mercoledì 14 novembre 2012

"La neve se ne frega" di Luciano Ligabue


«Fagli vedere il mare, piccola. Guarda tuto il mare che puoi. Infila tutto negli occhi da brava ingorda. Non stancarti di farlo. Per favore, non stancarti. Fagli "sentire" il mare con i tuoi occhi. Porgi anche il suo orecchio perchè possa sentirne i rumori ipnotici e quelli che non lasciano scampo.»

 L'uomo si distingue dagli altri animali perché è l'unico capace di ridere, ad avere un corso della vita "dritto" (mentre gli animali, che buffa cosa, nascono giovani e muoiono vecchi!) e a non riprodursi.
Questa è una verità semplice e all'ordine del giorno per DiFo e sua moglie Natura. Il Piano Vidor, la dittatura ipertecnologica che monitora ogni movimento dei cittadini, pianifica loro le esistenze, li fa nascere da una bolla generatrice e li abbina, in cambio garantisce loro i diritti, il «diritto ai diritti» e la felicità.
Nel pieno della giovinezza (cioè verso i sessant'anni), però, Natura mostra una strana anomalia. La sua pancia ingrossa, è tormentata da nausee e nessun medico sa fornirle una diagnosi.
Da secoli quella società ha dimenticato come sia una gravidanza umana e nessuno sembra riuscire a farsene una ragione, né a farvi fronte. Ma soprattutto, il Piano Vidor non è disposto ad accettare un simile regresso della specie.
La storia di DiFo e Natura è soprattutto una storia d'amore e una storia sul mistero, sul miracolo della vita. E' una strana fiaba sulla natura dell'uomo, una proiezione da incubo (o da sogno?) sul nostro futuro sempre più tecnologico e scientificamente sviluppato.
Se è vero che non ho apprezzato completamente lo stile di Ligabue, che mette in bocca ai suoi personaggi della fine del XXII secolo espressioni molto molto provinciali (e che sanno poco di fantascientifico), è vero anche che sono rimasta dolcemente affascinata dalla sua trama.
Quel mondo capovolto finisce col risultare pienamente verosimile e ritrovarsi in un mondo senza telecamere (o quantomeno con poche telecamere) in cui i neonati sono neonati e non «vecchietti dell'asilo» dà un'intensa nostalgia.
Questo libro è stato capace di suggestionarmi come pochi altri. Credo valga più di una recensione, per dettagliata che sia, questa ammissione: sono davvero felice di averlo letto (e grazie a Clem che mi ha praticamente costretto!).

«Ti lasciavi andare. Ti consegnavi a un destino che nessuno ti aveva confermato. E lo facevi da sola. Come non volessi ricordare che, qualunque fosse stato il cammino, qualunque la meta, io ci dovevo essere.»

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