domenica 4 settembre 2016

La famiglia Karnowski, di Israel Joshua Singer

«Sii un ebreo in casa tua e un uomo di mondo fuori»

Pubblicato nel 1943 in lingua yiddish, La famiglia Karnowski narra la storia di tre generazioni, del conflitto tra padri e figli, delle diverse aspirazioni, sogni, visioni del mondo che caratterizzano le generazioni che si succedono, che necessariamente confliggono, che con il tempo si riconciliano. La lotta che i figli conducono nei confronti dei padri, dei valori tramandati, è un processo di sviluppo e costruzione della propria identità. La questione della lotta generazionale si intreccia con quella dell’identità: la storia della famiglia Karnowski, scandita dalla discendenza David – Georg – Joachim narra del rapporto tra queste tre generazioni. Una storia familiare che, come tutte le storie familiari, si intreccia con le vicende storiche e politiche di più ampio respiro, ma in questo caso il nesso è ancora più evidente. La famiglia Karnowski è una famiglia ebrea di origine polacca, e le loro vicende coprono un arco di tempo che va dalla fine dell’Ottocento alla Seconda Guerra Mondiale. La lotta tra padri e figli, la conquista della propria identità diviene una vicenda non più personale, ma universale. La ribellione di David, quella di Georg e infine quella di Joachim è caratterizzata dal rifiuto della identità ebraica tramandata dai propri padri: la ricerca di un modo nuovo di essere ebrei, la problematicità dell’essere ebrei, il tormento, l’umiliazione che questa identità comporta nel periodo della persecuzione nazista. Il tema “psicoanalitico” del rapporto col Padre si intreccia con il tema teologico del rapporto con Dio, con il tema storico-politico dell’identità di un popolo in un mirabile equilibrio, con la sensibilità, la profondità che rifugge ogni retorica, ogni forma di autocommiserazione, mettendoci di fronte ad una storia che non ammette semplificazioni. La narrazione di Israel Joshua Singer è senza ombra di dubbio rispettosa nei confronti di questa complessità, ironica e drammatica, di spiccata intelligenza e profonda umanità.

 David Karnowski è un ragazzo testardo e arrogante, ma di grande intelligenza e acuto studioso dei testi sacri, come tutti i membri della sua famiglia. Vive in un piccolo villaggio della Polonia, Melnitz, ed entra ben presto in conflitto con la sua comunità religiosa. David considera il chassidismo una religione popolana, oscurantista e superstiziosa. Un Shabbat, durante la lettura della Torah, David entra in aperto conflitto con il rabbino della sua sinagoga, sostenendo addirittura che il profeta Isaia era un anti chassidico. Di fronte a questa eresia tutta la comunità si indigna. David è uno studioso del grande filosofo Moses Mendelssohn, padre dell’Illuminismo ebraico, che i poveri ignoranti di Melnitz non possono comprendere. Decide di trasferirsi a Berlino, la città del suo grande maestro. David da allora comincerà a parlare solo tedesco, avrà una totale repulsione per la lingua yiddish, rifiuterà completamente la sua cultura di provenienza, integrandosi perfettamente nella comunità ebraica berlinese, costituita da brillanti studiosi, aristocratici che guardano con disprezzo gli immigrati ebrei provenienti dalla Polonia o dalla Russia, con le loro lunghe barbe, il loro spirito di patata grossolano, il modo spregiudicato di fare affari. Il Dio di David è un dio tedesco, la sua lingua madre è il tedesco. Diversa è la condizione di sua moglie, Leah, legata alle sue origini, che non riuscirà mai ad adattarsi alla società berlinese: il suo Dio è un buon padre di famiglia polacco, la sua lingua è l’yiddish, la sua identità è quella tramandatale dalla sua famiglia. Berlino è una città estranea, il tedesco una lingua dura e inaccessibile. Ma suo marito non è disposto a comprendere questi sentimentalismi, e si ostina a parlare con lei il tedesco persino durante l’amore!

Georg, figlio di David, della Torah non vuole saperne proprio nulla. Sbadiglia durante le lezioni tenute da un noioso precettore che il padre gli ha imposto. Georg vuole soltanto bighellonare, si iscrive svogliatamente alla facoltà di filosofia, passa le sue serate a tracannare birra nella taverne e a sedurre le cameriere, sperperando il denaro del padre. È forte e affascinante, di lui si innamora Rebecca, figlia di Solomon Burak, un ebreo di Melnitz emigrato in Germania per fare fortuna, uno di quei volgari commercianti che David disprezza. Georg non vuole saperne di questa dolce e materna ragazza: Solomon Burak andrà ad umiliarsi da David per convincerlo a combinare un matrimonio, ma  questi lo rifiuta con disprezzo. David e Solomon rappresentano due ebraismi diversi: l’ebraismo naturalizzato dell’alta borghesia berlinese e l’ebraismo orientale del ceto mercantile, in cui tradizioni arcaiche ed esotiche si uniscono ad uno spiccato senso degli affari. È l’ebraismo volgare e popolare che David ha sin da giovane rifiutato, concentratosi a Berlino nella Dragonerstrasse. Due mondi che non si comprendono e che saranno uniti soltanto dall’esterno, dalla semplificazione violenta operata dal nazionalsocialismo.
Nel frattempo Georg si innamora di una donna straordinaria, Elsa Landau. Figlia di un medico ebreo che si prende cura di tutto il proletariato berlinese, ricevendo come unico compenso quello che i proletari donano volontariamente. Anche Elsa segue le orme del padre e studia come medico. Georg la segue ciecamente e si iscrive a medicina per amore. Ma Elsa è una donna che rifiuta il matrimonio perché vuole lottare per la realizzazione dei suoi ideali, progetto incompatibile con la vita di una madre di famiglia: Elsa è una delle migliori studentesse della facoltà di medicina, che impartisce lezioni agli uomini, ma soprattutto, è una militante del partito comunista. Sarà questo suo impegno ad allontanarla da Georg, ma anche dal suo amato padre. Diventerà parlamentare del Reichstag, sarà incarcerata e perseguitata dai nazisti, sarà costretta a condurre la sua lotta dagli Stati Uniti. Georg è furioso per l’abbandono, detesta e ammira quella donna che non ha voluto essere sua, l’unica fra tante altre donne. Sposerà Teresa, una donna bionda e mansueta, una madre di famiglia che per suo marito sacrificherà tutto, più di quanto riesca ad immaginare.

Joachim Georg Holbeck Karnowski è il personaggio più tragico dell’intera vicenda. La sua ribellione tipicamente Karnowski si traduce in una vera e propria scissione della personalità: Jegor è ebreo e ariano insieme, nel periodo in cui il regime nazista costruisce la sua unità annientatrice nell’individuazione di un nemico esterno, che va eliminato, l’ebreo. Jegor è il frutto della propaganda nazista: è vittima dell’antisemitismo e allo stesso tempo ne è un convinto sostenitore. Il rifiuto della tradizione paterna non è un modo per costruire la propria identità, ma un disperato tentativo di cancellarla, di annientare un’identità che lo esclude, di abbracciare una nuova identità, quella ariana, per lui così vicina ma irraggiungibile. Nazista, razzista ed ebreo: questa scissione che non ammette sintesi si esprime nelle sue caratteristiche fisiche. Jegor ha gli occhi azzurri di sua madre ma la pelle scura e il naso di suo padre: quel naso adunco, orribile, mostruoso. Georg è l’ebreo di Jegor, il capro espiatorio su cui riversare tutte le sue frustrazioni e il suo disprezzo. Lo odia profondamente: Georg è mostruoso ma amato da tutte le donne – persino dalla sua angelica e ariana madre! – forte, intelligente, tutto il contrario di quello che viene descritto dalla propaganda del regime. E proprio per questo Jegor lo odia… Come osa un inferiore avere un atteggiamento così arrogante? L’adolescenza di Jegor è un percorso folle e tortuoso, tragico, di ricerca di una figura paterna che sia degna: prima l’ariano zio Holbeck, quando emigrerà in America con la sua famiglia sarà il funzionario del regime Zerbe. Antisemiti, nazisti, gente di razza superiore che dapprima sembrano prendersi cura di lui, ma che poi finiscono con il rifiutarlo in quanto ebreo. La vita di Jegor è una continua umiliazione, che il ragazzo subisce e cerca: è l’ariano che umilia e distrugge l’ebreo.

Quando la famiglia Karnowski emigrerà negli Stati Uniti, la drammatica e intensa vicenda di queste tre generazioni giungerà in qualche modo ad una sintesi. David, che si era già riconciliato con suo figlio Georg durante i primi anni delle persecuzioni, in America si riconcilia con suo Padre: con la lingua yiddish, che diventerà la sua lingua abituale, con l’umile lavoro di guardiano della sinagoga, con Solomon Burak,  al quale chiederà perdono, con la dolce e popolana religiosità dei suoi avi. Anche Jegor, dopo tormenti e umiliazioni, ritorna da suo padre: deluso dai falsi miti della razza, debole e moribondo si accascia sulle scale della casa paterna. Georg lo accoglierà con tutto l’amore di cui è capace, e si prenderà cura di quel povero figlio che aveva addossato su di sé tutto il peso della persecuzione del suo popolo, tutto l’odio che aveva pervaso l’Europa, quello violento dei carnefici, e quello che le vittime avevano dovuto subire.
Concludo questo post riportando un breve passo del romanzo, in cui l’autore mette in evidenza la molteplicità di ebraismi che popolava la Germania sin dal XIX secolo e come queste molteplicità vivessero nell’incomunicabilità, nella mancanza di solidarietà e persino nell’aperta conflittualità. L’idea che a mio avviso Singer cerca di comunicare ai suoi lettori è che l’Ebreo non esiste: non esiste un unico popolo compatto, portatore di un identità granitica. Questa identità è stata costruita dall’esterno, è frutto della propaganda, del mito della razza.
Al grido nazista “Quando il sangue ebraico zampilla dal coltello, allora tutto va di nuovo bene, così bene”, gli ebrei delle diverse comunità si chiedono quale sia il sangue ebraico che deve essere versato:

Da parte sua neppure David Karnowski credeva di poter essere davvero perseguitato in una nazione in cui aveva vissuto e prosperato per così tanti anni. Non aveva forse mandato il suo unico figlio al fronte? Negli affari non era così onesto e corretto che tutti i tedeschi cristiani con cui trattava tessevano le sue lodi? Inoltre, si era sforzato di apprendere la lingua e i costumi della nazione in cui viveva e di liberarsi di ogni traccia delle sue origini orientali. Se vi era davvero un pericolo, riguardava coloro che erano emigrati nel dopoguerra e si erano stabiliti sulla Dragonerstrasse. Nonostante provasse compassione per loro in quel frangente, David Karnowski nutriva anche un rancore segreto verso gli ebrei dello Scheunenviertel. Erano troppo disonesti, avevano approfittato dell’inflazione per acquistare immobili a cifre irrisorie e in genere avevano un modo di fare losco e subdolo. Segretamente provava anche una certa repulsione per i numerosi ebrei con le palandrane e i lunghi riccioli alle orecchie che si erano infiltrati in città – sedicenti ecclesiastici di ogni tipo che urtavano la sua sensibilità quando gli capitava di incrociarli in tram e in metropolitana. Alcuni di loro si erano spinti a fare la questua anche nella parte occidentale della città. Con il loro aspetto esotico e le maniere esecrabili non rendevano certo onore alla comunità ebraica di Berlino. Lui stesso non poteva sopportare i loro modi. C’era da meravigliarsi che suscitassero risentimento tra i gentili?



venerdì 2 settembre 2016

Tracce di poesia - Paul Éluard

Il Primo Manifesto del Surrealismo, del 1924, proclama l'allontanamento da qualsivoglia forma di realismo e razionalità: l'arte è il luogo in cui il vero e l'immaginario si incontrano, in una dimensione distorta che riesce ad illuminare la parte più recondita della nostra mente. L'inconscio è il filo rosso attraverso cui si snoda l'investigare della coscienza, la possibilità di andare finalmente oltre le "realtà sommarie" e di approfondire l'abisso interminabile dell'immaginazione, onnipotente trasmettitore di informazioni. Nel Manifesto André Breton scrive: 

«Il sogno si trova così ridotto a una parentesi, come la notte. E come questa, in generale, non porta consiglio. [...] E poiché non è affatto provato che "la realtà" che mi occupa sussista allo stato di sogno, che non precipiti nell'immemorabile, perché non concedere al sogno ciò che a volte rifiuto alla realtà, ossia quel valore di certezza in sé che, per il tempo che dura, non è esposta alla mia sconfessione? Perché non mi aspetterei dall'inizio del sogno più di quanto non aspetti da un grado di coscienza sempre più elevato? Il sogno non può essere anch'esso applicato alla soluzione dei problemi fondamentali della vita?»

Ecco che viene a crearsi un linguaggio assolutamente lontano da quello stereotipato della tradizione e, con esso, un mondo nuovo, sintesi perfetta tra il reale e l'irreale: il surreale, la verità che nasce non dalle inconciliabili opposizioni, ma dalle antitetiche compenetrazioni. 
La prima scena di Un chien andalou, film manifesto girato da Luis Bunuel (anche sceneggiatore assieme a Salvador Dalì) nel 1929, si presenta proprio come la rappresentazione visiva di un intento: il regista invita lo spettatore a sbarazzarsi delle proprie abitudini epistemologiche, lasciandosi abbandonare al flusso di quel impossibile-possibile che non è più licenziato come indegna rappresentazione, ma è valorizzato e innalzato a terza realtà altra e amalgamante. 


Un chien andalou, regia di Luis Bunuel (1929)


La scrittura è intesa come "automatismo psichico": parole e immagini si impongono spontaneamente con la veemenza dell'inconscio. La poesia parla per immagini non del tutto afferrabili perché associate, come in sogno, a parole talvolta slegate, quasi inopportune. È la forza dell'inconscio, la genesi di un pensiero decifrabile soltanto attraverso l'empirica sensazione che esso provoca.

Oggi la luce unica
Oggi l'infanzia intera
Mutando vita in luce
Non passato non domani
Oggi sogno di notte
Al gran sole ogni cosa si libera
Oggi io sono per sempre

È in questo contesto che si colloca il poeta Paul Éluard, pseudonimo di Eugène-Emile-Paul Grindel. 

Egli nasce nel 1895 e nel 1923, dopo una parentesi Dada, aderisce attivamente al Surrealismo dell'amico Breton, con cui nel '33 firma diversi appelli in Francia contro gli imminenti pericoli che la presa al potere di Hitler in Germania avrebbe presumibilmente comportato. L'amicizia con Breton, però, è destinata a durare poco: mentre Breton si avvicina a Trockij, Eluard si avvicina ai comunisti. Durante la seconda guerra mondiale, Éluard si mobilita come sottotenente e, dopo la firma dell'armistizio nel '40, rientra a Parigi, dove poi si iscrive al partito comunista, che lavora in maniera clandestina. In questi anni scrive con lo pseudonimo di Jean du Haut, fonda il Comitato nazionale degli scrittori e pubblica Domaine français, antologia che raccoglie scritti di artisti non collaborazionisti. Se nella prima parte della propria produzione, egli scrive principalmente del tema dell'amore e parla del legame amoroso come l'unica chance per esistere nel mondo come uomo libero dal groviglio della solitudine, nella seconda parte di essa, che coincide con l'aumentare dell'interesse politico, i temi diventano la libertà, la giustizia, la pace. Ma, in fondo, l'amore di cui parla Éluard è da intendere, più in generale, come il rapporto con l'altro (e non solo l'altro-da-amare): come scriveva il buon vecchio Sartre, l'altro è ciò che mi fa esistere puntando il suo sguardo verso di me e facendomi altro-guardato. L'altro è condicio sine qua non per la mia esistenza nel mondo: mi sento parte del mondo solo quando un altro mi guarda. È in quel momento che esisto e mi rendo conto della pregnanza della mia esistenza in quanto uomo. 
Éluard scrive:

Non verremo alla meta ad uno ad uno,
ma a due a due. Se ci conosceremo
a due a due, noi ci conosceremo
tutti, noi ci ameremo tutti e i figli
un giorno rideranno
della leggenda nera dove un uomo
lacrima in solitudine.

La poesia diventa lo specchio del poeta, che deve immortalare le incongruenti libere associazioni dell'inconscio come in una fotografia. L'arte, in generale, è ciò grazie a cui si può indagare il dionisiaco: la vita non è fatta di minuzie logiche, ma di caos pungente, un non-detto sotteso eppur così vivido e presente. Ne Il lavoro del poeta, Éluard scrive:

Che siete venuto a prendere
Nella stanza familiare?

Un libro che mai nessuno apre

Che siete venuto a dire
Alla donna indiscreta?

Quel che non può ripetersi

Che siete venuto a vedere 
In quel luogo in vista?

Quello che i ciechi vedono

Dopo la liberazione di Parigi (25 agosto 1944), riprende a pubblicare con il primo pseudonimo. Gli anni successivi sono ricchi di viaggi di impegno letterario e politico, vari i suoi interventi sul valore della democrazia. Nel 1951 si reca a Praga in occasione di una mostra dedicata a Majakovskij. La morte sopraggiunge nel 1952 a seguito di un violento attacco cardiaco. 



Su quaderni di scolaro
Su i miei banchi e gli alberi
Su la sabbia su la neve
Scrivo il tuo nome

Su ogni pagina che ho letto
Su ogni pagina che è bianca
Sasso sangue carta o cenere
Scrivo il tuo nome

Su le immagini dorate
Su le armi dei guerrieri
Su la corona dei re
Scrivo il tuo nome

Su la giungla ed il deserto
Su i nidi su le ginestre
Su la eco dell'infanzia
Scrivo il tuo nome
Su i miracoli notturni
Sul pan bianco dei miei giorni
Le stagioni fidanzate
Scrivo il tuo nome

Su tutti i miei lembi d'azzurro
Su lo stagno sole sfatto
E sul lago luna viva
Scrivo il tuo nome

Su le piane e l'orizzonte
Su le ali degli uccelli
E il mulino delle ombre
Scrivo il tuo nome

Su ogni alito di aurora
Su le onde su le barche
Su la montagna demente
Scrivo il tuo nome

Su la schiuma delle nuvole
Su i sudori d'uragano
Su la pioggia spessa e smorta
Scrivo il tuo nome

Su le forme scintillanti
Le campane dei colori
Su la verità fisica
Scrivo il tuo nome

Su i sentieri risvegliati
Su le strade dispiegate
Su le piazze che dilagano
Scrivo il tuo nome

Sopra il lume che s'accende
Sopra il lume che si spegne
Su le mie case raccolte
Scrivo il tuo nome

Sopra il frutto schiuso in due
Dello specchio e della stanza
Sul mio letto guscio vuoto
Scrivo il tuo nome

Sul mio cane ghiotto e tenero
Su le sue orecchie dritte
Su la sua zampa maldestra
Scrivo il tuo nome

Sul decollo della soglia
Su gli oggetti familiari
Su la santa onda del fuoco
Scrivo il tuo nome

Su ogni carne consentita
Su la fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende
Scrivo il tuo nome

Sopra i vetri di stupore
Su le labbra attente
Tanto più su del silenzio
Scrivo il tuo nome

Sopra i miei rifugi infranti
Sopra i miei fari crollati
Su le mura del mio tedio
Scrivo il tuo nome

Su l'assenza che non chiede
Su la nuda solitudine

Su i gradini della morte
Scrivo il tuo nome

Sul vigore ritornato
Sul pericolo svanito
Su l'immemore speranza
Scrivo il tuo nome
E in virtù d'una Parola
Ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti

Libertà.

(traduzione di Franco Fortini)

Se volete leggere le poesie di Paul Éluard, vi consigliamo Poesie e Poesia ininterrotta, entrambi editi da Giulio Einaudi Editore. 



Curiosità: 
  • Ne La vita è altrove Milan Kundera scrive: 

    «Strane coincidenze! Jaromil, che nello stesso periodo spiava per intere giornate l'occhio piangente di Magda, conosceva molto bene il fascino della tristezza e vi si immergeva completamente. Sfogliava ancora il libro che gli aveva prestato il pittore, leggeva e rileggeva senza fine le poesie di Éluard e si lasciava rapire da alcuni versi: Aveva nella pace del suo corpo una pallina di neve del color dell'occhio; oppure: in lontananza il mare che il tuo occhio bagna; e: Buongiorno tristezza sei iscritta negli occhi che amo. Éluard divenne il poeta del placido corpo di Magda e dei suoi occhi bagnati dal mare delle lacrime; tutta la propria vita gli pareva racchiusa nella magia di un solo verso: Tristezza bel volto. Sì, era Magda: tristezza bel volto.»
  • Nel film francese Guernica (regia di Alain Resnais e Robert Hessens, 1950), l'attrice María Casares recita un poema di Paul Éluard.
  • Nel film Agente Lemmy Caution: missione Alphaville (regia di Jean-Luc Godard, 1965), il protagonista legge alcune poesie tratte da Capitale de la douleur di Paul Éluard.



da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-4575?f=a:715>


Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...