martedì 7 maggio 2013

Tracce di poesia - Alda Merini

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve 
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili 
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.


Alda Merini nasce il 21 marzo 1931 a Milano, con la primavera. Mediana tra i fratelli Anna ed Ezio, terminato il ciclo elementare, frequenta tre anni di avviamento al lavoro per poi tentare l'ammissione al Liceo Manzoni. Non supera la prova di italiano (i paradossi). Un'infanzia e un'adolescenza difficile, forse: la guerra, la povertà, la fuga verso Vercelli dopo un bombardamento che ha distrutto la sua casa. E poi Ettore Carniti, sposato quasi per evadere dalla situazione della famiglia («In questo stanzone stavamo tutti e cinque, accampati, con delle reti, allora sono andata con il primo che mi è capitato perché non ce la facevo più. Avevo 18 anni, dove dormivo scusate? Così poi l’ho sposato, nel 1953. Era un operaio, è morto nel 1983, un lavoratore. Si chiamava Ettore Carniti, io sono zia del sindacalista Pierre Carniti e anche mio marito era sindacalista. Un bell’uomo. Ho avuto quattro figlie da lui. Andavamo a mangiare la minestra da mia madre perché lui non aveva ancora un lavoro. Poi abbiamo preso una panetteria in via Lipari, non è che proprio facevamo il pane, era solo una rivenditoria. Mi chiamavano la fornaretta. Ho avuto la mia prima bambina nel 1955, Emanuela, poi nel 1958 è nata anche Flavia. Avevo 36 anni quando è nata la mia ultima figlia, Simona, e prima ancora era arrivata Barbara»).
Dopo la morte del marito (che la fa ricoverare al "Paolo Pini" di Affori ai primi accenni di debolezza mentale e di depressione), sposa Michele Pierri,  un uomo di trent'anni più giovane, col quale instaura un rapporto di profonda intesa. Con lui si trasferisce a Taranto per quattro anni, fino a quando i figli di lui la allontanano a causa dell'aggravarsi delle condizioni di salute del padre. Un'altra volta la depressione. Un'altra volta il manicomio.
Rientra definitivamente a Milano nel 1986, sulle rive del Naviglio tanto amato, in quell'appartamento che è più un rifugio di memorie, un luogo per abbracciare gli amici barboni a cui lascia, generosamente, il denaro guadagnato con la propria poesia.


A Milano
Era il tempo dell'adorata giovinezza
quando gli alberi schiusi
gemevano tristezza,
era il tempo degli innamorati dolori
e dei sordi frastuoni della terra,
Milano benedetta
patria di sicurissime storie
di frangenti mobili oscuri,
Milano dove è nata la mia poesia
e dove la mia poesia è morta
lungo il Naviglio che geme,
dove la patria Italia ha un riferimento sicuro,
dove vivono Marina e Chiara
dove sono nati i miei figli
dove i miei figli mi abbandonano
giorno per giorno,
dove l'emarginato e il povero 
trovano il suo caldo affetto
dove tutto brilla all'insegna della cultura
e dove le sere sono dolenti
come il mare di Taranto
dove ho lasciato un lungo sconfinato amore
morto di lebbra e di ardente desiderio di rivederti.

La poesia di Alda Merini è una poesia concisa, ma piena di significato. Quando vieni ricoverata per ventiquattro volte in manicomio capisci forse che il peso delle parole è proprio di non aver peso: una poesia eterea, quindi, che cerca di creare un linguaggio fatto di emozioni più che di parole. Il richiamo alle brutture del manicomio è sempre presente, come una ferita che si riapre, come una denuncia che non può diventare àfona. Occorre accostarsi alla vita di questa strabiliante poetessa con molto rispetto: l'internamento al "Paolo Pini" è momento di estremo dolore a cui si associa, però, una forza che annichilisce chi annienta."Di fatto, non esiste pazzia senza giustificazione", scriverà Alda nel diario che ripercorre l'esperienza in manicomio. E "ancora oggi amo i malati di mente": una trasparenza di sguardi, di intenti, di visi attoniti che si schiantano gli uni agli altri, dichiarando inefficace la "cura" dei manicomi.


Al cancello si aggrumano le vittime
volti nudi e perfetti
chiusi nell'ignoranza,
paradossali mani
avvinghiate ad un ferro,
e fuori il treno che passa
assolato leggero,
uno schianto di luce propria
sopra il mio margine offeso.


Non avere più una identità o vederla schiacciata continuamente: Alda Merini si fa portavoce di una realtà immonda, una realtà che soffoca la creatività, che macchia e infetta. Aggrapparsi a quello che si ha o che si può avere (un pacchetto di sigarette allo "spaccio", una dose di Valium per dormire, un'amicizia che si consuma tra i fiori), solo per allontanare il sentimento predominante del manicomio: la colpa. Colpa di non riuscire a dormire, colpa di pisciarsi sotto prima di un elettroshock, colpa di amare. Alda non può accettare la distruzione del suo essere donna e ama, ama, ama. Anche al "Paolo Pini".

«Così, io e Pierre, adagiati sulle rose e sulle spine godemmo del primo amplesso del nostro amore. E fu amplesso che durò millenni, il tempo della nostra esecrazione. E da quell'amplesso senza peccato nacque una bimba. [...] Ciò che noi desideravamo in quel luogo dissacrante era di "creare"; e ci eravamo riusciti, noi due giudicati pazzi avevamo dato vita a una creatura e ora nessuno poteva dividerci. [...] Era quello il primo frutto bello, non intaccato, che usciva da un luogo di alienazione.»


Un lungo silenzio quello della poetessa in manicomio: è il dottor G. a rimetterla alla macchina da scrivere. Lentamente Alda si riappropria della propria essenza rifiutata, rifugiandosi nei suoi versi e nella sua vita, allontanando le brutture dell'internamento e rinvigorendo la propria energia. 



Io sono certa che nulla più soffocherà la mia rima,
il silenzio l'ho tenuto chiuso per anni nella gola
come una trappola da sacrificio,
è quindi venuto il momento di cantare
una esequie al passato.

Una buona lettura a tutti voi:
  • Alda Merini, Vuoto d'amore, Giulio Einaudi Editore, 1991
  • Alda Merini, L'altra verità - Diario di una diversa, Rizzoli, 1997

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