mercoledì 21 novembre 2012

"L'amico ritrovato" di Fred Uhlman


"Non vidi il fuoco né udii le grida della madre e della cameriera, ma appresi la notizia il giorno dopo, quando i miei occhi si posarono sui muri anneriti, sulle bambole carbonizzate e sulle funi bruciacchiate dell'altalena, che dondolavano come serpenti dall'albero accartocciato. Ne rimasi sconvolto, come mai prima di allora. Avevo sentito parlare di terremoti nei quali erano state inghiottite migliaia di persone, di fiumi di lava incandescenti che avevano travolto interi villaggi, di onde gigantesche che avevano spazzato via le isole. Avevo letto che un milione di persone erano annegate durante l'inondazione del Fiume Giallo e altri due in quella dello Yangtse. Sapevo che a Verdun avevano perso la vita un milione di soldati. Ma non erano che astrazioni, numeri privi di significato, dati statistici, notizie. Non si può soffrire per un milione di morti. (...) «Non li vedi bruciare?» gridai disperato. «Non senti le loro urla? E hai ancora il coraggio di giustificare l'accaduto perché sei troppo pavido per vivere senza il tuo Dio? Cosa ci può servire un Dio privo di potere e di pietà? Un Dio che se ne sta nel suo paradiso e tollera la malaria e il colera, la carestia e le guerre?»"



Chi legge le pagine di questo libro ha come l'impressione di trovarsi sospeso in un'epoca intermedia, un'epoca a metà tra il presente e il passato. Forse è per questo che la prima volta l'ho abbandonato. Noi leggiamo da una postazione super partes, "protetti" dagli anni di storia che ci hanno preceduto: un ebreo degli anni Trenta non aveva le spalle coperte. Il nazifascismo era ancora troppo astratto per costituire una minaccia, ma già per le strade si avvertiva il terrore di chi, a causa delle proprie innegabili radici, doveva ritenersi un emarginato, un inferiore.
Questa è la storia dell'amicizia tra due sedicenni: uno (il protagonista, che parla in prima persona) è figlio di un medico ebreo, l'altro è discendente della gloriosa dinastia degli Hohenfels. Il suo nome è Konradin.
L'autore ci trasporta nella Stoccarda nazista del 1933: partendo da un'innocente amicizia, egli mette in scena la triste realtà dell'epoca, in cui divampano il bullismo in nome della razza ariana, la pressione psicologia, l'intolleranza, la perdita di identità. I tedeschi sono ammaliati dalla figura carismatica di Hitler, gli ebrei restano, gli ebrei partono. E da ebreo parte il nostro protagonista, alla volta dell'America, lasciando i propri genitori, che vogliono morire nella loro amata Germania, che pur li ripudia.
Dopo trent'anni, l'autore scrive "un libro che assilla la memoria", e i ricordi sembrano ricamati su una stoffa indistruttibile, sulla quale si vedono il dolore, la mistificazione, l'umanità tradita. Ciò che lo riporta al passato è una lettera da parte del suo vecchio liceo (il Karl Alexander Gymnasium), che contiene una richiesta di fondi "per l'erezione di un monumento funebre alla memoria degli allievi caduti durante la seconda guerra mondiale". In allegato, un libretto con la lista di tutti i caduti, in ordine alfabetico. I nomi sono ricordi. Legge e rilegge, saltando i cognomi che iniziano per H. Che fine ha fatto Konradin von Hohenfels?
Lascio a voi la sorpresa.


"Com'era inevitabile, alcuni tedeschi hanno incrociato la mia strada, brave persone che erano finite in prigione per essersi opposte a Hitler. (...) Ma anche con loro fingevo di avere qualche difficoltà a parlare tedesco. È una specie di facciata protettiva che adotto quasi (ma non del tutto)inconsciamente quando devo parlare con un tedesco. In realtà mi esprimo ancora perfettamente, accento americano a parte, ma non amo servirmi della mia lingua d'origine. Le mie ferite non si sono ancora rimarginate e, ogni volta che ripenso alla Germania, è come se venissero sfregate con il sale."



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