domenica 28 luglio 2013

"La figlia del capitano" di Aleksandr Sergeevič Puškin

Nel 1833, Puškin dà alle stampe una delle sue opere più riuscite e celebri, l'"Evgenij Onegin". Fatto questo, si sposta negli Urali per dedicarsi a ricerche accurate: ha infatti in cantiere due opere che compongono quasi
un distico e lanciano l'una uno sguardo frontale e l'altra uno sguardo in tralice all'insurrezione cosacca guidata da Emel'jan Ivanovič Pugačëv e terminata con l'uccisione del ribelle nel 1775.
"La storia di Pugačëv" e "La figlia del capitano" si integrano a vicenda: il secondo contiene continui rimandi impliciti al primo, molto più didascalico ed informativo. "La figlia del capitano" non aspira ad avere, né di fatto ha, un peculiare valore storiografico: in esso, la Storia è un personaggio come gli altri, solo più potente e impersonale, complesso e corale, capace di travolgere e dirigere i destini individuali dei protagonisti.
Il giovanissimo Pëtr Grinëv, raggiunta l'età per l'ingresso nel reggimento Semënovškij cui è destinato dalla nascita (dati i suoi nobili natali), spera di essere inviato a Pietroburgo. Suo padre ritiene però che il ragazzo sia troppo svagato e bighellone, carente di disciplina e rigore, e decide di educarlo e mitigare le sue pecche arruolandolo invece in un secondo reggimento di stanza presso la fortezza Belogorskaja, un postaccio sperduto nelle vastità della steppa russa. A dispetto delle sue aspettative e nonostante i suoi capricci, Pëtr si ritrova spedito come un pacco attraverso banchi di nebbia e bufere di neve, in compagnia del fedele e un po' opprimente servitore Savel'ič. Solo grazie all'incontro con un viandante che conosce il posto, i due riescono a uscire indenni da una tormenta e ad approdare ad una taverna. Il viaggiatore solitario è intraprendente e sfacciato, molto accattivante, e Pëtr decide di sdebitarsi per l'aiuto ricevuto regalando allo sconosciuto il proprio pellicciotto di lepre in difesa delle temperature molto rigide. Savel'ič cerca di dissuadere il suo batjuška e infine commenta acidamente:

«Un pellicciotto di lepre quasi nuovo! L'avesse poi dato a chiunque altro, ma a un ubriacone impenitente!»

Pëtr e il suo servitore proseguono poi per la loro strada, raggiungendo la fortezza Belogorskaja che dista quaranta verste da Orenburg (che sarà a sua volta scenario nelle ultime fasi della storia). Una volta arrivato, il ragazzo conosce il capitano e sua figlia Mar'ja Ivanovna, che dapprima non lo colpisce affatto; inoltre, un altro giovane di cui Pëtr diventa amico, Švabrin, gli descrive «Maša, la figlia del Capitano, come una perfetta stupidella». Solo in seguito il ragazzo smette di rimpiangere i suoi progetti sfumati sulla movida di Pietroburgo e si innamora della fortezza Belogorskaja, che gli diventa familiare, di pari passo col suo innamorarsi di Maša. Si tratta di un innamoramento cristallino e ricambiato, quasi da fiaba, che Pëtr riassume con una lirica dolciastra e vagamente dolce-stilnovistica, che Švabrin etichetta lapidariamente come «brutta», scatenando un putiferio che si conclude con un duello tra i due amici. La poesiola di Pëtr non è che il pretesto che fa emergere ragioni più profonde di discordia: Švabrin infatti è uno spasimante respinto da Maša e di lei ancora invaghito.
Mentre i ragazzi si dedicano a queste amene scaramucce, sullo sfondo si dipana l'insurrezione dei cosacchi e gli scontri tra ribelli ed esercito zarista insanguinano la steppa e gli insediamenti umani. Quando Pugačëv attacca e prende la fortezza Belogorskaja, il giovane Pëtr combatte con valore, viene sconfitto ed è pronto ad essere giustiziato con i suoi commilitoni. Solo allora, nello stupore generale, lui e Savel'ič riconoscono nel pretendente al trono, il ribelle e sanguinario Pugačëv, lo sfacciato viandante che li trasse dalla bufera. Pëtr viene risparmiato in segno di riconoscenza e amicizia, ma di fronte alla proposta di passare dalla parte dei ribelli, il giovane si dichiara pronto a essere ucciso ma determinato a mantenere il suo impegno in difesa della zarina, nonostante l'amicizia che lo lega al capo dei Cosacchi.
Con l'avanzare dei capitoli, la storia sentimentale di Pëtr prende una piega e un carattere sempre più adulti, sempre più profondamente intrecciati alle vicende storiche e ai giochi bellici e di potere. Il metro di azioni e atteggiamenti diventa sempre più marcatamente quello dell'onore, su cui peraltro Puškin focalizza l'attenzione fin dall'esergo che cita il proverbio: «Abbi riguardo dell'onore fin da giovane».

"La figlia del capitano", come lo stesso Puškin, occupa una posizione ambigua o almeno difficile da localizzare esattamente nella forbice rivoluzione-conservatorismo. A prima vista, la storia di Pëtr sembra un elogio dello status quo, un'esaltazione della triade tradizionale di Dio-Patria-Re. La morale della storia si raggrumerebbe dunque nell'uccisione di Pugačëv e del ruolo salvifico della zarina Caterina che, in chiusura del romanzo, aiuta i protagonisti a conseguire il lieto fine nonostante mille avversità. Eppure, non si può etichettare Puškin come un reazionario se non al costo di un appiattimento della sua poetica al limite del falso storico.
Fin dalla giovane età, già nel 1819, Puškin entrò infatti a far parte della Lampada Verde, una società progressista il cui fine dichiarato era quello di diffondere le idee illuministe. Proprio la partecipazione alle attività di questa società guadagnò a Puškin le antipatie dello zar Alessandro, che decise di spedirlo a redimersi in Siberia. Anche il nuovo zar, Nicola I, preferì controllare l'attività del poeta, permettendogli di soggiornare a Mosca ma imponendosi personalmente come suo censore.
Le tendenze rivoluzionarie di Puškin, innegabili benché forse un po' fiacche, non tentarono naturalmente solo lo sbocco artistico (che pure fu preponderante): il poeta simpatizzò con i decabristi, il cui moto fu un preludio molto moderato, appena progressista, alla ben più radicale e ancora lontana Rivoluzione d'Ottobre.
Puškin simpatizzava con i ribelli, fraternizzava con illuministi e decabristi, presentava Pugačëv non come un eroe ma neppure come un usurpatore, ce ne restituiva (anche ne "La figlia del capitano") un'immagine molto umana ed evidentemente simpatica. Eppure, Aleksandr Sergeevič Puškin è lo stesso poeta che nel "Boris Godunov" del 1825 ci mostra il potere come un blocco monolitico che non ammette incrinature né opposizione dialettica, come una forza pervasiva e irresistibile, e a sigillare questa presa di posizione è la scena finale dell'opera che ritrae un popolo ammutolito e annichilito.
Dov'è l'equilibrio? Dove collocare Puškin, in un placido conservatorismo, in un'ipocrita messinscena di progressismo, in un illuminismo impotente e poco convinto?
Forse è giusta, sicuramente è acuta, la soluzione tentata da Mauro Martini nella prefazione a "La figlia del capitano" nell'edizione della Newton Compton: sia Pugačëv che Caterina ricoprono il ruolo di aiutanti dei protagonisti; sono entrambi simpatici e amichevoli, utili e benigni, ma solo fintanto che si presentano al lettore
e agli altri personaggi sotto mentite spoglie, liberi dai loro incarichi istituzionali. Allora, forse, è questo il senso che Puškin voleva dare attraverso la sua opera: ogni potere, tanto quelli costituiti ed ereditari quanto quelli sorti dal basso attraverso moti e rivolte, è destinato ad una deriva istituzionale che finirà con l'alterarne la natura eventualmente benigna. Il potere nelle mani del popolo finirà per distorcersi fino ad assomigliare al potere precedente che si cercava di rovesciare.
Forse si spiega così l'atteggiamento di Puškin, e il suo ambiguo moderatismo, il suo spiccato non-sovvertivismo vanno letti in una chiave di disincanto e disillusione, per cui l'unico spazio vivibile resta quello degli "interstizi dei poteri contrapposti", e al poeta non resta che astrarsi dalla lotta politica per coltivare gli ideali al sicuro dello studio, in un disinteressato e profondamente amareggiato disimpegno.

De "La figlia del capitano" sono state realizzate numerose trasposizioni cinematografiche. Segnaliamo quella del 1947, diretta da Mario Camerini, che tra i suoi sceneggiatori annovera niente meno che il grande Mario Monicelli.

venerdì 19 luglio 2013

"Palomar" di Italo Calvino

Calarsi nella lettura di questa raccolta di racconti, è come tessere assieme all'autore la trama di una lunga riflessione intorno alla verità come frutto di interpretazione. Perché di questo si parla: interpretazione come disvelamento, come incomprensibilità linguistica e ontologica, come ricerca di un significato latente. 
Il protagonista di tutti i racconti, Palomar, non è un uomo loquace. Assenza di parole, però, non è da intendere come sterilità intellettuale: egli si rifugia in un mondo tutto suo, un mondo che ai rapporti interpersonali sostituisce la domanda sul senso che le cose, nel loro apparire, sottintendono. 

«Un silenzio, in apparenza uguale a un altro silenzio, potrebbe esprimere cento intenzioni diverse; anche un fischio, d'altronde, parlarsi tacendo, o fischiando, è sempre possibile; il problema è capirsi. Oppure nessuno può capire nessuno [...]»

È un affanno maniacale quello che lo accompagna nelle quotidiane osservazioni e speculazioni: la classificabilità di un filo d'erba, la coesione di movimenti simultanei negli sbalzi delle onde, l'incertezza dello sguardo di fronte ad una bagnante col seno scoperto diventano occasioni per ripensare le connessioni tra l'io e il mondo, tra una presunta oggettività e una invalicabile soggettività, tra una realtà inemendabile e una irrealtà incerta. La portata di questo viaggio esistenziale e intellettuale è il dissidio tra un'ontologia schiacciante e una ermeneutica scomoda, ma necessaria. «Non interpretare è impossibile, come è impossibile trattenersi dal pensare.»

«Il riflesso sul mare si forma quando il sole s'abbassa: dall'orizzonte una macchia abbagliante si spinge fino alla costa, fatta di tanti luccichii che ondeggiano; tra luccichio e luccichio, l'azzurro opaco del mare incupisce la sua rete. Le barche bianche controluce si fanno nere, perdono consistenza ed estensione, come consumate da quella picchiettatura risplendente. È l'ora in cui il signor Palomar, uomo tardivo, fa la sua nuotata serale. Entra in acqua, si stacca dalla riva, e il riflesso del sole diventa una spada scintillante nell'acqua che dall'orizzonte s'allunga fino a lui. [...] la spada esiste solo perché lui è lì; se lui se ne andasse, se tutti i bagnanti e i natanti tornassero a riva, o solo voltassero le spalle al sole, dove finirebbe la spada?»


Palomar è, dunque, un osservatore attento: miope, si concentra sui dettagli chiaramente distinguibili da vicino. «È come un palombaro che s'immerge nella superficie». «Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, - conclude, - ci si può spingere a cercare quel che c'è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile.»

Irriducibilità delle interpretazioni, quindi, ma anche progresso in negativo verso una non-verità: le porte che il signor Palomar apre sono porte che rimangono aperte, l'una dietro l'altra, senza una fine. 
Questa capacità dello sguardo è ciò che forma il protagonista non solo nella sua essenza, ma forse anche nel nome, riconducibile all'osservatore astronomico di Mount Palomar, negli Stati Uniti. Sono in molti a pensare che Palomar sia, in realtà, l'alter ego di Calvino. 


«Ma come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l'io? Di chi sono gli occhi che guardano? Di solito si pensa che l'io sia uno che sta affacciato ai propri occhi come al davanzale d'una finestra e guarda il mondo che si distende in tutta la sua vastità lì davanti a lui. Dunque: c'è una finestra che s'affaccia sul mondo. Di là c'è il mondo; e di qua? Sempre il mondo: cos'altro volete che ci sia? Con un piccolo sforzo di concentrazione Palomar riesce a spostare il mondo da lì davanti e a sistemarlo affacciato al davanzale. Allora, fuori dalla finestra, cosa rimane? Il mondo anche lì, che per l'occasione s'è sdoppiato in mondo che guarda e mondo che è guardato. E lui, detto anche «io», cioè il signor Palomar? Non è anche lui un pezzo di mondo che sta guardando un altro pezzo di mondo? Oppure, dato che c'è mondo di qua e mondo di là della finestra, forse l'io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo. Per guardare se stesso il mondo ha bisogno degli occhi (e degli occhiali) del signor Palomar.»

Se la lettura procede spedita è grazie allo stile indistinguibile dello scrittore, uno stile chiaro (specie nei capitoli con riferimenti puntuali all'astronomia), ma avvincente. La raccolta sembra essere un'amalgama di tutte quelle doti che hanno reso Calvino un esempio per la letteratura successiva. Si tratta di eleganza, cultura, originalità, precisione, eclettismo mai arbitrario.
Ulteriori informazioni sul libro ci vengono fornite da Italo Calvino in persona, in una nota esplicativa: ogni cifra che numera i titoli dell'indice non è semplicemente utilizzata per una questione di ordine, ma corrisponde a una area tematica. Con le parole dello scrittore: 


«Le cifre 1, 2, 3, che numerano i titoli dell'indice, siano esse in prima, seconda o terza posizione, non hanno solo un valore ordinale ma corrispondono a tre aree tematiche, a tre tipi di esperienze e di interrogazione che, proporzionati in varia misura, sono presenti in ogni parte del libro.
Gli 1 corrispondono generalmente a un'esperienza visiva, che ha quasi sempre per oggetto forme della natura: il testo tende a configurarsi come una descrizione.
Nei 2 sono presenti elementi antropologici, culturali in senso lato, e l'esperienza coinvolge, oltre ai dati visivi, anche il linguaggio, i significati, i simboli. Il testo tende a svilupparsi in un racconto.
I 3 rendono conto di esperienze di tipo più speculativo, riguardanti il cosmo, il tempo, l'infinito, i rapporti tra l'io e il mondo, le dimensioni della mente. Dall'ambito della descrizione e del racconto si passa a quello della meditazione.
»

martedì 16 luglio 2013

"Il cavallino di fuoco" di Vladimir Vladimirovič Majakovskij

«Il bambino 
chiede al padre:
"Vorrei tanto un bel cavallo,
ho deciso che da grande
vorrò esser cavaliere.
E per questo a cavalcare
voglio adesso incominciare".
Anche il babbo si è convinto
e decidono
di andare
un cavallo
a comperare.
Colmi sono gli scaffali 
d'ogni sorta di balocchi;
nel negozio invece
ahimé
di cavalli non ce n'è!
Cosa dire?
Cosa fare?
Sì... dal maestro si può andare
che i cavalli sa approntare.»


Il cavallino di fuoco è una delle opere minori e meno conosciute di Majakovskij. Si tratta di un poemetto composto nel 1918, in forma di filastrocca, e apparentemente rivolto ad un pubblico infantile. Della tradizionale lirica infantile, infatti, Il cavallino di fuoco ha tutte le caratteristiche: la storia semplicissima, il protagonista bambino, la rima e soprattutto lo schema per cui ai personaggi iniziali se ne aggiunge sempre uno ulteriore (schema davvero caratteristico della letteratura per l'infanzia, come delle canzoni: basti pensare alla fiaba della gallina dalle uova d'oro, oppure alla canzone La fiera dell'est).
Chiunque conosca Majakovskij può però facilmente immaginare che Il cavallino di fuoco non è una filastrocca così innocente. Fin dai primi versi, infatti, il lettore è calato in un contesto preciso: un bambino (sicuramente non figlio di proletario) espone un capriccio al padre, che ha la possibilità e il piacere di assecondarlo.
Vediamo allora il bambino e il compiacente genitore recarsi in un negozio di giocattoli, dove il cavallino non si trova. Si richiede allora l'operato di un artigiano che realizzi il giocattolo: uno dopo l'altro vengono coinvolti (e si uniscono al gruppo) diversi lavoratori, dal falegname al fabbro al pittore, dal momento che il lavoro di uno solo di essi non è sufficiente. Infatti, l'operaio della cartiera può offrire il cartone per l'ossatura del cavallino, ma i chiodi dovrà metterli il fabbro; allo stesso modo, bisogna rivolgersi ad un falegname per avere le ruote di legno, mentre un altro artigiano deve offrire dei ciuffi per realizzare coda e criniera, e il pittore è il solo che può completare l'opera dipingendo il cavallino di colori sgargianti.
Il tema centrale del poemetto si affaccia allora con prepotenza: la funzione e il valore del lavoro tecnico e manuale, verso cui Majakovskij nutriva profondo rispetto e al quale dedicò numerosi componimenti e versi (Il poeta è un operaio, ad esempio, oltre ai mille e sparsi riferimenti al carbone e alla nafta di Baku). L'opera del tecnico non è inferiore né superiore a quella dell'intellettuale: sono entrambi ingranaggi fondamentali, senza i quali la grande macchina del sociale si fermerebbe. Allora, tra significato letterale e metafora, leggiamo: 


«Cavalcare: 
una parola!
Non si corre senza ruote.
Vi provvede il falegname
con prontezza e precisione.
Svelto e alacre in un minuto,
taglia, pialla,
sega, lima...
e le ruote eccole qua.»

Il retroterra marxista di Majakovskij emerge con chiarezza dalla contrapposizione tra la classe di appartenenza del piccolo protagonista (evidentemente borghese) e quella dei diversi lavoratori, così come dalla nobilitazione del lavoro in quanto tale. Ma Il cavallino di fuoco ha una morale più specifica: l'obiettivo sarà conseguito (cioè il cavallino bramato dal bimbo realizzato) solo a patto che tutti i diversi artigiani collaborino.
Qui emergono l'acutezza di Majakovskij e il suo sarcasmo, sempre in agguato, anche dietro i componimenti più innocenti (sullo stesso registro simil-infantile sono state composte Amore nella marina militare e Fiaba su un Cappuccetto Rosso, mentre esplicitamente rivolta all'infanzia e fortemente ideologica è la Fiaba su Petja, bimbo grassone, e Sima che invece è come un chiodo del 1925). Il vero significato de Il cavallino di fuoco è lampante anche per il lettore disattento: né più né meno che "lavoratori di tutto il mondo unitevi!" (o, più "laicamente", l'unione fa la forza).


«Per nessuno c'è più tregua,
la giornata è laboriosa
col migliore materiale
costruito è l'animale.
Tutti insieme in gran daffare
incollando e ritagliando
or preparan zampe e dorso
or gli mettono un gran morso.»

Come scriveva Majakovskij in una bellissima lirica:


«L'arma nostra
è la solidarietà di uomini
diversi per lingua,
ma
uguali per classe.» 

Anche nel Cavallino, l'arma-strumento indispensabile per conseguire la vittoria è la stessa. Benché stilisticamente e artisticamente subordinata ad altre opere maggiori e più famose, Il cavallino di fuoco è una perfetta sintesi dell'opera di Majakovskij nel senso che in esso riconosciamo tutte le sue costanti: il fine pedagogico ed educativo della poesia, innanzitutto; la celebrazione della classe operaia; la speranza (se non la certezza) di un trionfo conseguibile attraverso gli sforzi congiunti. Il cavallino di fuoco desiderato dal bambino è il simbolo di un qualunque obiettivo, destinato ad essere mancato dal singolo ma raggiungibile dal collettivo. E di qui il lieto fine, quando il gruppo degli artigiani contempla il giocattolo ultimato:


«Trotta innanzi,
trotta indietro: 
com'è ardente il suo galoppo!»


Il falegname, il pittore, il fabbro e gli altri veri protagonisti
de "Il cavallino di fuoco" nella splendida edizione
illustrata da Flavio Costantini.

giovedì 4 luglio 2013

"Misery" di Stephen King

«In un libro tutto si sarebbe svolto secondo i piani... ma la vita è sempre così fottutamente caotica! Che dire di un'esistenza in cui alcune delle conversazioni più delicate trovano il modo di svolgersi proprio quando tu hai un pazzesco bisogno di correre al cesso? Un'esistenza dove non ci sono nemmeno i capitoli?»

Paul Sheldon, scrittore famoso e celebrato, guida ubriaco per le strade innevate del Maine e finisce fuoristrada. Annie Wilkes, una donna del luogo, lo estrae dai rottami dell'auto e lo porta con sé, lo ospita in casa propria, grazie alle sue competenze di infermiera si prende cura di lui, gli ingessa la gamba fratturata e lo aiuta a riprendere coscienza. In un primo momento, Paul Sheldon crede di avere avuto un colpo di fortuna: sarebbe potuto morire assiderato, o l'assenza di cure e farmaci avrebbe potuto indurre complicanze e costargli la vita. Annie Wilkes, poi, è così amorevole... Gli ha promesso che, non appena la linea telefonica interrotta per via delle nevicate sarà ripristinata, chiamerà i soccorsi e si adopererà per farlo tornare a casa.
In realtà, la sorte capitata allo scrittore non è delle più invidiabili. Annie non è una buona samaritana, non lo ha soccorso per spirito di umanità e solidarietà. Annie Wilkes è una lettrice accanita dei romanzi firmati Sheldon e ha riconosciuto il suo scrittore preferito tra le lamiere incidentate. Non lo ha salvato ma sequestrato: sotto minacce, attraverso soprusi, violenze e vere e proprie torture psicologiche e fisiche, anche inducendo in Sheldon la dipendenza da farmaci per poi poterlo ricattare, Annie riesce a piegare l'uomo alle proprie irremovibili ossessioni. È rimasta delusa dal finale dell'ultimo romanzo sulla sua eroina preferita, Misery, e intende costringere Paul Sheldon a scrivere un finale alternativo, un seguito a sorpresa, su misura per lei, la sua lettrice e ammiratrice numero uno...
Misery non è solo un thriller psicologico: è un romanzo originale, imperniato su uno schema geniale. Un protagonista, un antagonista, una stanza di pochi metri quadrati. Stephen King riesce, con la maestria che lo contraddistingue, a incuneare una storia, un romanza intero, in uno spazio così angusto. Gli ingredienti sono ridotti al minimo, la creatività è massima. Una traccia che, in mani più inesperte, si sarebbe trasformata in un'opera arida e destinata ad un procedere lento e tentennante, tra le mani del Re diventa un puro incubo. Puro, proprio perché non contaminato dal facile splatter e da tanti luoghi comuni dell'orrore. L'angoscia di Sheldon è amplificata dalla sua solitudine, dalla sua prigionia, e la sagoma folle e maniacale di Annie Wilkes è tanto più inquietante e odiosa quanto più verosimile.
La ricostruzione psicologica dei personaggi è impeccabile. Lo squilibrio di Annie, le angosce di Sheldon e il percorso compiuto dalla psiche di lui, che nella pressa delle torture di Annie resta deformata fino alla patologia... Tutto è costruito con attenzione e verosimiglianza, ed è notevole il coinvolgimento che King riesce a produrre attraverso una trama scarna fino all'essenziale, uno sguardo lanciato sull'abisso della mente umana, il parto mostruoso di un incubo impalpabile, angosciante e che ha l'Uomo per protagonista naturale e credibile.
Inoltre, Misery è un romanzo chiave nella produzione di Stephen KIng, e sicuramente uno dei più significativi dal punto di vista dell'analisi letteraria dell'autore. Nel romanzo possiamo riconoscere alcuni nuclei e snodi personali, oltre che teorici. Le convergenze tra Sheldon e King sono evidenti: entrambi autori di best seller; entrambi costretti dal mercato a scrivere libri pessimi per vendere più copie, e solo marginalmente liberi di dedicarsi alla buona letteratura (che, King lo precisa tristemente, vende poco); entrambi, per questa ragione, frustrati e demoralizzati al punto di rifugiarsi nell'alcol. Guardando Sheldon in controluce, è facile scorgere e immaginare i lineamenti di King: anche nella sua produzione, come in quella di Sheldon, si possono individuare libri ottimi e libri con minore spessore letterario e artistico eppure molto più venduti e conosciuti. Attraverso Paul Sheldon, King sfoga questa sua frustrazione, lamenta dolorosamente il rapporto con i suoi lettori (mi viene in mente l'amareggiato Caparezza di "Chi se ne frega della musica"), che lo amano e apprezzano pur attraverso una sconsolante miopia. Chiaramente, per uno scrittore, che è un animale di pura espressività e di pura espressione, l'idea di risultare incomprensibile è fonte di frustrazione, è qualcosa in grado di inficiare fortemente l'appagamento professionale e la stima di sé. Non a caso, Misery è un romanzo scritto in un periodo cupo della vita di King, in una delle sue fasi più profondamente precipitate nell'alcolismo.
Kathy Bates nei panni della
celeberrima ed inquietante
Annie Wilkes.
Altro interessante nucleo concettuale sviluppato da King in questo ottimo romanzo è quello dello "scrittore": molti autori cadono nella tentazione di fare teoria della letteratura travestita da letteratura. In alcuni casi, il risultato è simile ad una vanagloriosa autocelebrazione. Non è sicuramente il caso di King: lui, attraverso Sheldon, ci mette al corrente del dark side della scrittura, e ci offre anche una netta concettualizzazione del momento creativo. Uno scrittore non può scrivere a comando, come Annie Wilkes sembra credere, e qualora per qualche motivo lo facesse, il risultato sarebbe inautentico. Il vero scrittore, lascia intendere King attraverso le vicende di Sheldon, è un vero entheos di stampo aristotelico: subisce quasi passivamente l'influsso dell'ispirazione, temi e trame gli vengono imposti da una misteriosa forza esterna che lui non può modificare né influenzare, ma solo incanalare e informare attraverso lo stile di scrittura.
Nel 1990, tre anni dopo la pubblicazione del romanzo, l'incubo di Paul Sheldon diventa una pellicola diretta da Rob Reiner, proiettata in Italia col titolo "Misery non deve morire". Succede di rado che un film tratto da un romanzo sia all'altezza del suo progenitore letterario, è questo è uno di quei rari casi. Il film è molto fedele al libro e ne rende perfettamente l'inquietudine e l'angoscia. Kathy Bates interpreta a dir poco magistralmente una Annie Wilkes così perfetta da imporsi come regina del cast, anche al di sopra della performance, pure notevole e apprezzabile, del grande James Caan nei panni di Paul Sheldon.

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