mercoledì 11 dicembre 2019

Le Sardine e il populismo "perbene"


Nelle ultime settimane stiamo assistendo alla nascita di un nuovo movimento politico che rivendica, con garbo e compostezza, l'esigenza di una comunicazione politica più misurata, meno aggressiva, dai toni pacati ed educati. Insieme ad un nuovo galateo della politica si avanzano richieste di maggiore tolleranza nei confronti delle diversità razziali e di genere, di una più spiccata attenzione nei confronti delle questioni ambientali.
L'oceano di idee vaghe e generiche, di impressioni e sentimenti confusi in cui nuotano le Sardine acquista concretezza e densità nella sua ferma opposizione alla politica di Salvini. 
Ci chiediamo se questa opposizione sia efficace e, in generale, se il "movimentismo" che ha caratterizzato gli ultimi anni della politica italiana non abbia già mostrato i suoi limiti con l'esperienza del Movimento 5 Stelle. 
Forse le Sardine aiuteranno il PD a vincere le elezioni regionali in Emilia, forse contribuiranno a rinvigorire il fronte anti-Salvini, ma al prezzo di un eterno rimandare una riflessione più profonda sulle contraddizioni della sinistra italiana, sull'organizzazione che una forza politica di sinistra deve avere e, infine, sul senso dell'essere di sinistra nel nostro tempo.
Proprio perché non ci basta la definizione di sinistra come anti-salvinismo o come amalgama di generiche istanze di tolleranza, pace e amore, vorremmo tentare una riflessione più approfondita sul senso dei fenomeni politici italiani di quest'ultimo periodo.


Organizzazione liquida e potere carismatico
Elemento caratterizzante di un movimento politico spontaneo è la sua organizzazione "liquida". Non è costituito da alcuna struttura, non ha delle sedi in cui vengono prese le decisioni politiche o elaborati i programmi, le idee, i progetti che quel movimento intende portare avanti. Ma allora chi decide? Dove si decide? E cosa si decide?
Nel giro di pochi giorni sono già emerse delle personalità di spicco dal mare indistinto, dalla notte in cui tutte le vacche sono nere. Alcuni volti ci sono già familiari, abbiamo avuto modo di ascoltarli in televisione, sui social, di leggere le loro dichiarazioni sui giornali. Questi nuovi volti della politica rivendicano l'importanza della partecipazione alla vita democratica, di contro alla chiusura autoritaria della nuova destra.
Ma cos'è la democrazia? Se dobbiamo seguire gli umori dei diversi movimenti che si sono avvicendati sulla scena politica, la democrazia è la partecipazione diretta del "popolo" al dibattito pubblico, senza alcuna intermediazione istituzionale. La Piazza parla e incita la Politica ad essere più seria, onesta, inclusiva. I partiti sono associazioni costituite da élites che non rappresentano oramai nessuno.
I grillini e le sardine hanno molto in comune. Ci chiediamo perché i primi abbiano costituito, per buona parte degli intellettuali italiani, un movimento antipolico, mentre i secondi siano la forza viva e pulsante della Vera Politica.
Se democrazia e quello che ormai consideriamo la sua antitesi, il populismo, non sono parole vuote, contenitori  di fumosi valori astratti, allora dobbiamo capire in cosa consistano realmente, materialmente. Potremmo sostenere che se democrazia e populismo si distinguono anche - e soprattutto, a nostro avviso - per le modalità con cui le diverse organizzazioni scelgono il proprio ceto dirigente, allora le sardine sono un movimento populista, piuttosto che democratico.
Le figure di riferimento sono emerse su base puramente carismatica. Paradossalmente, l'autoritario Salvini è stato eletto democraticamente in un congresso di partito, con iscritti e sedi ben riconoscibili. Su quali procedure democratiche si fonda la leadership delle giovani sardine rampanti che parlano a nome di un popolo che non è chiaro da chi sia costituito? Sono stati eletti su una piattaforma on-line? Nemmeno. La selezione sembra fondarsi sulla capacità di attirare l'attenzione sui social. Lo stesso "metodo" con cui il Movimento5Stelle ha selezionato il suo ceto dirigente. Con i risultati che abbiamo avuto modo di vedere.

PD tra Sardine e 5Stelle
Ma tra le Sardine e i Grillini ci sono anche delle differenze che, ahimè, ispirano solidarietà nei confronti dei seguaci di Grillo e Casaleggio sul far del loro crepuscolo. I 5Stelle avevano, almeno ai loro esordi,  quel carattere di radicalità - al netto delle idee politiche spesso improbabili - che rende un movimento uno stimolante interlocutore politico. Basti pensare ai tempi del referendum sull'acqua pubblica, alla presa di posizione a favore di Maduro, al decreto dignità e al reddito di cittadinanza, che, con tutti i difetti, hanno dato alle politiche sul lavoro una direzione opposta a quella del Jobs Act di Renzi.
E forse proprio perché i 5Stelle hanno messo in discussione le politiche del PD, quest'ultimo ha tergiversato nel cercare un dialogo, per poi intavolare un'alleanza opportunistica e senza convinzione, oltre che tardiva.
Meglio le sardine, specchio acritico di una sinistra che preferisce arroccarsi sull'aventino dell'anti-salvinismo, usato come pretesto, dal PD e da tanti che gli gravitano attorno, per non mettere in discussione le politiche attuate negli ultimi anni, per non ascoltare le istanze sociali più profonde.
Un nuovo movimento dietro il quale schermare le esigenze delle classi popolari, di tutti coloro che non ce l'hanno fatta a tenere il passo con i processi di globalizzazione, che dalla crisi non si sono mai ripresi e che la destra è pronta a sedurre per vincere. E, molto probabilmente, vinceranno. Sardine o no.

martedì 12 novembre 2019

"La danza immobile" di Manuel Scorza

Nella mia libreria mentale questo libro sale al primo posto, in pareggio con La vita è altrove di Milan Kundera. Kundera racconta la formazione e la vita di un poeta, Sforza racconta la poesia, la rivoluzione, l'amore. Non un amore qualsiasi, ma un tipo d'amore di cui il nostro corpo-prigione conserva il ricordo, un amore che contiene in sé un anelito antico, che ti fa torcere le budella. Santiago e Nicolás, fratelli di spirito nella vita e compagni nella lotta, alla vigilia di una battaglia armata si ritrovano, per volere dell'organo direttivo di Sendero Luminoso e in assoluta clandestinità, sotto nomi e identità falsi, in una Parigi meravigliosa, costellata di locali alla moda, bar che profumano di filosofia. Essi si sdoppiano, si allontanano, si dicono addio per poi ritrovarsi nei ricordi e nei rimpianti. Entrambi innamorati, l'uno sceglie di restare a Parigi e di vivere la storia con la donna che ama, l'altro sceglie di partire verso una missione suicida, consapevole di ciò che sta lasciando indietro e alle spalle. Al termine (o all'inizio?) delle proprie vite, entrambi ripenseranno al compagno, rimpiangendo di non aver scelto diversamente. Come un mantra, Scorza presenta più e più volte i versi di una poesia di Rey de Texcoco:


Yo Nezahualcóyotl lo pregunto:
¿Acaso de veras se vive con raíz en la tierra?
Nada es para siempre en la tierra:
Sólo un poco aquí.
Aunque sea de jade se quiebra,
Aunque sea de oro se rompe,
Aunque sea plumaje de quetzal se desgarra.
No para siempre en la tierra:
Sólo un poco aquí.


Io, Nezahualcóyotl, chiedo:
È forse vero che si vive con le radici nella terra?
Non per sempre nella terra:
Soltanto un po' qui,
Seppure sua di giada si spezza,
Seppure sia d'oro di rompe,
Seppure sia di piume di quetzal si lacera.
Non per sempre nella terra:
Soltanto un po' qui.


La danza immobile è un vortice dal quale difficilmente si riesce a liberarsi, dopo aver letto l'ultima pagina. Perché forse Santiago è Nicolás, forse ciò che li divide non è semplicemente una scelta e forse le donne che amano non sono due donne diverse. Essi rappresentano l'amore e la rivoluzione. Ma forse, illustra Scorza con una scrittura pulita ma forbita, l'amore è la rivoluzione. L'uno non può esistere senza l'altra. E quando Santiago abbandona la rivoluzione per l'amore, in realtà sta abbandonando l'amore: in un gioco geniale di specchi, di rimandi, di storie nelle storie, Scorza ci regala un romanzo di vita, ci costringe a porci degli interrogativi sulla nostra condotta, ci fa vivere le nostre vigliaccherie e ci porta, mano nella mano, verso la redenzione. Perché l'amore è la rivoluzione. Perché entrambi esigono il coraggio. Perché la caducità delle nostre vite può essere sconfitta. Se questa vita non ci appartiene perché il fatto stesso di nascere ci rende esseri-per-la-morte, esseri proiettati cioè verso un fine che è anche la fine, qual è la maniera giusta di vivere? Chi è realmente il guerriero? Colui che sceglie l'amore o colui che sceglie la rivoluzione? Entrambe dettate dall'impulsività, queste scelte celano il punto di vista di Scorza. Se l'amore è la rivoluzione, proprio per questo motivo (e non per una differenza formale), chi sceglie la rivoluzione sceglie anche l'amore perché si può amare anche nella memoria. Il contrario è impossibile: chi sceglie l'amore, è costretto a pagare il prezzo della diserzione. Eppure nessuna delle due scelte è veramente sbagliata: il tempo, inesorabile, continua a pulsare come una melodia stonata, mentre le vicende di questi due uomini riaccadono ad ogni capoverso. Come se fossero in una palla di vetro piena di acqua che qualcuno agita. 
Un libro irreprensibile, da leggere tutto d'un fiato. Un'incredibile prova di scrittura e di sensibilità. 


– E lei crede che le rivoluzioni non tradiscano? – chiese l’editore.

– I rivoluzionari, forse. Le rivoluzioni mai.

– E l’amore non tradisce? – chiese Marie Claire.

Guardai girasoli lontani, vicini, prossimi, assenti. Il destino dei girasoli è di ruotare intorno al sole. Il destino degli uomini è di girare intorno all’amore. Guai al girasole o all’uomo impazzito che si ostinano a girare contro il loro sole! Poveri girasoli ciechi che girano e rigirano intorno al nulla, al non-essere!
– L’amore non tradisce mai; certe donne, sì.
[…]
– Santiago, io sono Marie Claire!
Guardai con rancore la sua bellezza irrimediabile.
– Lei è certamente Marie Claire. Ma io non sono quel Santiago.
Mi alzai. E me ne andai.

venerdì 18 ottobre 2019

Burning: la conflagrazione onirica della nuova lotta di classe - Francesco Todisco

Cortázar, nelle sue “Lezioni di letteratura”, ci spiegava quali sono le qualità caratterizzanti di un racconto, necessariamente diverse da quelle di un romanzo. Un racconto, diceva lo scrittore argentino, deve possedere tensione e intensità; se il romanzo è un poligono, più sfaccettato e pieno di angoli, allora il racconto è una sfera. Ma cosa succede quando un racconto viene adattato per il cinema? La risposta di Chang-dong Lee è semplice: bisogna sovvertire quelle regole, sospenderle, rendere elastica la materia prima del racconto per fare in modo che un ritmo e un’atmosfera tratteggiati, su carta, in poche pagine possano mantenersi vivi per la durata di un lungometraggio.
È questa la delicata operazione portata avanti dal regista sudcoreano con Burning. Decidendo infatti di adattare un racconto di Haruki Murakami, Chang-dong Lee si inserisce nella non nutritissima schiera di cineasti che si sono cimentati, spesso fallendo, con l’opera dello scrittore giapponese. Questa volta, però, a sorreggere l’adattamento c’è una brillante intuizione, forse l’unica chiave possibile per aprire al cinema le porte del mondo di Murakami: pescare a piene mani dall’universo immaginifico dello scrittore giapponese, prendere in prestito tutti i suoi topoi, le sue ossessioni, le sue immagini ricorrenti. Andare, insomma, oltre lo spazio limitato delle pagine del racconto per offrire allo spettatore un bignami della mitologia di Murakami. Ecco quindi che la storia si arricchisce di tanti piccoli elementi: non solo la donna che scompare misteriosamente, incipit di tante narrazioni murakamiane, ma anche i gatti (che scompaiono e ricompaiono), persone che raccontano di essersi perse in dei pozzi, citazioni a romanzi di Faulkner, e ovviamente tanta musica jazz. Chang-dong Lee dilata un racconto di Murakami fino a farlo diventare un romanzo vero e proprio, pieno di tutti quei punti di riferimento che i lettori dello scrittore giapponese hanno imparato a riconoscere con gli anni per meglio orientarsi all’interno della sua opera.




Ma c’è molto di più. C’è un'altra, decisiva intuizione a rendere Burning un’opera superiore al materiale di partenza: quella di spostare il racconto dal Giappone etereo e metafisico di Murakami alla Corea del Sud tangibile e spietata di Lee, dove la lotta di classe resta la tematica inevitabile da affrontare per cineasti e narratori. Il regista sudcoreano aveva già dimostrato in passato (ricordiamo in particolare lo splendido Poetry, del 2010) di saper coniugare un sommesso lirismo con un’analisi chirurgica delle problematiche socio-economiche della sua nazione. Se in Murakami lo scontro era quello tra cultura tradizionale giapponese e influenze europee e americane (esplicitate dalle infinite citazioni letterarie e musicali), in Lee invece la lotta, spesso sotterranea e invisibile, seppure terribilmente evidente nei suoi effetti, è quella tra nuovi ricchi e nuovi poveri; il vampirismo esercitato dai primi nei confronti dei secondi è la vera anima pulsante di Burning. Jongsu (un protagonista con un nome, a differenza di tanti narratori di Murakami, spesso privi di identità anagrafiche) si innamora di Haemi (una ragazza che, ancora una volta, sembra incarnare l’archetipo della figura femminile in Murakami), solo per poi vederla scomparire poco tempo dopo un viaggio in Africa durante il quale ha conosciuto Ben, un ragazzo tanto misterioso quanto affascinante. La differenza tra di due protagonisti maschili è marcatissima, e Lee decide di evidenziarla in ogni modo possibile, a partire dalle rispettive abitazioni (la casa, e ciò che la casa può dire sullo status sociale del suo proprietario, è forse il vero centro focale di tanto cinema sudcoreano recente; si veda per esempio Parasite, recente vincitore della Palma d’Oro a Cannes, dove la casa evolve da semplice ambientazione a protagonista della pellicola). Mentre Ben può sfoggiare il lusso ipermoderno e asettico della sua abitazione in centro, Jongsu vive in una zona rurale a poca distanza dal confine con la Corea del Nord, tanto da poter sentire distintamente i megafoni tramite i quali la propaganda di regime viene urlata ai cittadini sudcoreani. 
Anche con questi dettagli, Chang-dong Lee dipinge un’atmosfera di paranoia, di persecuzione: Jongsu non si sente solo diverso, ma avverte la presenza di un nemico che non riesce ad identificare. Ecco dunque che, poco tempo dopo la scomparsa di Haemi (che, nella scena più memorabile del film, balla nuda sulle soffuse note di Miles Davis, altra presenza fissa dell’immaginario murakamiano; l’intera sequenza è quasi un perfetto saggio audiovisivo su come fissare su pellicola il suono e la consistenza di una pagina di Murakami), Jongsu non può fare a meno di identificare il discutibile hobby di Ben, ovvero quello di bruciare granai abbandonati, come una metafora usata per preannunciare l’assassinio della ragazza. È qui che racconto e pellicola divergono in maniera più netta: mentre Murakami si limita alla suggestione, Lee infila un indizio dopo l’altro per portarci alla conclusione, seppure mai esplicitata in maniera diretta, che Ben si sia effettivamente macchiato del crimine. Non può che esserci una sola destinazione finale per il film; ossessionato dalla presenza fantasmatica di Haemi e dal risentimento nei confronti di Ben, Jongsu decide che il bagno di sangue è l’unica soluzione applicabile.
Burning, con i suoi movimenti di macchina molli e placidi, non si limita a mettere in scena la crescente disparità socioeconomica sudcoreana e i conflitti che essa genera, ma la problematizza: così la vittima diventa carnefice, quasi a suggerire che l’unico esito possibile di uno scontro così aspro è la distruzione, letterale o figurata, di entrambe le parti in causa. Se una buona fetta del cinema sudcoreano si muove verso questa conclusione, allora di questa conclusione Burning rappresenta l’aspetto più sottile e sotterraneo, pronto però ad esplodere in una conflagrazione improvvisa e finale. Un sogno che, in maniera subdola, si trasforma in un incubo, come nei migliori romanzi di Murakami; e di tutto il palcoscenico onirico dell’autore giapponese, la pellicola di Chang-dong Lee rappresenta la trasposizione più riuscita.


di Francesco Todisco

domenica 6 ottobre 2019

Joker: la contro-narrazione del "villain" collettivo

La storia di Joker prima di diventare Joker documenta di una costituzione soggettiva che si afferma e definisce nell'attrito doloroso con una Gotham squallida e inospitale, con un capitalismo esasperato, con la malattia mentale e il senso acuto di emarginazione e abbandono. La storia di Arthur Fleck potrebbe essere la storia di un qualsiasi «malato mentale» in balia di una società che «lo abbandona e lo tratta come immondizia». Si svolge in una Gotham sporca e trafficata, profondamente alienata, che somiglia a qualunque periferia dell'impero e che incarna come l'essenza della metropoli statunitense, occidentale, iperliberista ed intrinsecamente individualista, inospitale fino al parossismo. In questa storia, il villain non viene fuori, con le sue crudeltà e manie, dalla solita mera storia di abusi e sofferenze infantili, il cattivo non è soltanto prodotto dal suo proprio dramma individuale, che spezza le sue possibilità di innocenza ed empatia verso gli altri. La genesi percorsa dal Joker di Phillips è questo ma è anche molto altro: il criminale è il prodotto di un tessuto sociale malato, dell'assenza di welfare, dell'insufficienza di servizi sociali ed istituzioni, dell'instabilità lavorativa ed economica, della miseria dei ghetti verticali all'ombra dei grattacieli della finanza e dello squallore delle metropolitane sporche e vandalizzate.
Il Joker di Phillips è una contro-narrazione coraggiosa e intelligente dell'eziologia del villain egocentrico, crudele perché pazzo e viceversa. È una risposta potentissima al Batman de Il cavaliere oscuro, che durante un caricaturale "interrogatorio" sibila al Joker interpretato da Heath Ledger: «Tu sei spazzatura».
Questa attribuzione manichea di ruoli e dignità (eroe contro "spazzatura" umana, cattivo, residuo della società) è spesso rovesciata e problematizzata dal cinema, ma il Joker di Phillips contesta tale attribuzione con strumenti non meramente drammatici e patetici, ma sociali e sociologici, culturali, politici, economici. Il dramma personale dell'antieroe si apre, per la prima volta con questa intensità, ad una dimensione costitutivamente collettiva e sociale, che demistifica la retorica del villain oscuro ma affascinante e mostra le viscere di una società malata che sull'esclusione dei suoi elementi più fragili e bisognosi edifica l'ipocrita esaltazione di «quelli che hanno realizzato qualcosa nella vita», nelle parole del milionario Thomas Wayne. Nelle sue dichiarazioni compiaciute vediamo l'antagonismo sociale ridotto a "invidia" dei poveri nei confronti dei ricchi, il cui capriccio e abuso è sancito da una sorta di legittimità naturale, radicata nella loro superiorità pratica e morale rispetto alle classi subalterne.



La retorica autocelebrativa di Thomas Wayne e della sua classe, che è poi la tradizionale retorica neoliberista, è demistificata da Phillips, che mostra il milionario e candidato sindaco di Gotham come un uomo arrogante e ingeneroso, che abusa della propria ricchezza e del proprio potere, destinando cinicamente la sua dipendente Penny Fleck, madre del futuro Joker, alla malattia mentale, all'ingiustizia, alla miseria anche sociale ed economica, oltre che umana e relazionale, che si colloca alla radice di molto del male a venire. Penny Fleck è vittima in quanto donna e in quanto povera, soggetta allo strapotere di Wayne come suo datore di lavoro e come uomo, e da questa ingiustizia plurima e socialmente stratificata non c'è alcuna difesa realistica. Allo stesso modo, i tre giovani ricchi che Arthur Fleck incontra in metropolitana molestano una giovane donna e brutalizzano lo stesso Arthur, in uno sfoggio crudele di come a un ricco tutto sia lecito che rende impossibile simpatizzare con loro. La potenza e l'originalità della pellicola di Phillips non risiede solo in questa narrazione da un punto di vista non tradizionale (quello del cattivo, del povero, del malato di mente), ma nella saldatura di questo punto di vista, strettamente soggettivo, sul malessere di una società impoverita e abbrutita, di una popolazione di lavoratori ed emarginati che simpatizza con i crimini di Joker, che lo difende dall'intromissione normalizzante della polizia, che manifesta fuori dal teatro durante una serata di beneficenza: dentro, alta società, donne con collane di perle e uomini con il frac, fuori, poveri che indossano maschere di clown e si offrono alla repressione dell'autorità, con la forza disperata di chi non ha molto da perdere, ma frustrazioni e ingiustizie stratificate da generazioni che aspettavano un portavoce, un catalizzatore, un antieroe diverso da qualunque altro, perché dopo un breve attimo di protagonismo e celebrità, subito si scioglie e si confonde nella folla anonima.
Le ambizioni del giovane Arthur Fleck, i suoi sogni di diventare un comico e perfino quello, tenero e desolante, di ricevere l'affetto e la stima del presentatore Murray (interpretato da Robert De Niro, icona di una televisione-spettacolo fondata sull'umiliazione e la denigrazione di chi "non riesce", antenata dei talent in cui si ridicolizzano senza pietà i "casi umani" in cerca di visibilità e attestazioni di simpatia) sono frustrate da un ambiente di lavoro difficile, claustrofobico e sterile, e possono solo sublimarsi in una nuova concezione della vita (da "tragedia" a "commedia"), capace di assumere fallimenti ed infelicità come inevitabili e insuperabili, non imputabili alle proprie incapacità individuali ma ad un complesso tessuto di difficoltà soggettive e oggettive dalle quali, imprigionati nella propria solitudine, non si può sfuggire. Qui si consuma la trasformazione Arthur-Joker, suggellata dalla sua danza sulle scale, braccato dagli investigatori e diretto ad uno show che sancirà la sua assunzione di posizione pubblica, contro la società, contro la televisione, contro quel Batman (l'eroe il cui superpotere è il mero denaro) che è ancora lontano, è e resterà fuori dalla pellicola, ma che allo spettatore suscita già un po' di antipatia.
Il merito più alto di Phillips, oltre alla sua sorprendente ed esaltante capacità estetica, è forse quello di avere declinato tematiche intelligenti (e intelligentemente espresse) in un film destinato dal proprio genere alla massima popolarità, senza cedere alla superficialità del film da botteghino né alle velleità intellettualoidi del film a tesi.
Le atmosfere metropolitane di Phillips sono cupe e angoscianti, il commento luminoso, fotografico e musicale alle miserie urbane del nostro tempo è perfetto. Ogni codice estetico, visivo, sonoro ed espressivo è calibrato con grande perizia (dalle voci cupe degli archi che corredano lo squallore urbanistico di Gotham, deserta benché affollatissima, all'interpretazione di Joaquin Phoenix che si inserisce solidamente, e giustamente, nella storia del cinema). Joker è un caso rarissimo nel cinema del genere, è una grande storia e soprattutto un grande spettacolo.

sabato 25 maggio 2019

"Notarangelo ladro di anime", regia di David Grieco

Partecipare al Bif&st per noi è una consuetudine dai tempi (ormai lontani) dell'università. Ognuna di noi, nel proprio personalissimo universo, ricorda la propria edizione del cuore: l'abbraccio tra Vittorio Storaro e Bernardo Bertolucci, la commozione quando al cinema si è potuto guardare qualcosa di Werner Herzog, l'incontro con Ettore Scola e il dispiacere all'annuncio della sua morte, la masterclass in cui Pierfrancesco Favino ha paragonato l'attore a una maniglia: la porta che apre quella maniglia è il dialogo tra l'autore del testo e il pubblico, che a sua volta è libero di sentire liberamente ciò che da quella porta viene fuori. Questi e altri momenti hanno indubbiamente segnato la nostra vita intellettuale e, di conseguenza, il nostro affetto verso questo festival che ha già raggiunto la sua decima edizione.
Quest'anno protagonista indiscusso è stato Ennio Morricone, che certamente non ha bisogno di presentazioni. Assieme a lui, ad accompagnarci in questo percorso lungo il filo rosso del cinema, altri personaggi: Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea e, dulcis in fundo, Domenico Notarangelo
Domenico detto Mimì Notarangelo
Una presenza silenziosa, la sua: scomparso nell'inverno del 2016, ci ha lasciato un patrimonio videofotografico di inestimabile valore storico. Egli, che è conosciuto soprattutto per le fotografie di Pierpaolo Pasolini sul set di "Il vangelo secondo Matteo", ci ha tramandato un archivio tra i più completi di documenti su tradizioni popolari e religiose della Matera degli anni 50-60, unendo l'impegno politico (fu attivista del Partito Comunista Italiano) alla passione per la fotografia, intesa come connubio indissolubile tra arte e storia. Le fotografie, mezzo storico per tramandare il passato, esprimono una attenzione per la composizione, una empatia per il soggetto che senza alcuna esitazione fanno accostare Domenico (detto Mimì) ad una tradizione fotografica che conta nomi come Henri Cartier-Bresson e Sebastião Salgado. 
È questa l'ottica con cui Notarangelo viene presentato nel documentario "Notarangelo ladro di anime", andato in onda in anteprima mondiale a Bari durante lo scorso Bif&st. Il film, con la regia di David Grieco e le musiche dei Soballera, prodotto e distribuito da Istituto Luce, Cinecittà, Jumping Flea e il Centro Sperimentale di Cinematografia, gioca su più voci: quella di Notarangelo stesso, quella degli abitanti di Matera che lo hanno conosciuto direttamente e quella del nipote di Notarangelo, che legge la storia del nonno dapprima come se fosse estraneo ai fatti e poi presentandosi come erede di quella tradizione tramandata il cui riserbo Notarangelo ha avuto a cuore per tutta la vita. 
Domenico Notarangelo ad un comizio del PCI, 1972
Dalle fotografie di Mimì emerge la descrizione empatica non di una tradizione, ma della gente che di quella tradizione si serviva e nutriva. Sono fotografie che hanno uno scopo antropologico e che, nella sua evoluzione, accompagnano lo sviluppo storico come diapositive di una civiltà ormai scomparsa. Si tratta della civiltà rurale di Matera, una civiltà che trovava nella solidarietà, nel duro lavoro, nel sostegno reciproco i valori in cui specchiarsi. È una civiltà che mostra visivamente, con i segni della stanchezza, che esistono due tipi di povertà: una povertà materiale, da cui ci si può rialzare o con cui si può convivere, e una povertà morale, che il denaro non potrà mai acquistare e che si risolve in una serie di precetti ineffabili ma pienamente dimostrabili nell'atto pratico. 
In questo post vogliamo condividere con voi qualcuna delle fotografie più significative di Mimì, lasciandovi anche all'ascolto di un brano dei Soballera da cui chi è meridionale, come me, sentirà chiaro il richiamo della propria terra. Casse accese e volume altissimo.






















Altre fotografie qui: Muvmatera

venerdì 17 maggio 2019

"Verso un forse" di Stefano Di Ubaldo

Mi perdoni Stefano Di Ubaldo se mi appresto solo ora, dopo mesi di silenzio, alla lettura della sua fresca ma amara raccolta di poesie edita da una piccola casa editrice di Palermo. Il mio ritorno in questo spazio di condivisione è sancito, non a caso, dalla presentazione di un giovanissimo poeta: lecchese classe 93 (e dotato di una incredibile pazienza, visto il mio ritardo nel recensire la sua opera), Stefano Di Ubaldo ci invita a sederci alla tavola della poesia in maniera del tutto democratica, aprendoci le porte della propria intimità, alla stregua di un pittore che dipinge una tela per esporla al pubblico. Tutti sono i benvenuti a queste confessioni! Così Posti riservati, la poesia che apre la raccolta, ci invita uno per volta. È il poeta a chiamarci. Forse perché la sua poesia è, in sé e per sé, concepita come poesia-per-gli-altri, una poesia che ha bisogno dell'altro, dell'incontro, del confronto. Se il poeta apre le braccia al pubblico invitandolo con un elegante "vi racconto di me", il pubblico ascolta ed è al contempo il metro tramite il quale Stefano deve misurarsi.

Vorrei spogliare
il manichino che sono
dalle ambizioni che non ho
e che occorre esibisca in vetrina
come sperassi le avessero tutti.
(da Nessuna ambizione, pag. 23)

L'altro è colui il quale può far specchiare l'autore, in un gioco di rimandi: lì egli può conoscersi, nella misura in cui scrivendo si racconta e raccontandosi si specchia empaticamente nella lettura dell'estraneo. È così che si possono varcare terre desolate, percorsi impervi, tortuose scalinate verso la scoperta dei propri limiti e delle proprie velleità.


Non trova risposta chi parla a se stesso
e ottuse domande acuiscon l'eccesso; 
rinnova il rancore per tanto silenzio
e porta tristezza spalanca l'assenzio. 

Senza più l'Altro rimane lo specchio, 
con meno ritorni si viaggia parecchio;
non sono pensieri che oscurano il volto,
ma il loro vagare perenne e irrisolto. 
(da Soliloquio, pag. 25)

Chi sono io? Cosa posso rivendicare? Qual è la mia collocazione? E al contempo chi siete voi? Potete sentirmi? Sono queste le domande che Stefano sottintende e porta con sé, come uno stendardo. L'unica grande pretesa di questi quesiti è la verità, che è vera già nel momento in cui ci si impegna a cercarla. 

Mi affido alla carta 
e la lascio parlare,
come un'altra Babele
tra milioni di voci
che piovono stanche
dalle torri d'avorio,
dopo aver rigirato,
frottole impazzite,
nella vuota schiera
di una verità per finta:
parole incomprensibili
da rileggere al silenzio
della prossima pagina.
(Babele su carta, pag. 35)

La poesia è un tumulto di sinestesie che prendono forma di parole sulla carta e che, in questa evoluzione, diventano incomprensibili: possono coglierle veramente solo i puri di cuore, i sensibili.
La poesia, che è poesia-per-gli-altri, si mostra allora selettiva nella misura in cui già in se stessa si trova la codifica che la protegge. Non si tratta, però, di mera selezione (Ricordate? Tutti sono invitati a questo banchetto!), ma di semplice e giusta premura nel salvaguardare il proprio io: è come se il poeta dicesse "Mi racconto solo a chi può capire". Egli cerca se stesso, è vero. Ma non può sopportare che l'altro si appropri di sé, scacciando il compromesso empatico.

Mi volto,
mi guardo, 
presto attenzione
a ciò che è importante:
l'immagine ambigua
che lo specchio alle spalle
riflette in quell'altro,
che sfido a duello.
Sparo alla cieca
un colpo impazzito
verso lo specchio,
verso me stesso,
moltiplicato
davanti per dietro,
rifratto in un loop
che converge nel mezzo.

È questione di rispetto:
non sopporto
chi mi osserva
di nascosto.
(Ri-spettro, pag. 29)


Ed è così che ogni poesia diventa una piccola narrazione, immagini che il lettore elabora e che passano, inerpicandosi, per l'anima del poeta. Il luogo della poesia è il luogo in cui rifugiarsi quando si cercano le risposte. Eppure il poeta non ne trova! Quasi sul finire, infatti, in una poesia recita: "Il mio posto/è verso un forse". E, in un'altra poesia, "Da una parte all'altra/del mio essere uno,/sono sempre imperfetto [...]". La ricerca dell'artista non si ferma, anche dopo il completamento di un'opera. Perché l'arte è curiosità, domanda, richiesta. Questo desiderio di ricerca continua che ci accomuna all'autore non può che farci sperare di sentire ancora la voce di questo giovanissimo poeta, che si fa spazio a spalle larghe in un campo certamente non facile da percorrere, mostrando una delicata sensibilità e una ambiziosa tenacia. 

mercoledì 13 marzo 2019

La donna clitoridea e la donna vaginale, di Carla Lonzi


«Il sesso femminile è la clitoride, il sesso maschile è il pene.»

Questo è l’assioma di partenza del celebre saggio di Carla Lonzi del 1971. Da questa “scoperta” l’autrice sviluppa la sua teoria psicoanalitica che, a partire dalla mappatura dei luoghi del piacere sessuale femminile, ricostruisce la soggettività della donna come soggettività autonoma rispetto a quella maschile, un “soggetto imprevisto” che mette in discussione le fondamenta della cultura e della civiltà, che irrompe nel mondo dialettico costruito dagli uomini, uscendo dalla dimensione spettrale in cui l’uomo l’ha relegata e affermando la propria esistenza piena, densa, concreta.

Perché la clitoride come organo precipuo della sessualità femminile è una scoperta? Dagli albori della civiltà sino alla psicoanalisi freudiana, l’organo della sessualità femminile è stato identificato con la vagina. Lonzi comincia la sua riflessione ribaltando questo dato di fatto, mettendo in discussione un dogma accettato sia dagli uomini che dalle donne e sostenendo che proprio questa accettazione è stata l’origine dell’ «angoscia della donna» e, più in generale, del disagio della civiltà. Il fatto che la vagina sia stata dichiarata sede ufficiale del piacere femminile è il primo atto di colonizzazione del corpo della donna da parte dell’uomo. Il primo atto di violenza e sottomissione, da cui si dispiegano la personalità aggressiva, dominatrice dell’uomo e la personalità alienata e spettrale della donna.

La vagina è una zona «moderatamente erogena». L’autrice riporta gli studi di Freud e Reich sulla frigidità femminile oltre che studi anatomici sull’orgasmo vaginale e quello clitorideo. Nella psicoanalisi “maschile” l’orgasmo clitorideo è considerato un tipo di piacere infantile, mascolino, autoreferenziale. La donna sana e pienamente sviluppata è colei che, dandosi completamente al suo uomo, è capace di raggiungere l’orgasmo vaginale. Coloro che non ne sono capaci, sono affette da frigidità, non hanno avuto un regolare sviluppo sessuale.  Lonzi si pone una domanda apparentemente semplice: perché la clitoride, l’unico organo che è in grado di procurare alla donna un orgasmo certo, spontaneo, immediato, è considerato un organo sessuale infantile? Perché l’orgasmo vaginale, che invece richiede una serie complessa di mediazioni psichiche e di processi di adattamento, è considerato l’autentico orgasmo femminile?

Nel maschio il piacere e la procreazione coincidono nel medesimo atto. Il pene è l’organo che provvede al soddisfacimento di entrambi i bisogni, quello individuale e quello della specie. Nella donna le cose non stanno così: la vagina è sì l’organo della procreazione, ma non è quello del piacere sessuale, se non in misura marginale. L’atto colonizzatore dell’uomo impone la coincidenza che è solo a lui propria. Sull’oblio di questa infibulazione originaria si fondano tutte le civiltà umane.
La vagina diventa il totem della sottomissione femminile e la clitoride il tabù, lo scandalo di una sessualità femminile che non ha bisogno dell’uomo. L’identità della donna si avviluppa in questa proibizione ancestrale, cercando in ogni epoca di adattarsi. Ma questo adattamento non è indolore, né compiuto definitivamente. Emergono allora due tipi psicoanalitici: la donna vaginale e la donna clitoridea.

La donna vaginale è colei che è riuscita ad adattarsi alla proibizione imposta dall’uomo. Vive l’illusione dell’orgasmo come il momento in cui il piacere della donna e quello dell’uomo esplodono all’unisono. Vive l’illusione della sessualità, del sesso come atto d’amore. Sacrifica il suo piacere immediato, quello clitorideo, alla trascendenza del Vero Amore, del Vero Piacere, di quel “qualcosa in più” che solo l’uomo può dare.  È una donna che cerca di adeguarsi al maschio in ogni sua azione, anche quando rivendica i propri diritti e il proprio ruolo nella società. Una società che resta quella edificata dal maschio, nella quale la donna vaginale non chiede altro che di essere accolta e accettata. La donna vaginale lotta per il diritto all’aborto e alla contraccezione senza però chiedersi “Per chi sono rimasta incinta? Per il piacere di chi?”, senza risolvere la contraddizione della società contemporanea per cui si controllano le nascite ma si lascia intatto il modello di sessualità procreativa. Una contraddizione che resta irrisolta e tutta a vantaggio dell’uomo.

La donna clitoridea è invece una donna che non riesce ad adattarsi, che attraversa l’angoscia della sua diversità per poi affermarne la potenza e la preziosità.

«La donna clitoridea non è la donna liberata, né la donna che non ha subíto il mito maschile – poiché queste donne non esistono nella civiltà in cui ci troviamo – ma quella che ha fronteggiato momento per momento l’invadenza di questo mito e non ne è rimasta presa. La sua operazione non è stata ideologica, ma vissuta durante buona parte della propria vita attraverso ogni sorta di sbandamenti rispetto alla norma, sbandamenti che nella cultura maschile venivano interpretati come una ovvia manifestazione delle velleità dell’inferiore. Ma è stato proprio attraverso di essi che la donna ha potuto cominciare a sperimentare la propria iniziativa resistendo alla pressione della colonizzazione che la richiamava pesantemente ai ruoli con la promessa di gratificazione e consenso dell’uomo. La donna clitoridea ha registrato con rabbia, impotenza e deliberazione totale di salvare almeno se stessa, il momento in cui le proprie compagne venivano inghiottite dal mondo maschile e sparivano senza lasciare traccia di sé e non ha potuto darsi ragione di tutte quelle vite perdute, del fatalismo con cui alla fine accettavano che un altro ispirasse i pensieri e i gesti, e ha intuito una macchinazione storica contro il suo sesso. La donna clitoridea è una donna che ha resistito sull’autocoscienza reprimendo in se stessa tutta una parte di femminilità finché non ha scoperto che era la parte della femminilità che l’uomo aveva imposto e alimentato nella donna, ma lei non l’ha fatto sulla garanzia della liberazione, ma sull’autenticità che può finire nel nulla di fatto».

La donna clitoridea  è una figura psicoanalitica, storica, umana che pone, con la posizione della sua esistenza autonoma e indipendente, nuovi modi di vita e di relazione, che il femminismo interpreta ed elabora. Non è l’antagonista dell’uomo, ma semplicemente un soggetto diverso, che non rivendica l’integrazione all’interno di una società già data, ma cerca di modificarla attivamente. La donna clitoridea propone una nuova forma di sessualità in cui il piacere della donna è rispettato, e in cui l’uomo, rinunciando al suo ruolo di dominatore, elimina ogni criterio efficientistico che quel ruolo comporta (dalle ossessioni per le dimensioni del pene a quelle per la durata delle prestazioni sessuali). La donna, attraverso la presa di coscienza della sua sessualità, recupera il suo piacere immediato e spontaneo, che non genera frustrazione né angoscia. Ricostruisce la propria identità, si afferma come autocoscienza, pronta a rivivere quella solidarietà femminile che caratterizza l’infanzia e l’adolescenza. Si fa soggetto concreto e creativo e, solo in quanto tale, disposto a spendersi per gli altri.



mercoledì 30 gennaio 2019

Donne annamite e dominazione francese ("le Paria" 1° agosto 1922) - Ho Chi Minh

«La colonizzazione è per se stessa un atto di violenza del più forte nei confronti del più debole. Tale violenza si fa ancora più odiosa quando viene esercitata sulle donne e sui bambini.
È amara ironia scoprire che quella civiltà — simbolizzata nelle sue varie forme, cioè libertà, giustizia, ecc. dalla gentile immagine di una donna e guidata da una categoria di uomini che hanno fama di essere campioni della galanteria — infligga al suo emblema vivente il trattamento più ignobile e lo offenda vergognosamente colpendo la donna nelle sue maniere, nella sua modestia, talvolta perfino togliendole la vita.
Il sadismo dei colonizzatori è incredibilmente diffuso e crudele, ma qui ci limiteremo a ricordare pochi casi, di cui sono stati testimoni e che ci hanno narrato persone insospettabili di parzialità. Questi fatti permetteranno alle nostre sorelle occidentali di rendersi conto sia della “natura” della missione civilizzatrice del capitalismo, sia delle sofferenze delle loro sorelle nelle colonie.
“All’arrivo dei soldati”, racconta un colonnello, “la popolazione si diede alla fuga; rimasero soltanto due vecchi e due donne: una ragazza ed una madre che allattava il suo piccolo e teneva per mano una bambina di otto anni. I soldati chiesero denaro, liquori ed oppio. Siccome non riuscivano a farsi capire divennero furiosi e abbatterono uno dei vecchi con il calcio dei fucili. Più tardi, due di loro, che erano già ubriachi all’arrivo, si divertirono per molte ore ad arrostire l’altro vecchio su un fuoco di legna. Nel frattempo, gli altri raparono le due donne e la bimba di otto anni. Quindi, annoiati, uccisero quest’ultima. La madre riuscì poi a scappare con il suo piccolo e da una distanza di cento iarde, nascosta dietro a un cespuglio, vide torturare la sua compagna.
“Ella non sapeva perché venisse commesso quell’assassinio, ma vide la giovane giacere supina, legata ed imbavagliata, mentre uno degli uomini, più volte, le immergeva lentamente la baionetta nell’addome e, lentamente, la ritraeva. Quindi tagliò un dito alla ragazza morta per impossessarsi di un anello, e la testa per rubarle una collana.
“I tre cadaveri giacquero sul terreno piatto di un’antica salina: la bimba di otto anni nuda, la giovane donna con gli intestini fuori, il braccio sinistro rigido con il pugno sollevato verso il cielo indifferente ed il vecchio, orribile, nudo come gli altri, sfigurato per le bruciature, con il grasso che era colato, si era sciolto e poi solidificato contro la pelle del ventre, che era tesa, abbrustolita e dorata come quella di un maiale arrostito”.»

Al principio del Novecento, il movimento nazionale vietnamita viene brutalmente represso dalle autorità coloniali francesi ma non viene sradicato in profondità. Nel Tonchino [Vietnam settentrionale] imbocca la via delle società segrete e dell’agitazione sovversiva clandestina, mentre in Cocincina [Vietnam meridionale] iniziano a sorgere organizzazioni che conciliano gli obiettivi politici democratici con gli interessi commerciali della borghesia saigonese. Una particolare “zona ribollente”, “culla permanente della rivoluzione” è il Nghe-Tinh, zona agricola ad alta densità demografica formata dalle province di Nghe An e Ha Tinh, che sforna letterati e rivoluzionari, conoscitori della lingua cinese e patrioti.
Tra questi c’è Nguyen Sinh Sac (noto anche come Nguyen Sinh Huy), un mandarino di cui non si sa molto, se non che viene destituito dalla sua carica per le sue simpatie nazionaliste e perché, come tanti uomini istruiti originari della stessa zona, rifiuta di imparare il francese. Nel 1885 prende parte ad una delle tante sollevazioni del Nghe-Tinh, la cosiddetta Can Vuong o “rivolta dei letterati”, sorta su appello dei mandarini nazionalisti. Cinque anni più tardi nasce suo figlio, il ribelle annamita dai molti nomi: chiamato alla nascita Nguyễn Sinh Cung, più tardi Nguyen Tat Thanh, e poi come Nguyen Ai Quoc (“il patriota”), nome che manterrà, tra alterne vicende, sino all’ottobre 1944, quando scrive la “Lettera alla Nazione” firmata per la prima volta con il nome di Ho Chi Minh.

Nel giugno 1911 comincia la sua vita di emigrante. Arriva a Parigi dove, nel 1919, aderisce al partito socialista e, col nome di Nguyen Ai Quoc, inizia, insieme con compagni di diverse colonie, un’intensa attività di denuncia del colonialismo e dell’ipocrisia della “civiltà occidentale”, che maschera sotto magniloquenti frasi la reale barbarie dell’oppressione coloniale. Gli anni parigini sono molto importanti per la formazione politica di Ho Chi Minh.
Sui giornali di sinistra francesi – “l’Humanité”, divenuta organo del PCF; “La Vie Ouvriére”, rivista socialista, organo della “Confédération Générale du Travail”; il giornale anarchico “le Libertaire” – in articoli spesso sarcastici e partendo da casi specifici denuncia le condizioni inumane in cui versa la popolazione coloniale del Vietnam e la barbarie inumana dei colonizzatori.
Un discorso a parte va fatto per “le Paria”, che ha come sottotitolo nella testata “organo dell’Unione intercoloniale”. Questa viene fondata nel luglio 1921 a Parigi da rappresentanti di diverse colonie dell’impero francese, tra cui il Gruppo dei patrioti vietnamiti, per una lotta comune per la liberazione nazionale. Nguyen Ai Quoc è segretario aggiunto. Il PCF ospita la piccola redazione de “le Paria”. L’internazionalismo diviene qui una componente essenziale della lotta per l’indipendenza nazionale. 
Nell’agosto 1922 viene pubblicato su “le Paria” il “Manifesto dell’Unione intercoloniale”, che si rivolge non solo ai popoli coloniali ingannati dai colonizzatori che li hanno usati come carne da cannone nella carneficina della Grande Guerra e li mantengono ora in un regime di servaggio e supersfruttamento, ma anche ai lavoratori della metropoli: 

«Fratelli oppressi della metropoli! Siete stati ingannati dalla borghesia, che vi ha usato come strumenti per conquistare i nostri paesi. Usando la stessa politica machiavellica, la vostra borghesia oggi pianifica di usare noi per reprimere i vostri sforzi di liberazione. Contro il capitalismo e l’imperialismo, i nostri interessi coincidono. Compagni, tenete in mente l’appello di Karl Marx: “Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!”»

Nel cinquantenario della morte di Ho Chi Minh, MarxVentuno Edizioni raccoglie scritti e discorsi (1919-1969) del rivoluzionario vietnamita nell'edizione più completa disponibile in italiano.
I testi riuniti in questa raccolta ripercorrono la vita di Ho Chi Minh, dagli anni della militanza giovanile nel Partito Socialista e poi Comunista Francese alla fine degli anni Sessanta.
Attraverso gli articoli e gli appelli accorati rivolti al popolo vietnamita e ai dirigenti e quadri delle diverse organizzazioni che ha diretto durante cinquant’anni di attività politica e rivoluzionaria, scopriamo la complessa personalità di una delle figure più importanti della storia dell’anticolonialismo: uomo politico radicale ma prudente, commentatore acuto e capace di pungente umorismo, diplomatico e dirigente di partito totalmente dedito alla causa del Vietnam ma sempre, lucidamente consapevole della dimensione internazionale della lotta dei popoli per la propria autodeterminazione.
Gli scritti dello «zio Ho» ci accompagnano lungo cinquant’anni di storia del Vietnam, dalle lotte per rovesciare il giogo coloniale francese all’eroica resistenza popolare contro l’imperialismo statunitense, verso quello che sarà, finalmente, il Vietnam libero e riunificato. 
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