venerdì 18 ottobre 2019

Burning: la conflagrazione onirica della nuova lotta di classe - Francesco Todisco

Cortázar, nelle sue “Lezioni di letteratura”, ci spiegava quali sono le qualità caratterizzanti di un racconto, necessariamente diverse da quelle di un romanzo. Un racconto, diceva lo scrittore argentino, deve possedere tensione e intensità; se il romanzo è un poligono, più sfaccettato e pieno di angoli, allora il racconto è una sfera. Ma cosa succede quando un racconto viene adattato per il cinema? La risposta di Chang-dong Lee è semplice: bisogna sovvertire quelle regole, sospenderle, rendere elastica la materia prima del racconto per fare in modo che un ritmo e un’atmosfera tratteggiati, su carta, in poche pagine possano mantenersi vivi per la durata di un lungometraggio.
È questa la delicata operazione portata avanti dal regista sudcoreano con Burning. Decidendo infatti di adattare un racconto di Haruki Murakami, Chang-dong Lee si inserisce nella non nutritissima schiera di cineasti che si sono cimentati, spesso fallendo, con l’opera dello scrittore giapponese. Questa volta, però, a sorreggere l’adattamento c’è una brillante intuizione, forse l’unica chiave possibile per aprire al cinema le porte del mondo di Murakami: pescare a piene mani dall’universo immaginifico dello scrittore giapponese, prendere in prestito tutti i suoi topoi, le sue ossessioni, le sue immagini ricorrenti. Andare, insomma, oltre lo spazio limitato delle pagine del racconto per offrire allo spettatore un bignami della mitologia di Murakami. Ecco quindi che la storia si arricchisce di tanti piccoli elementi: non solo la donna che scompare misteriosamente, incipit di tante narrazioni murakamiane, ma anche i gatti (che scompaiono e ricompaiono), persone che raccontano di essersi perse in dei pozzi, citazioni a romanzi di Faulkner, e ovviamente tanta musica jazz. Chang-dong Lee dilata un racconto di Murakami fino a farlo diventare un romanzo vero e proprio, pieno di tutti quei punti di riferimento che i lettori dello scrittore giapponese hanno imparato a riconoscere con gli anni per meglio orientarsi all’interno della sua opera.




Ma c’è molto di più. C’è un'altra, decisiva intuizione a rendere Burning un’opera superiore al materiale di partenza: quella di spostare il racconto dal Giappone etereo e metafisico di Murakami alla Corea del Sud tangibile e spietata di Lee, dove la lotta di classe resta la tematica inevitabile da affrontare per cineasti e narratori. Il regista sudcoreano aveva già dimostrato in passato (ricordiamo in particolare lo splendido Poetry, del 2010) di saper coniugare un sommesso lirismo con un’analisi chirurgica delle problematiche socio-economiche della sua nazione. Se in Murakami lo scontro era quello tra cultura tradizionale giapponese e influenze europee e americane (esplicitate dalle infinite citazioni letterarie e musicali), in Lee invece la lotta, spesso sotterranea e invisibile, seppure terribilmente evidente nei suoi effetti, è quella tra nuovi ricchi e nuovi poveri; il vampirismo esercitato dai primi nei confronti dei secondi è la vera anima pulsante di Burning. Jongsu (un protagonista con un nome, a differenza di tanti narratori di Murakami, spesso privi di identità anagrafiche) si innamora di Haemi (una ragazza che, ancora una volta, sembra incarnare l’archetipo della figura femminile in Murakami), solo per poi vederla scomparire poco tempo dopo un viaggio in Africa durante il quale ha conosciuto Ben, un ragazzo tanto misterioso quanto affascinante. La differenza tra di due protagonisti maschili è marcatissima, e Lee decide di evidenziarla in ogni modo possibile, a partire dalle rispettive abitazioni (la casa, e ciò che la casa può dire sullo status sociale del suo proprietario, è forse il vero centro focale di tanto cinema sudcoreano recente; si veda per esempio Parasite, recente vincitore della Palma d’Oro a Cannes, dove la casa evolve da semplice ambientazione a protagonista della pellicola). Mentre Ben può sfoggiare il lusso ipermoderno e asettico della sua abitazione in centro, Jongsu vive in una zona rurale a poca distanza dal confine con la Corea del Nord, tanto da poter sentire distintamente i megafoni tramite i quali la propaganda di regime viene urlata ai cittadini sudcoreani. 
Anche con questi dettagli, Chang-dong Lee dipinge un’atmosfera di paranoia, di persecuzione: Jongsu non si sente solo diverso, ma avverte la presenza di un nemico che non riesce ad identificare. Ecco dunque che, poco tempo dopo la scomparsa di Haemi (che, nella scena più memorabile del film, balla nuda sulle soffuse note di Miles Davis, altra presenza fissa dell’immaginario murakamiano; l’intera sequenza è quasi un perfetto saggio audiovisivo su come fissare su pellicola il suono e la consistenza di una pagina di Murakami), Jongsu non può fare a meno di identificare il discutibile hobby di Ben, ovvero quello di bruciare granai abbandonati, come una metafora usata per preannunciare l’assassinio della ragazza. È qui che racconto e pellicola divergono in maniera più netta: mentre Murakami si limita alla suggestione, Lee infila un indizio dopo l’altro per portarci alla conclusione, seppure mai esplicitata in maniera diretta, che Ben si sia effettivamente macchiato del crimine. Non può che esserci una sola destinazione finale per il film; ossessionato dalla presenza fantasmatica di Haemi e dal risentimento nei confronti di Ben, Jongsu decide che il bagno di sangue è l’unica soluzione applicabile.
Burning, con i suoi movimenti di macchina molli e placidi, non si limita a mettere in scena la crescente disparità socioeconomica sudcoreana e i conflitti che essa genera, ma la problematizza: così la vittima diventa carnefice, quasi a suggerire che l’unico esito possibile di uno scontro così aspro è la distruzione, letterale o figurata, di entrambe le parti in causa. Se una buona fetta del cinema sudcoreano si muove verso questa conclusione, allora di questa conclusione Burning rappresenta l’aspetto più sottile e sotterraneo, pronto però ad esplodere in una conflagrazione improvvisa e finale. Un sogno che, in maniera subdola, si trasforma in un incubo, come nei migliori romanzi di Murakami; e di tutto il palcoscenico onirico dell’autore giapponese, la pellicola di Chang-dong Lee rappresenta la trasposizione più riuscita.


di Francesco Todisco

domenica 6 ottobre 2019

Joker: la contro-narrazione del "villain" collettivo

La storia di Joker prima di diventare Joker documenta di una costituzione soggettiva che si afferma e definisce nell'attrito doloroso con una Gotham squallida e inospitale, con un capitalismo esasperato, con la malattia mentale e il senso acuto di emarginazione e abbandono. La storia di Arthur Fleck potrebbe essere la storia di un qualsiasi «malato mentale» in balia di una società che «lo abbandona e lo tratta come immondizia». Si svolge in una Gotham sporca e trafficata, profondamente alienata, che somiglia a qualunque periferia dell'impero e che incarna come l'essenza della metropoli statunitense, occidentale, iperliberista ed intrinsecamente individualista, inospitale fino al parossismo. In questa storia, il villain non viene fuori, con le sue crudeltà e manie, dalla solita mera storia di abusi e sofferenze infantili, il cattivo non è soltanto prodotto dal suo proprio dramma individuale, che spezza le sue possibilità di innocenza ed empatia verso gli altri. La genesi percorsa dal Joker di Phillips è questo ma è anche molto altro: il criminale è il prodotto di un tessuto sociale malato, dell'assenza di welfare, dell'insufficienza di servizi sociali ed istituzioni, dell'instabilità lavorativa ed economica, della miseria dei ghetti verticali all'ombra dei grattacieli della finanza e dello squallore delle metropolitane sporche e vandalizzate.
Il Joker di Phillips è una contro-narrazione coraggiosa e intelligente dell'eziologia del villain egocentrico, crudele perché pazzo e viceversa. È una risposta potentissima al Batman de Il cavaliere oscuro, che durante un caricaturale "interrogatorio" sibila al Joker interpretato da Heath Ledger: «Tu sei spazzatura».
Questa attribuzione manichea di ruoli e dignità (eroe contro "spazzatura" umana, cattivo, residuo della società) è spesso rovesciata e problematizzata dal cinema, ma il Joker di Phillips contesta tale attribuzione con strumenti non meramente drammatici e patetici, ma sociali e sociologici, culturali, politici, economici. Il dramma personale dell'antieroe si apre, per la prima volta con questa intensità, ad una dimensione costitutivamente collettiva e sociale, che demistifica la retorica del villain oscuro ma affascinante e mostra le viscere di una società malata che sull'esclusione dei suoi elementi più fragili e bisognosi edifica l'ipocrita esaltazione di «quelli che hanno realizzato qualcosa nella vita», nelle parole del milionario Thomas Wayne. Nelle sue dichiarazioni compiaciute vediamo l'antagonismo sociale ridotto a "invidia" dei poveri nei confronti dei ricchi, il cui capriccio e abuso è sancito da una sorta di legittimità naturale, radicata nella loro superiorità pratica e morale rispetto alle classi subalterne.



La retorica autocelebrativa di Thomas Wayne e della sua classe, che è poi la tradizionale retorica neoliberista, è demistificata da Phillips, che mostra il milionario e candidato sindaco di Gotham come un uomo arrogante e ingeneroso, che abusa della propria ricchezza e del proprio potere, destinando cinicamente la sua dipendente Penny Fleck, madre del futuro Joker, alla malattia mentale, all'ingiustizia, alla miseria anche sociale ed economica, oltre che umana e relazionale, che si colloca alla radice di molto del male a venire. Penny Fleck è vittima in quanto donna e in quanto povera, soggetta allo strapotere di Wayne come suo datore di lavoro e come uomo, e da questa ingiustizia plurima e socialmente stratificata non c'è alcuna difesa realistica. Allo stesso modo, i tre giovani ricchi che Arthur Fleck incontra in metropolitana molestano una giovane donna e brutalizzano lo stesso Arthur, in uno sfoggio crudele di come a un ricco tutto sia lecito che rende impossibile simpatizzare con loro. La potenza e l'originalità della pellicola di Phillips non risiede solo in questa narrazione da un punto di vista non tradizionale (quello del cattivo, del povero, del malato di mente), ma nella saldatura di questo punto di vista, strettamente soggettivo, sul malessere di una società impoverita e abbrutita, di una popolazione di lavoratori ed emarginati che simpatizza con i crimini di Joker, che lo difende dall'intromissione normalizzante della polizia, che manifesta fuori dal teatro durante una serata di beneficenza: dentro, alta società, donne con collane di perle e uomini con il frac, fuori, poveri che indossano maschere di clown e si offrono alla repressione dell'autorità, con la forza disperata di chi non ha molto da perdere, ma frustrazioni e ingiustizie stratificate da generazioni che aspettavano un portavoce, un catalizzatore, un antieroe diverso da qualunque altro, perché dopo un breve attimo di protagonismo e celebrità, subito si scioglie e si confonde nella folla anonima.
Le ambizioni del giovane Arthur Fleck, i suoi sogni di diventare un comico e perfino quello, tenero e desolante, di ricevere l'affetto e la stima del presentatore Murray (interpretato da Robert De Niro, icona di una televisione-spettacolo fondata sull'umiliazione e la denigrazione di chi "non riesce", antenata dei talent in cui si ridicolizzano senza pietà i "casi umani" in cerca di visibilità e attestazioni di simpatia) sono frustrate da un ambiente di lavoro difficile, claustrofobico e sterile, e possono solo sublimarsi in una nuova concezione della vita (da "tragedia" a "commedia"), capace di assumere fallimenti ed infelicità come inevitabili e insuperabili, non imputabili alle proprie incapacità individuali ma ad un complesso tessuto di difficoltà soggettive e oggettive dalle quali, imprigionati nella propria solitudine, non si può sfuggire. Qui si consuma la trasformazione Arthur-Joker, suggellata dalla sua danza sulle scale, braccato dagli investigatori e diretto ad uno show che sancirà la sua assunzione di posizione pubblica, contro la società, contro la televisione, contro quel Batman (l'eroe il cui superpotere è il mero denaro) che è ancora lontano, è e resterà fuori dalla pellicola, ma che allo spettatore suscita già un po' di antipatia.
Il merito più alto di Phillips, oltre alla sua sorprendente ed esaltante capacità estetica, è forse quello di avere declinato tematiche intelligenti (e intelligentemente espresse) in un film destinato dal proprio genere alla massima popolarità, senza cedere alla superficialità del film da botteghino né alle velleità intellettualoidi del film a tesi.
Le atmosfere metropolitane di Phillips sono cupe e angoscianti, il commento luminoso, fotografico e musicale alle miserie urbane del nostro tempo è perfetto. Ogni codice estetico, visivo, sonoro ed espressivo è calibrato con grande perizia (dalle voci cupe degli archi che corredano lo squallore urbanistico di Gotham, deserta benché affollatissima, all'interpretazione di Joaquin Phoenix che si inserisce solidamente, e giustamente, nella storia del cinema). Joker è un caso rarissimo nel cinema del genere, è una grande storia e soprattutto un grande spettacolo.
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