferente possibile, che canzone fosse mai quella.
“Una canzone delle parti nostre”, ci fu risposto.
Non dissi che l’avevo scritta io.
Per un cantante popolare come mi ritenevo a quell’epoca, il fatto che quella canzone fosse stata adottata e riconosciuta come “delle parti loro” era una medaglia sul petto.




Reggio, la rabbia esplode la miccia brucia già
Ma chi l'ha accesa sono gli stessi che vendon fame qua. 
Il capoluogo serve alla D.C. e ai mafiosi 
Per ottenere ancora più potere di quello che hanno già. 
Il sindaco Battaglia serve da copertura 
Dietro ha gli agrari, i proprietari tutta la mafia nera. 
Non costa far promesse alla povera gente 
Che cosa importa se alla fine si fa scannar per niente. 

Reggio la rabbia esplode

La miccia brucia già 
Ma chi l'ha accesa 
Sono gli stessi 
Che vendon fame qua. 
Le barricate a Sbarre la gente spara già
Spara miseria, spara la fame ma non sa contro chi. 
Fascisti con le bombe mafiosi col potere 
I proletari solo le braccia hanno da far valere. 
Fascisti quelle bombe vi scoppieranno in mano 
I comunisti alla violenza hanno risposto no. 

Reggio, la rabbia esplode

La gente adesso sa 
Contro chi deve usare la rabbia 
Fascismo non passerà

giovedì 23 aprile 2020

Xenofemminismo, di Helen Hester


Lo Xenofemminismo, o XF, può essere visto in un certo senso come un lavoro di bricolage, dato che sintetizza cyberfemminismo, postumanesimo, accelerazionismo, neorazionalismo, femminismo materialista e altro ancora, nel tentativo di dar forma ad un progetto adeguato alle condizioni politiche dell’epoca contemporanea.

Quando ho cominciato a leggere queste prime righe dell’Introduzione, ho pensato che questo saggio di Hester pubblicato nel 2018 negli Stati Uniti e tradotto in italiano nello stesso anno, fosse uno di quegli esercizi di eclettismo sterile che spesso ho incontrato nel mio non molto lungo percorso di lettrice di testi femministi. 

In buona parte mi sono dovuta ricredere.  La mia maggiore perplessità riguardo al femminismo contemporaneo e agli studi di genere è la loro parzialità, l’astratto formalismo, l’esercizio elementare di catalogazione dei gusti sessuali e dei cambiamenti di genere che dà origine ad una serie di categorie alienate rispetto al contesto storico, economico e sociale, nei confronti del quale spesso si tiene un atteggiamento di spocchiosa indifferenza, quasi a voler dire “Ma ancora dobbiamo occuparci di questioni sociali? Il tempo delle lotte di classe è finito!” L’eclettismo, l’individualismo e l’aperta o inconscia adesione all’ideologia di destra, l’antimarxismo latente o palese che caratterizza spesso questi scritti, mi ha resa diffidente e dubbiosa nei confronti di questo indirizzo di ricerca filosofica, ormai ben collaudato e con la sua strutturata egemonia.

Non è il caso del manifesto di Hester, la quale, aldilà di alcune eccentricità linguistiche e contenutistiche tipiche di certa letteratura statunitense, elabora alcuni concetti che permettono ai movimenti e alla teoria femministi di ampliare la loro prospettiva, inserendo la questione dell’identità del genere nel contesto in cui si dà. Proprio perché l’identità non è una definizione teorica, ma una prassi politica, è all’ambiente sociale, all’organizzazione politica, al tempo storico che bisogna guardare.

I concetti fondamentali che consentono ad Hester di ampliare la sua prospettiva di genere sono il tecnomaterialismo, l’antinaturalismo e l’abolizionismo del genere.

A voler essere pignoli, il termine “tecnomaterialismo” è frutto di una non necessaria fusione tra il materialismo (storico-dialettico) e una certa filosofia borghese che fa della tecnica un problema in sé, penso ad esempio ad Heidegger. Per il materialismo la tecnica è un problema che c’è sempre, in ogni epoca storica, e allo stesso tempo non è mai un problema in quanto tale: il problema delle macchine sta nell’uso che se ne fa, ossia nei rapporti sociali che sono costruiti attorno all’uso e alla produzione delle macchine, intorno ai fini dell’utilizzo delle tecnologie. Ma perdoniamo questo neologismo ad Hester poiché è proprio questo il problema che l’autrice intende porre: come si caratterizza il mondo del lavoro nell’epoca dello sviluppo tecnologico? Come la tecnica influenza la riproduzione biologica e sociale?
Già Marcuse si era posto questi problemi negli anni cinquanta, interrogandosi sulle potenzialità dello sviluppo tecnologico in atto, ma anche sulle forme di alienazione causate dall’uso capitalistico e monopolistico delle macchine. L’impostazione di Hester è molto simile: lo sviluppo tecnologico dà all’uomo l’opportunità di migliorare e progredire, ma questa fiducia nel progresso non è cieca e acritica.

L’antinaturalismo  è invece un termine che si collega alla tradizione marxista e progressista: inchiodare un’identità, un soggetto, una comunità alla natura è tipico del pensiero conservatore, per cui le cose sono quello che sono e sono immutabili, perché così ha voluto la Natura, o Dio, o una qualche altra Autorità. Per un manifesto progressista come Xenofemminismo, la riproduzione biologica e la riproduzione sociale si intersecano nel corso dello sviluppo storico. La tecnica rende ancora più visibile questa interconnessione, ed è proprio qui che si pone il problema politico del governo di questo sviluppo tecnologico, che deve favorire la libera espressione dell’identità di genere dei singoli, l’esercizio del diritto di volere o non volere dei figli, questioni che non sono identiche per tutti ma che si differenziano a seconda delle classi sociali e delle condizioni economiche in cui versano gli individui.

Infine l’abolizionismo di genere sostiene che obiettivo delle lotte dei movimenti femministi e di genere è l’abolizione dei generi stessi, ossia il conseguimento di una uguaglianza tra gli uomini tale che permetta loro di poter scegliere il proprio genere di appartenenza (con tutte le infinite sfumature tra un genere e l’altro) senza dover subire alcuna discriminazione. Un’anarchia sessuale fondata su poche regole condivise ed inclusive.

Per quanto abbozzato, questo manifesto costituisce il tentativo di elaborare, a partire dalle condizioni attuali, dalle tradizioni e dalle pratiche di cui disponiamo, una teoria progressista e razionale, critica nei confronti dello stato di cose e che prospetta nuove possibilità.


domenica 5 aprile 2020

Ri-bilanciare i poteri tra Governo e Parlamento quando il virus sparirà - Marina Calamo Specchia


In tempi di pandemia da Covid-19, in quale organo vanno collocati i poteri normativi?
Le pandemie rientrano negli stati d’eccezione che prevedono deroghe alla normativa vigente. Le democrazie costituzionali contemporanee regolano gli stati d’emergenza, prevenendo gli sconfinamenti dell'un potere a discapito dell'altro. La nostra forma di governo parlamentare, nomen omen, si poggia sul Parlamento e sulla relazione triadica che s’instaura con Governo da un lato e Presidente della Repubblica dall'altro. La Costituzione prevede tre disposizioni da attivare in momenti di eccezione: l'art. 77 della Costituzione disciplina i decreti-legge del Governo in casi straordinari di necessità e urgenza da convertire in legge; l'art. 78 prevede la dichiarazione dello stato di guerra con legge; l'art. 120 autorizza il Governo ad avocare le competenze amministrative regionali per disporre misure uniformi su tutto il territorio nazionale, sulla base di una legge. Tutti gli atti emergenziali prevedono l'intervento della legge del Parlamento a monte o a valle: oggi, il decreto legge è lo strumento corretto per disciplinare la crisi, ma esso non può istituire una delega in bianco alla normazione secondaria (il DPCM sottratto al controllo del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale) che limiti diritti e libertà fondamentali. Cosa è accaduto di fatto? Il Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020 ha disposto per sei mesi lo stato di emergenza costituzionale, bypassando il Parlamento, e il decreto-legge n. 6/2020 ha delegato il DPCM ad adottare le più corpose limitazioni dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini. Solo il Parlamento, quindi, potrebbe ripristinare la legittimità costituzionale violata. Invece in questo clima da “guerra virologica”, il Parlamento delibera “a ranghi e tempi ridotti” su decisione dei Presidenti delle Camere, quasi a sanzionare la “morte annunciata” dell'organo rappresentativo: la decisione di limitare l'ingresso ai parlamentari contagiati dal virus e di concentrare le sedute, senza predisporre forme telematiche di partecipazione ai lavori parlamentari contraddice la scelta del Governo di stabilire per tutti gli organi collegiali la deliberazione attraverso videoconferenze tra le misure COVID-19 (art. 73 d.l. 18/2020), utilizzando l'innovazione tecnologica a servizio della democrazia. Si potrebbe utilizzare lo strumento telematico per i parlamentari impediti? A mio avviso sì: l'articolo 64 della Costituzione richiede a fini deliberativi la presenza dei parlamentari, concetto ampio che ben può essere reinterpretato come “presenza virtuale”, alla luce dell'evoluzione giuridica e tecnologica. Si tratterebbe, però, di procedimenti eccezionali, che suggeriscono in futuro una prudente normazione attraverso la modifica dei Regolamenti parlamentari. L'emergenza finirà e forse parlare in questo momento di poteri, funzioni e garanzie può (apparire) un privilegio da intellettuali. Tuttavia, se non si pone un freno agli sconfinamenti del Governo sul Parlamento, la pandemia ci lascerà in eredità una democrazia moribonda: adesso, quando il destino impone “tempo per riflettere”, ecco, pensiamo alla Repubblica che vogliamo!


* Marina Calamo Specchia
Docente di Diritto costituzionale comparato Università di Bari
Presidente Rete solidale in difesa della Costituzione
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