sabato 7 giugno 2014

Le Mépris - Jean-Luc Godard

Pare che Jean-Luc Godard non avesse una buona opinione del romanzo di Alberto Moravia "Il disprezzo": lo definì «un volgare e grazioso romanzo di stazione, pieno di sentimenti classici e fuori moda, nonostante la modernità delle situazioni». Ed aggiunse: «Ma proprio con questo genere di romanzi spesso si girano dei buoni film».
Eppure "Il disprezzo" si presenta forse come uno dei romanzi meglio riusciti di Moravia, che dichiarò: «Lo considero uno dei miei romanzi migliori., perché al tempo stesso profondamente sentito e completamente inventato, che è secondo me la combinazione migliore per scrivere un buon romanzo». 
Non è un mistero che nel 1954 (anno di pubblicazione del romanzo) il rapporto tra Moravia e la moglie Elsa Morante fosse ormai agli sgoccioli. E infatti il romanzo narra della crisi tra i coniugi Riccardo ed Emilia Molteni. Riccardo è uno scrittore di teatro che abdica alla propria creatività accettando, per motivi chiaramente economici, la professione di sceneggiatore cinematografico. La crisi arriva repentina e modifica inspiegabilmente (o quasi) i sentimenti di Emilia per il marito: il disprezzo, che nasce da un pretesto narrativo, si palesa come il vero protagonista del romanzo, ciò che muove e anima tutti i personaggi. È il disprezzo verso l'uomo povero (Molteni), che si trova in una condizione di dipendenza dall'uomo ricco (il produttore Battista), ma è anche il disprezzo della realtà degli anni Cinquanta (quella dell'industria culturale) verso l'intellettuale-artista (la creatività ostacola il commercio: bisogna produrre, anche sforzandosi, ciò che piace al pubblico acquirente). La realtà dell'industria culturale è personificata nella figura di Battista, che assume Molteni per scrivere una sceneggiatura epocale dell'Odissea, in cui siano ben visibili fanciulle seminude e tutto ciò che possa accaparrare pubblico. Di contro il regista tedesco Rheingold ne propone una versione modernizzante e psicanalitica: Ulisse avrebbe lasciato Itaca e ritardato il suo ritorno il più possibile a causa di una crisi con la moglie Penelope. Non solo! Ulisse chiederebbe alla moglie di assecondare le avances dei Proci ed agirebbe da "uomo" unicamente perché spinto da Penelope. L'Odissea di Rheingold diventa lo specchio attraverso il quale Molteni, uomo riflessivo, riesce finalmente a comprendere il motivo del disprezzo della sua Emilia.
Il film, del 1963, trascende le tematiche del romanzo moraviano e le supera, costituendosi come una vera e propria riflessione sul cinema: il disprezzo di Emilia (nel film Camille) si intreccia ad una indagine tutt'altro che distaccata sul cinema mainstream, un cinema in cui ogni singola inquadratura viene monitorata dal produttore, il più delle volte mosso da interessi economici. La scena iniziale è quasi una professione di fede: è il giudizio del cinema sul cinema, ma anche del regista sul pubblico, della cinepresa sulla realtà (la scena si chiude, infatti, con la macchina da presa puntata proprio verso lo spettatore). Godard, accompagnato dalla musica struggente di George Delerue, legge i titoli di testa, che terminano con una frase di André Bazin («Ai nostri occhi il cinema costituisce un mondo che si accorda ai nostri desideri») a cui Godard aggiunge «"Il Disprezzo" è una storia di questo mondo». Quello che si preannuncia è un cinema del disincanto.
Ai personaggi vengono cambiati i nomi e le nazionalità: Emilia e Riccardo diventano Camille (Brigitte Bardot) e Paul Javal (Michel Piccoli), Battista Jeremiah Prokosch (Jack Palance), Rheingold Fritz Lang (che è interpretato da Fritz Lang in persona). Ogni personaggio parla una lingua diversa (i personaggi sono smarriti, li permea un senso di estraniamento), per cui quella di Francesca Vanini (Giorgia Moll), l'assistente di Prokosch, è una figura centrale: non solo fa da interprete, ma rappresenta anche l'alterego di Camille. Entrambe, infatti, sono caratterizzate dal colore giallo (si pensi all'accappatoio che indossano a Capri) e dal colore rosso (si pensi alla maglia indossata da Francesca Vanini nella villa di Prokosch e alla coperta con cui Camille copre il proprio corpo nudo nella scena - a mio parere magistrale - del litigio col marito). 
In genere, il colore ha un valore simbolico: nei primi cinque minuti, il momento dell'idillio della coppia vede l'alternarsi di più filtri. Il rosso, il bianco, il blu permeano totalmente i corpi dei protagonisti, come se lo spettatore si imponesse con forza nella loro intimità. Eppure la frase di Paul «Ti amo totalmente, teneramente, tragicamente» ci inquieta perché preannuncia un destino di morte e di separazione. Fritz Lang non partecipa alla trama del destino. Egli è lo sguardo altro, colui che guarda da una posizione immutabile e inattaccabile: egli è il cinema stesso. "Le mépris" è, quindi, un metafilm. Molti sono i riferimenti al cinema: Brigitte Bardot, bionda, indossa spesso una parrucca bruna e ciò richiama sicuramente "La donna che visse due volte", di Hitchcock; nella scena del provino a Nausicaa viene mostrata la locandina di "Viaggio in Italia" di Rossellini; il cognome di Francesca Vanini ci fa venire in mente il film "Vanina Vanini", di Rossellini; vengono nominati Griffith e Chaplin. Il fatto stesso che i personaggi parlino lingue diverse è un chiaro riferimento a "Un americano tranquillo" di Joseph L. Mankiewicz.
Il film è la celebrazione della genialità di Godard, ma è anche un omaggio al cinema: non ci si spiega proprio il perché delle manipolazioni che il film subì nella versione italiana (oddio, rendere il film un susseguirsi di scene totalmente illogico avrebbe sicuramente giovato al produttore Carlo Ponti). Intanto i personaggi parlano tutti in italiano (ebbene, l'estraniamento viene eliminato e l'interprete - ridicola - non fa altro che ripetere ciò che già viene ad essere comprensibilissimo); la musica di Delerue viene sostituita dal jazz di Piccioni; i titoli di testa scorrono semplicemente sullo schermo; viene tagliata la scena in cui Camille scopre nella tasca di Paul la tessera del PCI; il finale viene stravolto e con lui il significato dell'intero film. 
«Godard ha scritto: "Quando ci riflettevo a fondo, oltre che la storia psicologica di una donna che disprezza suo marito, Il disprezzo mi appariva come una storia di naufraghi del mondo occidentale, di scampati al naufragio della modernità, che un giorno approdano, a immagine e somiglianza degli eroi di Verne e Stevenson, su un'isola deserta e misteriosa, dove il mistero è inesorabilmente l'assenza del mistero, vale a dire la verità. Mentre l'odissea di Ulisse era un fenomeno fisico, io ho ritratto un'odissea morale: dove lo sguardo della macchina da presa, puntato su personaggi alla ricerca di Omero, sostituisce quello degli Dei puntato di Ulisse e i suoi compagni". In questa contrapposizione tra mondo classico e mondo moderno, e conseguentemente tra cinema classico e cinema contemporaneo, Godard ha filmato il suo film più "perfetto", dove non è che non si senta la sua cifra sperimentale, il suo inesausto avanguardismo, ma dove però tutto il suo rovello stilistico e la sua ricerca estetica si ricompongono in una superiore unità.» (Gianni Borgna, Il disprezzo da Moravia a Godard, in "I differenti. Capri 1963, Il disprezzo: Moravia, Godard, Bardot e gli altri")

Brigitte Bardot (Camille) e Michel Piccoli (Paul) in una scena del film.

lunedì 2 giugno 2014

"Lotta di classe" di Ascanio Celestini

Nicola, Salvatore, Marinella, la signorina Patrizia... I protagonisti di questo libro hanno nomi comuni perché sono persone assolutamente comuni: sono proletari, figli di una classe oppressa ed equivalente alla quasi totalità della popolazione di ogni Paese capitalista. Le loro vite potrebbero essere le nostre (a meno che voi che leggiate queste righe non abbiate un nonno che porta l'orologio sul polsino). Forse alcuni di noi, singolarmente, si trovano in condizioni migliori dei personaggi di "Lotta di classe", ma la loro condizione è la nostra: noi siamo i salariati, la classe operaia, quella che per sopravvivere e consumare deve svendere la sua forza-lavoro, alienare la propria libertà, scendere talvolta a compromessi morali.
Ascanio Celestini, nel suo romanzo corale, offre uno spaccato desolante della nostra classe. Il perno della narrazione è un triste condominio, e se l'ambientazione è chiaramente romana, quell'edificio avrebbe tranquillamente potuto essere parte delle Vele di Scampia o dei
Trecento Alloggi crotonesi, di Quarto Oggiaro, di Libertà o della Città Vecchia di cui canta De André, quei «quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi, ha già troppi impegni per scaldar la gente d'altri paraggi».
La vita di borgata è triste e squallida. Se Ascanio Celestini arriva a raccontare di tentati suicidi e tentati omicidi, di vicini ossessivi e folli, di situazioni gravi al limite del surreale, non credo proprio lo faccia per mero gusto dell'orrido né per suscitare commozione o pietà con un mélo esagerato e patetico. I suoi personaggi, poco meno che casi umani, non sono che frutti del tutto plausibili dello sfruttamento, dei ritmi di lavoro opprimenti, dell'ambiente sociale sgradevole e disumano, dell'alienazione. Si tratta di storie limite ben lontane dal fantastico o da un noir inverosimile: grottesche? Sì, lo sono. Ma non lo è anche la condizione di abbrutimento bestiale in cui tanti uomini sono ridotti, nelle nostre società super sviluppate di cui i neoliberisti vanno fieri e sono soddisfatti?
Le vite dei precari costretti a barcamenarsi tra diversi lavori e lavoretti, le vite degli operatori di call center costretti a lavorare ore e ore per pochi spiccioli (lordi) sono tali da portare una protagonista a dire che a sera:

«Mi spogliavo e mi sentivo leggera. Avrei continuato a spogliarmi, se fosse stato possibile. Mi sarei sfilata la pelle come un cappotto e l'avrei appesa a una stampella. A scuola c'insegnano che abbiamo quattrocento muscoli: me li sarei tolti uno per uno come fazzoletti sporchi dentro alle tasche. E le ossa? Solo nel piede ce ne stanno cinquantadue. E io le avrei messe in un secchio al lato del letto. Anche le vene le avrei tirate via, raggomitolate e messe in un cassetto. E poi la stanchezza che mi pesava come un maglione, e tutti i pensieri che c'avevo addosso».

Lo sfruttamento è così selvaggio e sregolato da ridurre il tempo di vita a margini irrisori tra un abisso di stanchezza e un fiacco moto di ribellione ogni tanto. Il tempo è denaro, ma il tempo di lavoro è tempo alienato: denaro, sì, ma del padrone.
Eppure, la situazione squallida e disumana, grigia e brutale che ci racconta Celestini, non è senza speranza. Il titolo del romanzo non è "La condizione operaia" o "La classe sfruttata": è "Lotta di classe". Sì, perché i suoi personaggi sono docili e sottomessi dal mercato, relativamente depoliticizzati, eppure non totalmente sconfitti. Tra di loro serpeggia come una spira di vapore la consapevolezza della propria condizione, ciò che può trasformare la "classe in sé" (l'effettivo gruppo dei lavoratori) in "classe per sé" (classe sfruttata che sa di essere tale e solo così può decidere di ribellarsi). Tutti i personaggi, di fronte ad atti crudeli o cinici, brutali o aggressivi, lo ripetono: «è lotta di classe». Non è ancora rivoluzione: è un istinto di sopravvivenza, è un moto d'orgoglio, è una speranza sopita ma non spenta.
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