domenica 4 ottobre 2015

"Noi" e gli "altri": il cannibalismo dei Tupinamba

«L'identità è un fatto di decisioni», scrive Francesco Remotti. Ugo Fabietti, nel suo famoso libro sull'identità etnica, la definisce «un concetto equivoco». Noi stessi, nella nuova società multietnica e multiculturale che andiamo costruendo, ci rendiamo conto giorno per giorno di quanto sia "decisa" e "costruita" la nostra identità, di quanto sia relativo e storicamente determinato quello che ci definisce, ci distingue dagli "altri".
E ancor di più: la nostra identità non solo è costruita ma è soggetta a mutamenti incessanti, è preda di un eterno «flusso». In pratica, continua a costruirsi giorno per giorno. E si costruisce attraverso il confronto con gli altri, attraverso l'incessante dialettica noi/altri, identità/alterità. Si nutre di alterità, vive attraverso l'alterità e talvolta, per conservarsi, «muore» nell'alterità.
Un caso eccellente di questo meccanismo, morire nell'alterità per conservarsi, è rappresentato dal cannibalismo. Non certo quello psicotico dei film dell'orrore o quello leggendario che la DC dei tempi d'oro attribuiva ai sovietici. Parliamo del cannibalismo rituale e precisamente, per seguire la bella esposizione di Remotti, del cannibalismo dei Tupinamba del Brasile.
Nel loro seno, come ci raccontano le testimonianze fin dall'arrivo degli europei nel Nuovo Mondo, esistevano tribù tra loro avversarie, protagoniste di guerre inestinguibili perché basate sull'antico principio della vendetta. Ad ogni morto, da una parte e dall'altra, seguiva un guerriero imprigionato e destinato alla morte. Ma questa uccisione compensativa, questo "regolamento di conti", non si realizzava sul campo.

«Quando il prigioniero B è condotto nel villaggio A, specialmente se incontra delle donne nei campi, lancia questo grido: "arrivo io, il vostro cibo".»

Il prigioniero viene condotto nel villaggio che aveva orbato di un guerriero, di una vita umana, e col proprio corpo occupa il posto lasciato vacante. Gli vengono depilate le sopracciglia, rasata la parte anteriore della testa, offerte collane e altre decorazioni: viene "travestito" da membro del gruppo. L'atto cannibalico, per avere significato, deve essere preceduto da questa lunga messinscena, da questo caso emblematico del "come se" che tante volte si incontra in antropologia: per un periodo più o meno lungo (mesi o anni) si farà quasi "come se" il prigioniero appartenesse al gruppo. Viene invitato nella casa del guerriero defunto: potrà (dovrà) congiungersi con la sua vedova per risarcirla del lutto, utilizzare le sue armi e i suoi attrezzi. Solo così, prendendo il posto dell'uomo che ha ucciso e usando le sue cose le purificherà, laverà via il precedente possessore: poi la donna potrà risposarsi e gli oggetti essere usati da altri. E solo l'uccisore può compiere questa "purificazione", sostituendosi nella fruizione e negli affetti familiari all'ucciso. Ne occupa il posto in famiglia, può perfino procreare con la sua vedova e con altre donne del gruppo. Può lavorare con gli altri uomini, può prendere parte alle loro feste e bere cauin (la loro bevanda fermentata) con
loro. Eppure, la sua non è una vera sostituzione del defunto: è solo un "come se".
È una cottura culturale, che rende il cibo pronto per essere inghiottito e assimilato. L'altro viene incluso tra il "noi" degli altri, a cui deve cercare di assomigliare. Deve mangiare la cultura degli altri prima che gli altri mangino il suo corpo, come se lasciare che l'"altro" conservi la propria alterità potesse renderlo indigesto.
Arriva prima o poi il giorno del fiero pasto: giorno di festa per tutti. Per i mangiatori, che portano finalmente a compimento la loro vendetta rituale e riassorbono in sé l'alterità, la riconducono a sé attraverso la massima violenza annientatrice; ma anche per il mangiato, perché «i coraggiosi muoiono in paese nemico». Il prigioniero prende parte attiva alla cerimonia che precede la sua uccisione con una mazza, la sua macellazione e la sua cottura su una graticola: l'esecutore gli si rivolge con parole rituali, lui risponde le cose giuste. Non c'è orrore ma c'è onore, essere mangiati dai nemici è una morte bella: perché essere mangiato dagli altri non distrugge il prigioniero, ma lo fa continuare a vivere nel corpo dei suoi mangiatori, nella loro società, nella loro cultura. Il suo teschio rimarrà su un palo davanti alla casa che per mesi o per anni è stata sua, a ricordarlo. Essere mangiato è il giusto prezzo per la morte che ha comminato ad un altro guerriero, ma soprattutto è un modo per mandare avanti la dialettica infinita tra "noi" e gli "altri": «la nostra terra è grande, e i nostri ci vendicheranno» afferma il prigioniero prima di lasciarsi mangiare.
I suoi non lo hanno salvato dagli "altri", sebbene la prigionia sia durata a lungo; anzi, se fosse fuggito e tornato a casa, lo avrebbero ucciso loro stessi. Lui ha ucciso un nemico, sarà mangiato dai suoi cari, e a sua volta essi saranno uccisi e mangiati se cadranno in combattimento. Così si nutre lo scambio tra le due comunità: assurdamente, perfettamente, è l'alterità che nutre l'identità, è l'atto cannibalico che annienta l'altro includendolo nel sé e nutre il sé dell'altro. E soprattutto, affumicando e mangiando il nemico, il gruppo torna in possesso di una parte di sé. Prima dell'esecuzione, colui che dovrà ucciderlo chiede al prigioniero:

«Non hai tu stesso ucciso e mangiato nostri parenti e nostri amici? [...] Quest'altro, più sicuro che mai, rispondeva: Pa, che tan, tan, aiuca atupavé ("Sì, io sono molto forte e ne ho veramente uccisi e mangiati molti"). "Oh, non mi sono sbagliato; oh come sono stato ardito nell'assalire e nel prendere la vostra gente, della quale ho tante e tante volte mangiato!"»

Il prigioniero conserva nel proprio corpo le carni dei guerrieri che ha mangiato, e con la sua stessa presenza ha colmato per lungo tempo il vuoto lasciato da un membro del gruppo, ha persino avuto figli in seno alla comunità. C'è un che di "nostro" nel suo corpo e nella sua persona, che deve tornare a casa, che deve essere riassorbito.
Questo è il cannibalismo Tupinamba: «cibarsi di alterità, morire nell'alterità». È un meccanismo di reciproca costruzione e conservazione, di continua creazione e ricreazione di sé e degli altri, del "sé" attraverso gli "altri", e la distruzione rituale è una tappa necessaria all'assimilazione, alla ricongiunzione. Non si mangia l'altro uomo per una violenza cieca né per fame, ma per tornare congiunti ai propri cari che sono stati mangiati prima di lui, dalla sua gente, spiega Michel de Montaigne, «idea questa che non ha niente di barbarico». È reciproco ed eterno, trionfale e tragico insieme. Recita un canto rituale Tupinamba:

«Questi muscoli, questa carne e queste vene sono i vostri, poveri pazzi che siete; non vi rendete conto che dentro vi è ancora la sostanza delle membra dei vostri antenati: assaporateli bene, vi troverete il sapore della vostra stessa carne.»

  • Le citazioni sono tratte dal libro Contro l'identità, Francesco Remotti, Editori Laterza (1996).
  • Il libro citato di Ugo Fabietti è L'identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Carocci editore (2011): un testo prezioso, che decostruisce il concetto di identità e memoria etnica, illustrando tra gli altri un caso esemplare di "invenzione etnica": quello della Padania, rappresentato dal simbolo del "carroccio".
  • Le testimonianze di Michel de Montaigne sui Tupinamba sono contenute nel libro Saggi, Adelphi (1992)

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