mercoledì 24 aprile 2013

"Il ballo" di Irène Némirovsky


Irène Némirovsy si sentiva portatrice di almeno tre peccati originali, tre tare capaci di contaminarla e di farla apparire odiosa ai propri stessi occhi: era ebrea, era borghese ed era donna.
Tre categorie dalle quali la scrittrice, nata a Kiev nel 1903 e subito condannata ad una vita di esili e sradicamenti che la porteranno a Parigi (dove pure non si sentirà davvero a casa), tenta invano di emanciparsi. Il suo disprezzo per il popolo ebraico risulta ad un lettore di oggi come minimo scandaloso e riprovevole, eppure non si devono dimenticare due fattori. Innanzitutto, la Némirovsky descriveva gli ebrei come dei viscidi omuncoli attaccati al denaro, usurai e taccagni fino al ridicolo: era la caricatura (sebbene offensiva) di un popolo, non certo un’istigazione alla violenza antisemita. In secondo luogo, e cosa ancora più
importante, quella della Némirovsky non era semplice avversione per un popolo estraneo, ma era dissociazione: la scrittrice era ebrea. Non era osservante e in seguito si converte al cattolicesimo e sposa un cattolico, ma nondimeno era nata ebrea e conosceva il mondo ebraico dall’interno. Avversarlo equivaleva ad avversare una parte di sé, forse quella parte che Némirovsky vedeva rispecchiata dal proprio padre, che pure amava, ma che era troppo assente e lontano perché dedito con più attenzione agli affari e al denaro (era un banchiere) che alla famiglia. Infine, come per contrappasso, sarà proprio l’essere ebrea di Irène Nemirovsky a siglarne la morte: nel 1942, ad appena trentanove anni, la scrittrice muore ad Auschwitz.
Mentre il rigetto verso la propria origine ebraica appare come una semplice antipatia della scrittrice, in Némirovsky cogliamo un’altra avversione, coltivata e sviluppata fino ad essere una critica tagliente: quella contro la classe borghese. Dopo aver vissuto la primissima infanzia a San Pietroburgo, Irène è costretta dalla Rivoluzione d’Ottobre alla fuga prima in Finlandia, poi a Stoccolma e solo nel luglio 1919 in Francia. Motivo della fuga della famiglia dalla Russia fu certo l’appartenenza alla classe borghese, che offrì alla giovanissima Irène dei privilegi ma seppe anche disgustarla. A Parigi, nell’ambiente in cui la scrittrice cercò e credette di sentirsi a casa, si confrontò con altri borghesi suoi pari e con quella sottocategoria particolarmente pacchiana e gretta, quella dei parvenu o arricchiti. Il quadro d’insieme di questa classe sociale offerto dalla Némirovsky è desolante fino alla commedia: gente soggetta in maniera meccanica, quasi disumanamente, alla legge del più forte; attaccata come ad un Vangelo al motto hobbesiano per cui l’uomo è un lupo per il suo simile; disposta a sopraffare e ingannare, mercificare ogni cosa, speculare e ostentare la propria ricchezza, il proprio gusto, la propria superiorità. Gente piccola e gretta, per cui la facciata è più importante di ogni altra cosa. Rosine nel racconto Il ballo incarna perfettamente questa tipologia umana: privatamente da del tu al marito e si comporta come faceva prima di arricchirsi, ma in presenza dei domestici dà al marito del lei, si dà dei modi aristocratici e si indigna se il marito ardisce addirittura di restare in maniche di camicia.
Infine, quello che si configura come un autentico trauma esistenziale nella Némirovsky è il suo odio per il genere femminile o almeno per alcune sue esponenti. Non era una misogina o una maschilista, e in ogni caso il contrappasso arrivò puntuale anche in questo settore, regalandole due figlie femmine. Eppure, nelle diverse opere della scrittrice ucraina (o meglio francese) vediamo emergere un tema ricorrente: quello della madre-matrigna che odia la figlia perché vede in essa una propria copia più giovane e attraente, che vessa la giovinetta e le tarpa le ali perché la invidia e la teme come rivale in amore. E, inscindibile da questo ruolo odioso e ad esso complementare, ritroviamo costantemente quello della figlia: la ragazzina (come la Antoinette de Il ballo) patisce per l’atteggiamento della madre fino alle lacrime, fino a desiderare la propria morte, fino ad augurarla a lei, e infine fino a procacciarsi una vendetta. In Némirovsky, la figlia è sempre una Elettra vendicatrice, che non si fa scrupoli di schiacciare e annichilire la genitrice per vendicare il male da essa ricevuto, che senza pietà si prepara a rimpiazzare la madre, a succederle nel suo ruolo, a godere il trionfo dell’avvicendarsi delle generazioni. Naturalmente, l’origine di questo acre sentimento si annida nel vissuto tragico di Némirovsky, che subì la propria madre come una nemica tirannica e distaccata, capace solo di disamore e vanità, e perfettamente sovrapponibile a quella donnetta alto borghese interessata solo al benessere, affatto umiliata dall’essere mantenuta negli agi dal ricco marito, pronta senza alcuna remora a cercare un amante più giovane e aitante.
Irène con l'altra figlioletta, Denise
Eppure, a volte la storia è capace di riconciliare le fratture con una grazia poetica e insieme geometrica: Irène Némirovsky si è fatta portatrice di un modello di rapporto madre-figlia incentrato sul tentativo reciproco di sopraffazione e annullamento; è morta giovane, lasciando due figlie bambine; la minore, Élisabeth Gille, che la conobbe e ricordava appena (aveva cinque anni quando la scrittrice fu deportata), studiò tutti i suoi diari, i suoi appunti, le sue bozze, i suoi taccuini di lavoro per farsene un quadro preciso. E poi, con tutte queste informazioni, scrisse (nel 1992) Mirador, una biografia di Irène Némirovsky, in prima persona. Gille ha spezzato la catena di rivalità tra madri e figlie, non ha annichilito la propria madre secondo la dinamica a cui Némirovsky credeva non si potesse sfuggire, ma al contrario ha contribuito alla sua memoria e lo ha fatto scrivendo intimamente di lei, come fosse lei, sovrapponendosi a lei in una riconciliazione, in una pacificazione che ha davvero del poetico.

Il ballo è un racconto spietato e gustoso. Protagonisti sono i Kampf, famiglia di parvenu che cerca di fare il proprio ingresso trionfale nell’alta società dando una serata danzante. Alla quattordicenne Antoinette manca ancora un anno per il proprio debutto in società, eppure già brama ardentemente la vita adulta. Vive con un senso di oppressione e lacerazione i sentimenti più propriamente adolescenziali: volontà di autoaffermazione, insofferenza per le maniere repressive dei genitori, desiderio di sbocciare come donna adulta e desiderabile.
Centrale è, ovviamente, l’odio viscerale per la madre frivola e capricciosa, capace solo di vessare la ragazzina, deriderla, allontanarla.

«Poteva piangere o ridere sotto i loro occhi, non si sarebbero degnati di vedere niente… Una figlia di quattordici anni, una ragazzina, qualcosa di spregevole e basso come un cane… Con quale diritto la mandavano a dormire, la punivano, la insultavano?»

Quando Rosine Kampf decide di dare un ballo, Antoinette vede in esso la possibilità di crescere, «spiccare il volo», mostrarsi pubblicamente per la donna adulta che aspira ad essere, servendosi di una serata mondana che pure tanto significherebbe per lei.

«E che lei dovesse coricarsi proprio quella sera, come tutte le altre, alle nove come un bambino… Forse alcuni uomini sapendo che i Kampf avevano una figlia avrebbero domandato dov’era; e sua madre avrebbe risposto con la sua solita risatina odiosa: “Oh, è tanto che dorme…”. Eppure cosa le costava che anche Antoinette avesse la sua parte di felicità su questa terra?... Ah, Dio mio, ballare una volta, una sola volta, con un bel vestito, come una vera signorina, stretta tra le braccia di un uomo…»

Antoinette esprime il desiderio di partecipare al ballo, ma sua madre preferisce ridicolizzarla, negarle il permesso deridendone la sfacciataggine, ammettendo infine di non volere tra i piedi una ragazza in età da marito proprio quella sera, il cui fine è fare brillare lei, Rosine, suscitando invidia nelle invitate e ammirazione negli uomini. Naturalmente, la nemesi di Némirovsky è in agguato: Antoinette non rimarrà vittima passiva dell’ennesimo sopruso, ma saprà trarsi fuori dall’adolescenza con uno scatto imperioso e spietato della volontà, saprà prendersi la sua vendetta.
Il ballo è una lettura che scivola giù, grazie allo stile leggero e frizzante (sostenuto anche da una traduzione molto agile e moderna… Non ho parole per esprimere quanto mi sia piaciuta l’espressione «tirare il bidone»!). La trama è semplicissima, gracile se vogliamo, ma perfettamente riuscita e geometrica, fino al finale lucido e spietato. Il racconto è un perfetto archetipo delle dinamiche ricorrenti in Irène Némirovsky ed esemplare dello spirito che anima le sue opere; per quanto breve e leggero, è illuminante e soddisfacente.
Una lettura che consiglio davvero, soprattutto corredata dalla ricca e interessante prefazione di Maria Nadotti, presente nell’edizione super-economica della Newton Compton.

2 commenti:

  1. Questa autrice mi era del tutto sconosciuta ora mi avete fatto venir voglia di conoscerla meglio.
    Un abbraccio :)

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  2. Te la consiglio! Io l'ho conosciuta da pochissimo, e devo ringraziare la Newton Compton, casa editrice discutibile, ma che ha avuto la grandiosa e superdemocratica idea di mettere alcuni grandi titoli (tra cui questo) a 0,99 centesimi... Non potevo perdere l'occasione ;) E poi si legge in un pomeriggio, è sulle 120 pagine...

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