venerdì 26 aprile 2013

"Fight Club" di Chuck Palahniuk


L'anonimo protagonista è sul tetto dell'edificio più alto del mondo e con lui c'è Tyler Durden, «perfettamente bello, un angelo nella sua onnibiondezza» che gli tiene una pistola in bocca. Sotto di loro il palazzo è pieno di esplosivo, mancano pochi minuti alla deflagrazione. Questo è lo spaesante inizio di "Fight Club", un libro truce e contorto, cinico e profetico.
Il protagonista è anonimo e del tutto calato in una vita anonima, uno yuppie che trascorre i suoi giorni senza infamia né lode in conformità alla più pura american way of life. È demotivato e spento, ansioso e perseguitato dall'insonnia, legato solo al lavoro e perfettamente parte degli ingranaggi di una società capitalistica e consumistica in cui «le cose che una volta possedevi, ora possiedono te» e in cui ti adegui a fare un lavoro che detesti e che ti frustra solo per poterti permettere di comprare cazzate che non ti servono davvero. 
E poi, di colpo, arriva Tyler Durden. Misterioso e volitivo, imprevedibile e creativo, sembra cavalcare la linea sottile tra genio e squilibrio psichico. È convinto portatore di una filosofia di vita rigorosa.


«Il modo in cui la vedeva Tyler era che attirare l'attenzione di Dio per essere stati cattivi era meglio di non ottenere attenzione per niente. Forse perché l'odio di Dio è meglio della sua indifferenza. Se tu potessi essere o il peggior nemico di Dio o niente di niente, che cosa sceglieresti? Noi siamo i figli di mezzo di Dio, secondo Tyler Durden, senza un posto speciale nella storia e senza speciale attenzione. Se non otteniamo l'attenzione di Dio non abbiamo speranza di dannazione o redenzione».

Il protagonista non riesce a sopportare la vacuità e la molle insensatezza della sua vita. Prima cerca di ritrovare la serenità frequentando dei gruppi di sostegno per ammalati, sperando di uscire più vivo e felice dal confronto con chi sta obiettivamente peggio (e in uno di questi gruppi incontra Marla, protagonista femminile, con la quale si instaura presto un triangolo amoroso dai risvolti imprevedibili). Poi, il protagonista decide di appigliarsi ciecamente al suo nuovo amico:


«Oh, Tyler, ti prego salvami. [...] Liberami dai mobili svedesi. Liberami dall'artistico-funzionale. [...] Possa non essere mai completo. Possa non essere mai soddisfatto. Possa non essere mai perfetto. Liberami, Tyler, dall'essere perfetto e completo».

Il male e la violenza insensati sono meglio dell'insensato niente. Così nasce il primo fight club, la cui prima regola «è che non si parla del fight club». È un ritrovo di uomini che hanno perso ogni punto di riferimento e ogni energia vitale, uomini che lottando fra loro fino a spaccarsi i denti e deturparsi i volti recuperano la percezione del proprio potenziale fisico e psichico, la consapevolezza del proprio potere, la propria autostima, la propria identità. Paradossalmente, ritrovano sé stessi in un luogo in cui nessuno è sé stesso, perché il fight club è irreale ed etereo, tutelato da silenzio e dissimulazione. «Il fight club esiste soltanto nelle ore che vanno tra quando il fight club comincia e quando il fight club finisce».

Dopo una scazzottata, dopo aver massacrato un altro uomo o dopo essere stato da lui massacrato, il protagonista si sente rinato. «Dopo una sera al fight club ogni cosa del mondo reale si ridimensiona. Niente può farti incazzare. La tua parola è legge e se qualcuno viola quella legge o la mette in dubbio, non t'incazzi lo stesso». Lottare è una sorta di pratica zen, una forma di meditazione guidata, che dà al protagonista la forza di riformare la propria vita, di darle un nuovo corso.

«Il mio capo mi domanda: "In che razza di casino ti cacci tutti i fine settimana?"
È solo che non ho voglia di morire senza qualche cicatrice addosso, rispondo. Non serve più a niente avere un bel corpo intonso. Vedi quelle belle macchine con la loro bella carrozzeria virginale, fresche fresche di concessionario classe 1955 e a me viene sempre da pensare, Dio che spreco.»

Il fatto è che «forse l'automiglioramento non è la risposta. [...] Forse la risposta è l'autodistruzione». In una società che mercifica ogni cosa, che reifica l'uomo stesso nell'identificarlo con i suoi possessi materiali (la bella macchina e i mobili dell'Ikea), la soluzione è sfilarsi dal meccanismo. L'opposizione al modus vivendi dello yuppie è frontale, e si manifesta nella lotta; l'opposizione alla società, ai suoi ritmi e alle sue regole, si incanala nel Progetto Caos, l'evoluzione del fight club. Tyler porta la propria filosofia oltre il limite, la radicalizza, e finisce col porsi a capo di una vera e propria organizzazione di stampo terroristico e anarchico.
«Non c'è niente di statico. Perfino la Gioconda se ne va a pezzi.» L'abbandono dei personaggi a sé stessi è totale: il glaciale consumismo fornisce la materia prima per un nichilismo disperato, per uscire dal quale i protagonisti sono disposti a diventare dei criminali.

Chuck Palahniuk trasmette la sensazione straniante e alienata dei personaggi attraverso il suo stile caratteristico, fatto di cori che si ripresentano, di ripetizioni che tolgono naturalezza al racconto, di periodi e descrizioni scarni. Umorismo nero, dettagli macabri e squallidi, profusione di slang e turpiloquio. "Fight club" è un libro allucinato e allucinante, giocato sul filo del disagio psichico. È una critica ironica, poetica e feroce della società statunitense (e più in generale occidentale), è un urlo di malessere e sconforto. È davvero un grande libro.



Edito per la prima volta nel 1996 e subito riconosciuto come un'opera straordinaria ed esemplare, nel 1999 "Fight Club" è diventato un film diretto da David Fincher (interpretato da Brad Pitt, Edward Norton ed Helena Bonham Carter) e ormai considerato un cult.

giovedì 25 aprile 2013

"Le notti bianche" di Fëdor Dostoevskij

Con un ossequioso rispetto mi accingo a leggere "Le notti bianche" di Dostoevskij: è un libricino di 124 pagine, acquistato in un ipermercato alla modica cifra di 0,99 centesimi nella edizione Newton Compton. (0,99 cent: meno di un cornetto!)
Il titolo, che palesemente richiama il fenomeno atmosferico per il quale, in alcuni luoghi e periodi dell'anno, il sole tramonta dopo le 22, è senza dubbio emblematico: le notti bianche sono notti in cui una realtà appiattita si anima, facendo della speranza linfa vitale grazie alla quale un futuro dell’appagamento spodesta un presente dell’adeguarsi. 
Una notte, il protagonista incontra Nasten'ka, una diciassettenne segregata in casa dalla nonna iperprotettiva: l'incontro fortuito risveglia l'animo introverso del giovane, che è un sognatore («Un sognatore - se è necessaria una sua definizione precisa -non è una persona, ma, sapete, un essere di genere neutro. Si stabilisce il più delle volte in qualche angolo inaccessibile, come se ci si nascondesse perfino della luce del giorno, e quando poi si rifugia a casa, allora si radica al suo angolo come una lumaca [...]») , e stuzzica la curiosità della ragazza, che cerca di dimenticare un amore ormai perduto. I due si rivedono per quattro notti, alle 22 in punto, dandosi appuntamento davanti alla panchina su cui la giovane aspetta di incontrare il ragazzo partito da un anno con la promessa di sposarla non appena avrebbe fatto fortuna.  Quattro notti sono sufficienti per aprirsi l'un l'altro, dando vita a un empatico scambio di sentimenti e di vedute in cui è facile vedere il germoglio di un nuovo legame. 

«[...] c'è, Nasten'ka, amica mia, un momento della mia giornata che amo particolarmente. È il momento in cui quasi tutti gli affari, i doveri e gli impegni terminano, e tutti si affrettano alle loro case per mangiare, stendersi a riposare e intanto, per strada, escogitano anche altri propositi allegri concernenti la serata, la notte e tutto il rimanente tempo libero. In quel momento anche il nostro eroe, - perché, Nasten'ka, permettetemi ancora di raccontare in terza persona, giacché in prima persona tutto ciò è terribilmente imbarazzante da raccontare, - cosicché, in quel momento, anche il nostro eroe, che lui pure ha avuto il suo daffare, cammina dietro gli altri. Ma uno strano sentimento di piacere gioca sul suo volto pallido, come un po' sciupato. Guarda con partecipazione il tramonto che lentamente si spegne contro il freddo cielo pietroburghese. Quando dico -guarda, mento: non guarda, ma contempla pressoché inconsciamente, come stanco o occupato al tempo stesso da qualche altro pensiero più interessante, cosicché forse solo di sfuggita, quasi involontariamente, può dedicare un po' di tempo a tutto ciò che lo circonda. [...] Nella camera si è fatto scuro; nella sua anima c'è vuoto e tristezza; l'intero regno dei sogni si è sgretolato intorno a lui, si è sgretolato senza traccia, senza rumore né chiasso, è svanito come una visione, e lui stesso non ricorda cosa abbia fantasticato.»

Eppure la bianchezza di queste notti nasconde l’insidia della disillusione, la spietatezza della lucidità, il furore dell’addio. Durante l'ultima notte, Nasten'ka scorge nel buio il vecchio amore e, senza esitare, lascia la mano del nostro protagonista per gettarsi al collo del ritrovato. 


«Le mie notti finirono un mattino.[...] Non so perché, all'improvviso mi sembrò che anche la mia camera fosse invecchiata come la vecchia. Le pareti e il pavimento erano sbiaditi, tutto si era offuscato; di ragnatele ce n'erano ancora di più. Non so perché, quando guardai alla finestra, mi sembrò che la casa di fronte anche fosse diventata decrepita e si fosse a sua volta offuscata, che gli stucchi sulle colonne si fossero staccati e fossero caduti, che i cornicioni si fossero anneriti e coperti di crepe e le pareti da un colore giallo scuro brillante fossero diventate a chiazze...»

Il sognatore sprofonda nell'abisso della propria solitudine, una solitudine che, diventata estranea, risulta ancor più straziante. Nasten'ka diventa un ricordo, la vita ritorna priva di realtà e animata unicamente dall'immaginazione: si presume che il sognatore, isolato e senza amici, riprenda le passeggiate per le vie di San Pietroburgo, immaginando di parlare con quegli edifici che conosce così bene. A volte gli sembra che qualcuno, già incontrato per le strade della città, gli rivolga un saluto. È l'unico margine di realtà a cui può tristemente aspirare.  

«Ora la "dea della fantasia" [...] ha già iniziato a tessere con mano capricciosa il proprio ordito d'oro ed è andata a svolgere davanti a lui i ricami di una fantastica e bizzarra vita. [...] Ha iniziato a tessere monellescamente tutti e tutto nella sua trama, come una mosca in una tela di ragno, e, con la nuova acquisizione, l'originale è già entrato nella sua piacevole tana [...]»

mercoledì 24 aprile 2013

"Il ballo" di Irène Némirovsky


Irène Némirovsy si sentiva portatrice di almeno tre peccati originali, tre tare capaci di contaminarla e di farla apparire odiosa ai propri stessi occhi: era ebrea, era borghese ed era donna.
Tre categorie dalle quali la scrittrice, nata a Kiev nel 1903 e subito condannata ad una vita di esili e sradicamenti che la porteranno a Parigi (dove pure non si sentirà davvero a casa), tenta invano di emanciparsi. Il suo disprezzo per il popolo ebraico risulta ad un lettore di oggi come minimo scandaloso e riprovevole, eppure non si devono dimenticare due fattori. Innanzitutto, la Némirovsky descriveva gli ebrei come dei viscidi omuncoli attaccati al denaro, usurai e taccagni fino al ridicolo: era la caricatura (sebbene offensiva) di un popolo, non certo un’istigazione alla violenza antisemita. In secondo luogo, e cosa ancora più
importante, quella della Némirovsky non era semplice avversione per un popolo estraneo, ma era dissociazione: la scrittrice era ebrea. Non era osservante e in seguito si converte al cattolicesimo e sposa un cattolico, ma nondimeno era nata ebrea e conosceva il mondo ebraico dall’interno. Avversarlo equivaleva ad avversare una parte di sé, forse quella parte che Némirovsky vedeva rispecchiata dal proprio padre, che pure amava, ma che era troppo assente e lontano perché dedito con più attenzione agli affari e al denaro (era un banchiere) che alla famiglia. Infine, come per contrappasso, sarà proprio l’essere ebrea di Irène Nemirovsky a siglarne la morte: nel 1942, ad appena trentanove anni, la scrittrice muore ad Auschwitz.
Mentre il rigetto verso la propria origine ebraica appare come una semplice antipatia della scrittrice, in Némirovsky cogliamo un’altra avversione, coltivata e sviluppata fino ad essere una critica tagliente: quella contro la classe borghese. Dopo aver vissuto la primissima infanzia a San Pietroburgo, Irène è costretta dalla Rivoluzione d’Ottobre alla fuga prima in Finlandia, poi a Stoccolma e solo nel luglio 1919 in Francia. Motivo della fuga della famiglia dalla Russia fu certo l’appartenenza alla classe borghese, che offrì alla giovanissima Irène dei privilegi ma seppe anche disgustarla. A Parigi, nell’ambiente in cui la scrittrice cercò e credette di sentirsi a casa, si confrontò con altri borghesi suoi pari e con quella sottocategoria particolarmente pacchiana e gretta, quella dei parvenu o arricchiti. Il quadro d’insieme di questa classe sociale offerto dalla Némirovsky è desolante fino alla commedia: gente soggetta in maniera meccanica, quasi disumanamente, alla legge del più forte; attaccata come ad un Vangelo al motto hobbesiano per cui l’uomo è un lupo per il suo simile; disposta a sopraffare e ingannare, mercificare ogni cosa, speculare e ostentare la propria ricchezza, il proprio gusto, la propria superiorità. Gente piccola e gretta, per cui la facciata è più importante di ogni altra cosa. Rosine nel racconto Il ballo incarna perfettamente questa tipologia umana: privatamente da del tu al marito e si comporta come faceva prima di arricchirsi, ma in presenza dei domestici dà al marito del lei, si dà dei modi aristocratici e si indigna se il marito ardisce addirittura di restare in maniche di camicia.
Infine, quello che si configura come un autentico trauma esistenziale nella Némirovsky è il suo odio per il genere femminile o almeno per alcune sue esponenti. Non era una misogina o una maschilista, e in ogni caso il contrappasso arrivò puntuale anche in questo settore, regalandole due figlie femmine. Eppure, nelle diverse opere della scrittrice ucraina (o meglio francese) vediamo emergere un tema ricorrente: quello della madre-matrigna che odia la figlia perché vede in essa una propria copia più giovane e attraente, che vessa la giovinetta e le tarpa le ali perché la invidia e la teme come rivale in amore. E, inscindibile da questo ruolo odioso e ad esso complementare, ritroviamo costantemente quello della figlia: la ragazzina (come la Antoinette de Il ballo) patisce per l’atteggiamento della madre fino alle lacrime, fino a desiderare la propria morte, fino ad augurarla a lei, e infine fino a procacciarsi una vendetta. In Némirovsky, la figlia è sempre una Elettra vendicatrice, che non si fa scrupoli di schiacciare e annichilire la genitrice per vendicare il male da essa ricevuto, che senza pietà si prepara a rimpiazzare la madre, a succederle nel suo ruolo, a godere il trionfo dell’avvicendarsi delle generazioni. Naturalmente, l’origine di questo acre sentimento si annida nel vissuto tragico di Némirovsky, che subì la propria madre come una nemica tirannica e distaccata, capace solo di disamore e vanità, e perfettamente sovrapponibile a quella donnetta alto borghese interessata solo al benessere, affatto umiliata dall’essere mantenuta negli agi dal ricco marito, pronta senza alcuna remora a cercare un amante più giovane e aitante.
Irène con l'altra figlioletta, Denise
Eppure, a volte la storia è capace di riconciliare le fratture con una grazia poetica e insieme geometrica: Irène Némirovsky si è fatta portatrice di un modello di rapporto madre-figlia incentrato sul tentativo reciproco di sopraffazione e annullamento; è morta giovane, lasciando due figlie bambine; la minore, Élisabeth Gille, che la conobbe e ricordava appena (aveva cinque anni quando la scrittrice fu deportata), studiò tutti i suoi diari, i suoi appunti, le sue bozze, i suoi taccuini di lavoro per farsene un quadro preciso. E poi, con tutte queste informazioni, scrisse (nel 1992) Mirador, una biografia di Irène Némirovsky, in prima persona. Gille ha spezzato la catena di rivalità tra madri e figlie, non ha annichilito la propria madre secondo la dinamica a cui Némirovsky credeva non si potesse sfuggire, ma al contrario ha contribuito alla sua memoria e lo ha fatto scrivendo intimamente di lei, come fosse lei, sovrapponendosi a lei in una riconciliazione, in una pacificazione che ha davvero del poetico.

Il ballo è un racconto spietato e gustoso. Protagonisti sono i Kampf, famiglia di parvenu che cerca di fare il proprio ingresso trionfale nell’alta società dando una serata danzante. Alla quattordicenne Antoinette manca ancora un anno per il proprio debutto in società, eppure già brama ardentemente la vita adulta. Vive con un senso di oppressione e lacerazione i sentimenti più propriamente adolescenziali: volontà di autoaffermazione, insofferenza per le maniere repressive dei genitori, desiderio di sbocciare come donna adulta e desiderabile.
Centrale è, ovviamente, l’odio viscerale per la madre frivola e capricciosa, capace solo di vessare la ragazzina, deriderla, allontanarla.

«Poteva piangere o ridere sotto i loro occhi, non si sarebbero degnati di vedere niente… Una figlia di quattordici anni, una ragazzina, qualcosa di spregevole e basso come un cane… Con quale diritto la mandavano a dormire, la punivano, la insultavano?»

Quando Rosine Kampf decide di dare un ballo, Antoinette vede in esso la possibilità di crescere, «spiccare il volo», mostrarsi pubblicamente per la donna adulta che aspira ad essere, servendosi di una serata mondana che pure tanto significherebbe per lei.

«E che lei dovesse coricarsi proprio quella sera, come tutte le altre, alle nove come un bambino… Forse alcuni uomini sapendo che i Kampf avevano una figlia avrebbero domandato dov’era; e sua madre avrebbe risposto con la sua solita risatina odiosa: “Oh, è tanto che dorme…”. Eppure cosa le costava che anche Antoinette avesse la sua parte di felicità su questa terra?... Ah, Dio mio, ballare una volta, una sola volta, con un bel vestito, come una vera signorina, stretta tra le braccia di un uomo…»

Antoinette esprime il desiderio di partecipare al ballo, ma sua madre preferisce ridicolizzarla, negarle il permesso deridendone la sfacciataggine, ammettendo infine di non volere tra i piedi una ragazza in età da marito proprio quella sera, il cui fine è fare brillare lei, Rosine, suscitando invidia nelle invitate e ammirazione negli uomini. Naturalmente, la nemesi di Némirovsky è in agguato: Antoinette non rimarrà vittima passiva dell’ennesimo sopruso, ma saprà trarsi fuori dall’adolescenza con uno scatto imperioso e spietato della volontà, saprà prendersi la sua vendetta.
Il ballo è una lettura che scivola giù, grazie allo stile leggero e frizzante (sostenuto anche da una traduzione molto agile e moderna… Non ho parole per esprimere quanto mi sia piaciuta l’espressione «tirare il bidone»!). La trama è semplicissima, gracile se vogliamo, ma perfettamente riuscita e geometrica, fino al finale lucido e spietato. Il racconto è un perfetto archetipo delle dinamiche ricorrenti in Irène Némirovsky ed esemplare dello spirito che anima le sue opere; per quanto breve e leggero, è illuminante e soddisfacente.
Una lettura che consiglio davvero, soprattutto corredata dalla ricca e interessante prefazione di Maria Nadotti, presente nell’edizione super-economica della Newton Compton.

lunedì 15 aprile 2013

"Racconti del terrore" di Edgar Allan Poe

«Questo sentimento si trasformò ben presto in irritazione ed infine, come un irrevocabile ribaltamento, comparve lo spirito della PERVERSITÀ. Di questo spirito la filosofia non tiene conto; ma io non sono tanto sicuro dell'esistenza della mia anima, quanto lo sono del fatto che questa forma di malvagità perversa è uno degli impulsi primordiali del cuore umano - una di quelle inscindibili facoltà primarie, - sentimenti, che governano il caratterer dell'Uomo. [...] Non abbiamo forse una perpetua inclinazione a violare, a dispetto dei nostri migliori intendimenti, quella che è la Legge, soltanto perchè comprendiamo che di questa si tratta? Questo spirito di perversità causò la mia completa rovina. Fu questa insondabile propensione dell'anima a torturare se stessa - a fare violenza alla propria natura - a compiere il male per il piacere di farlo».

Esistono dei grandi classici che non ci si stancherebbe mai di leggere e rileggere, storie che scoprimmo una volta (magari da bambini) e nelle cui atmosfere suggestive ed immortali ci torna la voglia di immergerci, di tanto in tanto. Tra le penne capaci di produrre tali piccoli miracoli ci fu certamente quella di E. A. Poe. Uno straordinario novelliere, di grandissima potenza suggestiva e con un enorme bagaglio di novità e trasformazione, che incise profondamente sulla letteratura della prima metà dell'Ottocento. I racconti di Poe sono degli autentici classici: archetipi del racconto del terrore, del grottesco, del macabro. Quelle che oggi sono delle caratteristiche all'ordine del giorno, quasi dei luoghi comuni del genere horror (uno su tutti, la morte apparente), furono da Poe acquisite e fissate, trasformate in tradizione, attraverso una produzione straordinariamente creativa e variegata. In Poe, infatti, vediamo elementi che a quei tempi costituirono una vera e propria avanguardia, sapientemente miscelati ad elementi più classici: in questo autore straordinario si intrecciano decadentismo, gusto gotico, cupo romanticismo, lirismo sepolcrale, tocchi scapigliatimaledetti (non a caso, fu Baudelaire a riscoprire la produzione di Poe, a tradurla e diffonderla dal 1852, poco dopo la morte del novelliere statunitense).
Il volume dei Racconti del terrore raccoglie alcune tra le novelle più riuscite e più famose di Poe: Il gatto nero, Il barile di Amontillado, La mascherata della Morte Rossa, La caduta della Casa Usher, La verità sulla vicenda del signor Valdemar, La sepoltura prematura, Il cuore rivelatore, Una discesa nel Maeström, Il manoscritto trovato in una bottiglia, Il pozzo e il pendolo
Basta scorrere questi titoli per rendersi conto di quanto l'influenza di Edgar Allan Poe sia stata pervasiva, di quanto potentemente il suo stile abbia inciso sull'immaginario collettivo. Chissà quanti di noi, guardando quella certa puntata dei Simpson, si sono stupiti di vedere Lisa nei panni del protagonista de Il cuore rivelatore, alle prese con l'inganno e i conseguenti morsi della coscienza! E chissà quanti, guardando quella certa puntata de Il commissario Montalbano, vedendo l'ultimo messaggio lasciato da un uomo agonizzante, "EAP", avranno riconosciuto le iniziali di Poe e intuito che la soluzione del caso si sarebbe trovata in un foglio di carta, manoscritto, nascosto in una bottiglia. Infine, chi di noi ha in camera una mensola carica di Dylan Dog, tra cui l'apisodio liberamente ispirato alla Morte Rossa? Gli esempi sono numerosissimi e, per quanto banali, dimostrano che la produzione di Poe fa saldamente parte di quella scorta di citazioni e situazioni ricorrenti nel cinema, nel fumetto, nella letteratura di genere e non, nella semplice immaginazione. 
Di Poe sono immortali anche la produzione poetica, vicina al simbolismo francese, e teorica, ma è propriamente nell'ambito del terrore che il suo nome si è configurato come un pilastro fondamentale. Negli anni '30 del Novecento sono sorti dei tentativi di interpretazione psicanalitica delle sue novelle, e gli odierni studi in materia psicologica evidenziano l'abilità di Poe nello sviscerare i più bui e profondi abissi della psiche umana. Nei Racconti del Terrore vediamo ricorrere alcuni dei temi più suggestivi di sempre (e non solo della letteratura di genere): la tafofobia, il terrore di essere sepolti vivi; l'epidemia, e il motivo risalente a Lorenzo il Magnifico del godere una vita spensierata finché sia possibile; la simbologia del gatto nero e le superstizioni ad essa legate; il tema ricorrente della morte, inflitta o subita o in agguato. La grandezza di Poe risiede però, più che in ogni altra cosa, nella sua capacità di perturbare senza mai abusare di quello che oggi chiamiamo splatter: perturbante, autenticamente terribile, in Poe è l'uomo stesso, le sue ossessioni, le sue perversioni. I protagonisti di Poe sono folli, omicidi, personalità ossessive e fobiche, spesso inconsapevoli di esserlo, altre volte lucidamente presenti al proprio orrore interiore, perfino compiaciute di esso. Il Male non è il nemico, nei racconti di Poe, ma il cuore tenebroso del protagonista, di colui che per definizione dovrebbe accattivarsi le simpatie del lettore e suscitare la sua immedesimazione. Forse è per questo che i racconti di Poe incantano e avvolgono il lettore in un sudario di brividi: perché non fanno leva su un facile disgusto o su un macabro gratuito, ma svelano quanto di più orrido possa annidarsi in noi stessi.

sabato 13 aprile 2013

"La casa in collina" di Cesare Pavese

Nel '43 infuria la guerra. I bombardamenti colpiscono Torino e producono un gran numero di sfollati nelle campagne. Proprio lo sfollamento a Serralunga di Crea suggerisce a Cesare Pavese di scrivere La casa in collina, la storia di Corrado e della gente che come lui si ritrova suo malgrado ad affrontare la guerra, e lo fa in un modo o nell'altro. Ci sono i giovani arditi come Fonso e il piccolo Dino, ad esempio, che reagiscono alla distruzione con un moto di violenta speranza: gli eroi di quel periodo sono ragazzi, scrive Pavese, perché riescono a convogliare le loro energie e la loro caparbietà, la loro vitalità imprudente e talvolta inconsapevole, nel motore più vitale della lotta partigiana. C'è Giorgi, giovane soldato oppresso dal proprio senso del dovere e dall'abitudine di obbedire, che veste la divisa fascista senza condividerne il significato e che deve confrontarsi con i propri slanci e il proprio desiderio di altro. E poi c'è chi, come Corrado stesso, cerca invece solo un luogo di pace in cui rifugiarsi, una "casa in collina": un luogo bucolico circondato da rovi e gaggie, dove la gente si raccoglie a bere e cantare, distante dalle luci della città. Quando suona l'allarme e i bombardamenti colpiscono Torino, la squarciano, la insanguinano lasciando un tappeto fumante di macerie, gli sfollati si ritirano sulla collina del Pino e trovano sollievo vegliando con altri nelle stesse condizioni, guardando le stelle nel buio, dormendo nei prati.
Corrado vive intensamente questa stagione: mal tollera la Elvira e sua madre, le donne che lo ospitano in collina e che lo opprimono con le loro premure; si riscopre innamorato di Cate, giovane madre con cui condivise da ragazzo una relazione turbolenta; rivive i ricordi giovanili, rievoca l'adolescente che era e con il quale gli pare di non avere più niente in comune.

«Ma il giovane che viveva quei giorni, il giovane temerario che sfuggiva alle cose credendo che dovessero ancora accadere, ch'era già uomo e si guardava sempre intorno se la vita giungesse davvero, questo giovane mi sbalordiva. Che cosa c'era in comune fra me e lui? Che cosa avevo fatto per lui? Quelle sere banali e focose, quei rischi casuali, quelle speranze familiari come un letto o una finestra - tutto pareva il ricordo di un paese lontano, di una vita agitata, che ci si chiede ripensandoci come abbiamo potuto gustarla e tradirla così

Gli anni hanno cambiato Corrado e la guerra lo trasforma di nuovo, facendo insorgere in lui riflessioni sulla propria viltà, sul senso delle sue giornate, sulle sue relazioni. Sembra che in questo libro Pavese cerchi, attraverso il suo alter ego Corrado, di riabilitarsi agli occhi di sé stesso, raccontando una fenomenologia tutt'altro che eroica dell'uomo di fronte alla guerra. Il personaggio di Pavese pecca non proprio di viltà ma di isolamento: si rifugia nella casa in collina, nelle conversazioni con gli altri personaggi parla della guerra, si spinge a dire che tutti la meritano perché tutti hanno gridato "Evviva". Critica del coinvolgimento popolare e demagogico della dittatura, con la sua retorica della guerra e della patria; critica anche di chi ciecamente si affida a questa retorica e a questo coinvolgimento superficiale; infine, critica di chi rifiuta ogni tipo di coinvolgimento, desideroso soltanto di scappare in collina, lontano dai bombardamenti. Eppure, il termine esatto non è "critica", forse semplicemente 
"esposizione": Pavese mostra l'aspetto più umano della guerra, il modo in cui essa spinga l'uomo a riflettere su di sé, gli squallidi dettagli del quotidiano stravolto dal conflitto, le piccolezze campagnole di chi si disinteressa, al sicuro nella sua tana.
E infine, nucleo pulsante della riflessione e vertice dell'intensità poetica dell'opera, sono 
i morti: coloro che hanno assunto su di sé la guerra interamente, consapevolmente oppure per costrizione e caso, coloro che, proprio da morti, sono più vivi che mai, perché più intenso che mai è il loro insegnamento in forma interrogativa, il loro monito perentorio e grondante sangue: che senso ha la guerra?


«Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.»

mercoledì 10 aprile 2013

"Confessioni di una maschera" di Yukio Mishima



«La vita è un palcoscenico, dicono tutti. Ma non sembra che la gran maggioranza sia ossessionata da quest'idea, o perlomeno non sembra che lo sia in una fase precoce come successe a me. Addirittura alla fine dell'infanzia ero fermamente convinto che quella massima corrispondesse alla verità, e che io avrei dovuto recitare la mia parte sul palcoscenico senza mai tradire, neppure una volta, il mio autentico io».


Questa è la storia di una attrazione che brucia, sbaragliata e pulsante come un ago metallico in una bussola, indecisa e viscerale come una oscura follia. Il torpore di Kochan assume i tratti di una confessione graduale: le pulsioni sono continuamente mascherate e messe a tacere da un qualche desiderio di normalità che si avverte come una risolutezza.
Quello che soffoca il giovane protagonista, che parla in prima persona e al passato, è un dramma che lentamente s'inasprisce lasciando posto alla verità solo quando essa s'impone:


«quando c'entravano le donne, ero sgombro di quella timidezza che gli altri ragazzi possiedono in forma innata». 


Non si tratta di spavalderia o di fiera mascolinità: la naturalezza nel rapportarsi alle donne è, in realtà, totale indifferenza verso di esse, un'indifferenza che in tutti i modi si cerca di dissimulare attraverso l'approdo all'autoconvinzione di amare fortissimamente il sesso femminile. Ma «è forse ammissibile un amore che non abbia alcun fondamento nel desiderio dei sensi? Non è questo un assurdo ovvio e lampante?».
Il flusso di coscienza non lascia scampo al lettore, che si trova a tu per tu con Kochan, vedendolo da dentro eppur restandone al di fuori, come un confessore.
Il ragazzo, appena affacciatosi alla pubertà, confonde l'attrazione per il fisico maschile (il cavaliere occidentale che poi scopre essere Giovanna D'Arco, San Sebastiano che lo introduce alla masturbazione (la "brutta abitudine"), il compagno di scuola Omi) con l'ammirazione per la figura maschile, intesa come un tripudio di forza e virilità. Ciò è comprensibile, se facciamo caso all'ambiente che lo circonda: il Giappone del primo Novecento è pregno dell'elemento militare, che in qualche modo intensifica la timidezza del ragazzo, che cresce esile e che, proprio in virtù di questa fragilità, si rifugia nel mondo letterario. 

«Il lettore non ha che da raffigurarsi un discreto studente di liceo, non ancora ventenne; provvisto di normale curiosità e di normale appetito della vita; d'indole riservata, probabilmente per nessun motivo salvo quello ch'è troppo portato all'introspezione; pronto ad arrossire alla minima parola; e, difettando della spavalderia che deriva dal sapersi abbastanza bello per destare l'interesse delle ragazze, costretto a ripiegare soltanto sui libri».


Il continuo tendere verso qualcosa a cui Kochan non può anelare (in caso contrario la società tutta lo etichetterebbe "danshokuka", sodomita) viene portato all'esasperazione quando la finzione coinvolge un'altra persona: Sonoko, una ragazzina che assume un ruolo fondamentale nel romanzo. Ella favorisce il movimento di disvelamento che porterà il protagonista all'accettazione del proprio io. Non più maschere, quindi, ma un porsi dinnanzi ad una verità ineludibile.


«Oltre alla cupa irritazione che sempre mi minacciava quand'ero solo, il dolore che aveva scosso a tal punto le fondamenta della mia esistenza al mattino, quando avevo visto Sonoko, si ravvivava adesso nel mio cuore più lancinante che mai. Proclamava che ogni parola da me pronunciata e ogni gesto da me compiuto durante il giorno erano stati falsi: in seguito alla scoperta che mi riusciva meno penoso riconoscere la falsità di una cosa nel suo tutto che non torturarmi nel dubbio su quale sua parte potesse esser vera e quale falsa, ero già andato familiarizzandomi a grado a grado con questo sistema di mascherare intenzionalmente la mia falsità di fronte a me stesso. [...] 
A lungo andare la "recita" è diventata una parte integrante della mia natura, riconobbi fra me. Non è più una recita. [...] In altre parole, sto diventando una di quelle persone incapaci di credere a nulla che non sia contraffatto. Ma se questo è vero, allora il mio tentativo di voler considerare una mera contraffazione l'attrattiva esercitata da Sonoko su me potrebbe non esser altro che una maschera intesa a celare il mio autentico desiderio di credermi sinceramente innamorato di lei. E quindi forse sto diventando una di quelle persone incapaci di agire contrariamente alla loro natura genuina, e forse l'amo sul serio».


Il tema dell'omosessualità non oscura quello della morte, che sembra ergersi al di sopra e al di sotto di tutto, sovrana. Da ricordare che Yukio Mishima (pseudonimo di Kimitake Hiraoka) si suicidò nel 1970. E allora forse il libro è autobiografico e quella per la morte è un'ossessione martellante che ha in qualche modo caratterizzato tutta la vita dell'autore, invadendola e consumandola. 


«Una volta che mi fui lasciato alle spalle il cancello della caserma, infilai di corsa la discesa dello squallido, gelido colle che portava al villaggio. Proprio come alla fabbrica di aeroplani, le gambe mi precipitavano verso un traguardo che non era comunque la Morte: qualsiasi cosa fosse, non era la Morte...» 

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