giovedì 8 giugno 2017

"The last family": le visioni apocalittiche di Zdzisław Beksiński

Attenzione: ispirato a una storia vera. Questo avviso rende "Ostatnia rodzina" del giovane regista polacco Jan P. Matuszyński ancora più potente e disturbante. È un film così macabro, dalla trama così accanitamente triste, dalle forme così oscuramente grottesche da apparire inverosimile, se non fosse, appunto, lo specchio fedele della vita vera di una vera famiglia.
La famiglia in questione è quella di Zdzisław Beksiński: pittore surrealista nato in Polonia nel 1929, dall'io cupo e labirintico, sadomasochistico, aracnofobico, divorato dalla propria arte e dall'ossessione del reportage. Dal 1977 al 2005, Beksiński registra e archivia la propria vita privata, la storia sua e della sua famiglia, con la passione morbosa di chi questa vita,
Quadro di  Zdzisław Beksiński. Come tutti gli altri,
è senza nome.
forse, preferisce documentarla e osservarla disumanamente come attraverso la lente di un sogno o di un quadro, piuttosto che viverla. Con registratori casalinghi, Beksiński immortala ogni sua conversazione; con telecamere che si succedono secondo gli avanzamenti tecnologici, filma le stanze della casa, la moglie timida, il figlio disturbato, perfino i corpi delle parenti appena defunte prima di chiamare i soccorsi. E mentre ogni dettaglio della vita finisce rubricato e conservato, tramandato ai posteri e destinato ad alimentare la fedele sceneggiatura del film "The last family", la vita stessa scorre in una forma spenta e grigia, tra la tristezza e l'indifferenza.
Il figlio di Beksiński, che lavora in radio e ha tradotto in polacco i Monty Python, sembra incapace di cantare come di sorridere, totalmente impedito all'instaurazione e alla conservazione di relazioni con donne (e, sbotta a un certo punto davanti a una madre sconsolata, non interessato neppure agli uomini). Non ho mai picchiato Tomasz - racconta il pittore ad un amico - per non farne uno psicopatico. Nonostante la sana intenzione, Tomasz è comunque uno psicopatico, e nel corso della pellicola tenta numerosi suicidi. In preda a ripetute crisi distrugge piatti e altri oggetti, impreca, gesticola istericamente. Sembra immerso in un liquido denso e torbido che gli impedisce di nuotare come di tirarsi fuori. Annega lentamente, nello sconforto dei genitori incapaci di salvarlo.
La madre di Tomasz e le due nonne, che incarnano in qualche modo la solidità e la "normalità" della famiglia, non si rivelano sufficienti: per la durata delle rispettive vite e per il carattere e l'azione debole che ne fanno figure defilate.
Su questo panorama di infelicità diffusa, di claustrofobica incomprensione, si staglia la figura di Beksiński, con la fedele telecamera in mano oppure davanti a una delle sue tele. La sua vita e la sua famiglia, come il film che le ritrae, sembrano uno dei suoi tanti quadri. Sono dominate da un forte senso di inadeguatezza rispetto alla vita e alle relazioni umane, da un'angoscia paralizzante, da un presagio macabro e dal peso costante della solitudine.
L'essere umano e le forme in cui questo si dà, vengono deformati dallo sguardo dell'artista, che vede mostruosità e corpi putrescenti, tinte plutonie e sulfuree, orizzonti post-apocalittici abitati da incubi e rovine.
"The last family" è un film angoscioso e cupo, intimistico e pessimistico, autentico come un documentario, invadente come un reality, come lo studio entomologico delle disgraziate dinamiche familiari del protagonista. Allo stesso tempo non è vita ma arte: nel suo essere non più transitorio e particolare, ma duraturo ed universale, nel suo lanciare potente un grido di disperazione per la condizione dell'essere umano alienato e avulso dal mondo, egoticamente chiuso in sé, incapace di darsi agli altri, di trasmettere agli altri calore umano e di riceverne in cambio, di rendere gli altri felici ed esserlo lui stesso.

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