domenica 3 aprile 2022

Inventare il futuro, di Srnicek e Williams

Il mondo di oggi rimane invece costretto all'interno dei parametri imposti dal "realismo capitalista". Il futuro è stato cancellato: siamo più inclini a credere che la catastrofe ecologica sia imminente, la militarizzazione della società inevitabile e l'aumento delle diseguaglianze inarrestabile. 

 Manifesto risalente a sette anni fa, Inventare il futuro di Srnicek e Williams sembra provenire da un passato ben più remoto. In quegli anni ’10 del Duemila si cominciava a pensare, in forme contraddittorie e spesso ingenue, a nuove forme di stato sociale, a nuovi modi di produrre e redistribuire la ricchezza globale, ad una nuova concezione dello Stato e della democrazia.

In Italia abbiamo assistito alla parabola del Movimento 5 Stelle che si è fatto portatore di molte di queste nuove istanze politiche e sociali. Dalle utopiche riflessioni sulla decrescita felice all’elaborazione di forme di democrazia diretta fondate sulla partecipazione virtuale, questo movimento è arrivato in parlamento, diventando un partito tradizionale sia nell’organizzazione che nelle idee politiche, sempre più vicine alla socialdemocrazia della seconda metà del novecento.

A prescindere dal caso specifico, in questi anni abbiamo capito – soprattutto dopo l’esperienza del covid -  che la partecipazione politica non può non essere fisica, che le nuove tecnologie possono essere un supporto per nuove forme di aggregazione, ma non possono sostituire quelle tradizionali. Che è fondamentale una nuova redistribuzione della ricchezza, un nuovo modo di teorizzare e progettare lo stato sociale, ma che questo non può ridursi ad uno stato “minimo” che si limita ad elargire un reddito di base, tralasciando di occuparsi dei servizi fondamentali quali l’istruzione e la sanità. Così come non possono ridursi ad uno stato minimo e liquido i movimenti politici che propagandano e diffondo idee di riforma e progresso sociali.

Rileggere un testo come quello di Srnicek e Williams alla luce di un tempo diverso da quello in cui è stato scritto aiuta da un lato a riflettere sul nostro più recente passato, dall’altro a riprendere quei concetti che erano validi e degni di discussione allora e che lo sono altrettanto oggi, e lo sono ancora di più proprio per le esperienze e per i cambiamenti che abbiamo affrontato in questi anni.

Il manifesto dei due autori si divide in una parte critica e in una programmatica. Nella prima parte viene criticata, con il nome di folk politics, quella tendenza della sinistra europea e statunitense contemporanee a frammentarsi in tanti piccoli movimenti che portano avanti rivendicazioni molto specifiche e spesso rivolte ad un passato piccolo borghese, artigianale, che non può costituire un’alternativa valida al capitalismo sempre più aggressivo, tecnologicamente avanzato e capace di fagocitare le più diverse forme di vita.

Da Occupy Wall Street ai movimenti per lo slow food, la tendenza dei movimenti critici nei confronti del capitalismo globale hanno fatto della loro debolezza politica il loro eroismo, della loro ineffettualità la loro superiorità etica, della loro incapacità organizzativa la loro utopica creatività. Sulle radici filosofiche e teorico-politiche di questo fenomeno gli autori non si soffermano, ma è un capitolo della storia contemporanea su cui vale la pena riflettere.

Ad ogni modo, questa impostazione della lotta sociale e politica si è rivelata fallimentare, e non poteva non fallire. Questo perché l’organizzazione neoliberista della società globale – nelle sue diverse forme di sussunzione – non è il frutto di una contingenza storica, ma di un progetto articolato in diverse fasi, intelligentemente organizzato e tenacemente portato avanti. Srnicek e Williams ripercorrono la storia del neoliberismo novecentesco che nasce come una teoria economico-politica fortemente minoritaria rispetto al keynesismo, soprattutto nella seconda metà del Novecento. Ebbene, una minoranza di economisti e uomini politici ha portato avanti un progetto egemonico in controtendenza rispetto ai tempi fino alla sua piena realizzazione, formando e mandando nel mondo intellettuali, politici, uomini di scienza.

Gli autori omettono un piccolo particolare. La minoranza neoliberista appartiene comunque ad un’élite borghese che aveva mezzi e risorse per poter costruire la sua egemonia, al contrario dei ceti subalterni e dei popoli sfruttati di tutto il mondo. Tuttavia, la loro analisi, pur presentando delle ingenuità, incoraggia all’azione, alla riflessione, cerca di opporre delle argomentazioni ragionevoli al fatalismo rassegnato dell’opinione pubblica occidentale.

Alla folk politics si contrappone l’universalità di un nuovo pensiero riformista e progressista. La più specifica delle questioni si inserisce in un contesto globale che va analizzato e compreso. Solo alla luce di questa comprensione totale e dei nessi che legano le specifiche problematiche della nostra società, è possibile costruire una rete di movimenti guidata da un centro coordinatore teorico e pratico. Questo “centro” io lo chiamerei “partito”, ma gli autori a questo proposito non si pronunciano.

Qual è, dunque, la visione politica che si abbozza in questo saggio? La tesi di fondo è che nella società contemporanea il lavoro non sia più necessario e che la piena automazione sia ormai una possibilità concreta. Già Herbert Marcuse, quasi settant’anni fa, aveva prospettato questa possibilità come via d’uscita e superamento della società capitalistica, che aveva creato un surplus prestazionale e repressivo che superava “l’ordinaria” amministrazione repressiva della società. Più la società capitalistica si accresce e complica, aumentando i propri bisogni, incrementando e migliorando le sue capacità produttive, sussumendo sotto di sé l’intero globo terrestre, più il disagio della civiltà diventa insostenibile e più diventa necessario amministrare non solo il tempo di lavoro degli esseri umani, ma anche il loro tempo libero, il loro modo di pensare, le loro pulsioni creative più spontanee. L’automazione permetterebbe di liberare proprio questa pulsioni e di “umanizzare” la civiltà meccanizzando il lavoro.

Secondo Srnicek e Williams la nuova sinistra deve abbandonare l’ideologia del lavoro cui è stata ancorata per più di un secolo ed abbracciare questa nuova ideologia del non lavoro, del reddito universale e della piena automazione del sistema produttivo. In questo modo, quel surplus di popolazione mondiale che viene emarginata dai processi produttivi, relegata a forme di economia di sussistenza, sopraffatta dalla miseria, dalla disperazione e dell’angoscia, potrebbe finalmente ricchezza che gioverebbe e sarebbe indirizzata all’umanità stessa, e non ritorta contro di essa.

Questo assunto universale si declina a seconda delle condizioni materiali, della storia e della cultura dei diversi popoli ma, in linea generale, è una prospettiva che coinvolge tutti gli esseri umani e che permetterebbe l’emancipazione delle classi e dei popoli oppressi. E questo proprio in una società in cui lavoro che fai segna profondamente chi sei e in cui non lavorare è visto come una colpa imperdonabile, come uno stigma che ti relega ai margini della società.

Un ultimo punto interessante. Per i due autori il problema del surplus di popolazione non è legato necessariamente a momenti di crisi economica. Si sta verificando il fenomeno per il quale anche quando l’economia è in crescita, i posti di lavoro diminuiscono e non soltanto nei paesi a capitalismo avanzato, ma anche in quelli in via di sviluppo. Il problema della popolazione “in eccesso” rispetto alle attività produttive potrebbe diventare un problema sempre più grave anche qualora si dovesse superare la crisi economica che, a fasi alterne, caratterizza gli ultimi quindici anni di capitalismo globale.

Nel saggio si descrive il mondo che dovrebbe sorgere dall’abolizione del mondo del lavoro come “post capitalismo”, termine che non mi trova d’accordo, perché ci fa capire come l’alternativa al capitalismo sia ancora talmente nebulosa da non avere nemmeno un nome, e come il capitalismo ci sembri ancora l’unico dei mondi possibili, sebbene non il migliore. Ma, come gli stessi autori ammettono, il percorso teorico e pratico è ancora lungo e difficile, tutto da costruire.  

 

 

 

 

 

venerdì 11 febbraio 2022

Il lavoro e il sogno della contemporaneità

 

In un’epoca in cui, nella civiltà occidentale a capitalismo avanzato, il lavoro è diventato sempre meno necessario, esso si vela di caratteristiche sempre più magiche e fantasmagoriche, miraggio che promette appagamento, sicurezza economica, fiducia in se stessi, riposo dopo tanti e spesso vani sforzi.

L’idea di trovare un Lavoro che ci sollevi finalmente dall’insopportabile peso dei mille “lavoretti”che si è costretti a fare per vivere, dei tanti compromessi per poter essere accettati, riconosciuti e apprezzati in un determinato ambiente sociale – sia questo la famiglia, la cerchia di amici, l’azienda in cui si vuole far carriera, l’accademia o il bar sotto casa – è il faro che guida la nostra condotta nel rapporto con noi stessi e con gli altri, con i pari e con i superiori.

Pochi di noi nati nel 1990 o giù di lì possono negare di aver sentito quel peso e quell’angoscia derivanti da un profondo senso di inadeguatezza e di smarrimento dovuti al fatto di essersi trovati sospesi nel vuoto dopo aver percorso tutto d’un fiato una strada che ci sembrava certa e sicura. Quella strada che i nostri genitori avevano percorso o sulla quale ci avevano immaginati e sognati, felici e grati dei loro sforzi.

Le cose sono andate diversamente. E continuano ad andare diversamente per le generazioni successive. Quelle strade non sono più sicure, ma piene di buche e insidie, di trappole in cui si può cadere. E morire.

Il sogno di un lavoro sicuro e appagante si trasforma in un incubo sia perché è difficilissimo da raggiungere e richiede molto tempo e fatica, sia perché questo traguardo così importante, posto in cima ad un’altissima montagna che siamo spinti a raggiungere, condiziona tutta la nostra esistenza, il nostro presente, che diventa un impercettibile passaggio tra un passato da dimenticare e un futuro da inseguire.

In una società in cui la fatica non è più necessaria, come giustificare questa corsa insensata? Più il lavoro diventa inutile, più l’individuo è valutato sulla base delle proprie capacità prestazionali e delle proprie competenze specialistiche. Se da un punto di vista oggettivo si fa concreta la possibilità di vivere degnamente senza doversi sobbarcare la fatica del lavoro, dal punto di vista soggettivo gli individui si convincono che la loro professione qualificata sarà ciò che li renderà felici, protagonisti all’interno della società, amati e rispettati. Gli individui si convincono che una volta raggiunto il loro scopo non saranno più soli, che non dovranno più lottare, che avranno vinto sulle pressioni sociali. Noi uomini contemporanei occidentali viviamo nella contraddittoria e illusoria convinzione che possiamo diventare liberi dall’angoscia che ci viene dalla società, dal grande Altro che ci giudica e ci osserva – che per ognuno di noi assume un volto diverso – solo se ne assecondiamo ogni richiesta o, ancora meglio, se riusciamo ad intuire anticipatamente queste richieste e a soddisfarle ancor prima che ci vengano fatte.

Siamo educati e diretti verso la “realizzazione” di noi stessi, che non è estrinsecazione libera e gioiosa della nostra personalità, ma darwiniano adattamento alle condizioni ambientali, a quella seconda natura che è la nostra civiltà. Oggi le condizioni ambientali si fanno sempre più dure e i sacrifici necessari per l’adattamento sempre più dolorosi. I sintomi, i ritorni di ciò che viene rimosso, le coazioni a ripetere riemergono sempre più frequenti.

 Inquietante, sorge un dubbio: è davvero necessario? Ne va davvero della nostra sopravvivenza? Se non si riesce a vincere la lotta per l’adattamento è necessario rinunciare a vivere?

Comincio a credere che nella risposta che diamo a questa domanda ne vada davvero della nostra vita. Ma in un senso contrario a quello dell’ideologia della prestazione e della “realizzazione di sé”. Penso che inseguire questo falso idolo stia diventando pericoloso per la nostra vita, che l’adattamento all’ambiente non sia più giustificato dalla necessità della sopravvivenza ma che, al contrario, ci conduca alla morte. Le modalità e le manifestazioni di questo principio distruttivo e mortifero sono innumerevoli,  vanno dalla morte intesa in senso metaforico come annichilimento delle pulsioni più vitali e creative degli esseri umani – e non solo – alla morte reale.

D’altro canto penso che ogni manifestazione di rifiuto di questa logica annichilente sia un moto della vita che non riesce a negare se stessa e che raccoglie le sue poche e deboli energie per fronteggiare il processo della sua distruzione. Molto probabilmente mancare del tutto o in parte l’adattamento potrebbe salvarci dalla morte, magari permetterci di fare esperienza di forme di appagamento differenti, di scoprire una nuova vita. Più morbida, più dolce, più adatta a noi.

 

 

 

giovedì 18 febbraio 2021

"Il racconto dell'ancella" di Margaret Atwood


Fraternizzare
significa comportarsi da fratelli. Me l'ha detto Luke. Diceva che non c'era una parola equivalente che significasse comportarsi da sorelle. Avrebbe dovuto essere sororizzare, diceva lui. Dal latino. Gli piaceva sapere queste cose. La derivazione delle parole. Io lo prendevo in giro per la sua pedanteria.

Questo è un libro scritto e narrato da una donna. 

Fin dalle prime pagine si comincia a delineare uno scenario distopico. Si tratta del regime di Gilead, la società a cui approderemmo se vincesse la logica del "È stata stuprata perché aveva la gonna corta". Una società di questo tipo è una società che "eleva" la donna a creatura debole, bisognosa di protezione e di salvaguardia perché custode del dono della procreazione. Di contro, ogni mancata fecondazione non è mai causata da una deficienza dell'apparato riproduttivo maschile, ma esclusivamente da una infecondità patologica della donna. Le donne sterili, incapaci dunque di assolvere al diritto-dovere di procreare, sono esiliate nelle Colonie e prendono il nome di Nondonne. 

L'emancipazione fisica mentale e sociale della donna e l'approdo ad una mercificazione del corpo femminile, in Gilead, vengono estremizzate al punto da essere ribaltate: e se riuscissimo davvero a instillare nei più la concezione secondo cui la donna, mostrandosi, desacralizzerebbe il proprio corpo? Cosa accadrebbe se perseguissimo una antica gloriosa purezza che non potrebbe mai collimare con un disvelamento sacrilego del corpo? Le donne del libro finiscono così per essere rigidamente rinchiuse nei loro ruoli, delineati da abiti distinti per colore che accomunano le donne della stessa "specie": Ancelle, Marte, Mogli, Vedove, Economogli. Il regime, dichiarando nulli tutti i secondi matrimoni e le relazioni non maritali, si assicura un copioso numero di reclute donne, le Ancelle. Dapprima inviate in un istituto correttivo nel quale venga loro impartito il corretto stile di vita per adempiere al proprio dovere, quello di essere degni contenitori, vengono poi assegnate ad un Comandante, un uomo sposato e in là con gli anni la cui moglie non è stata in grado di assicurare una discendenza (ricordiamoci che la responsabilità di una mancata fecondazione ricade sempre sulle donne, siano esse di basso o di alto rango). È qui che le Ancelle vengono spogliate persino del proprio nome: Offred, il nome della protagonista narrante, non è altro che un patronimico, composto dalla preposizione con valore possessivo (of-) e dal nome di battesimo del Comandante assegnatole (Offred, di Fred). 

Il mio nome non è Offred, ho un altro nome, che adesso nessuno usa perché è proibito. Mi dico che non è importante, un nome è come un numero di telefono, utile solo per altri; ma mi sbaglio, è importante. Tengo la coscienza di questo nome come qualcosa di nascosto, un tesoro che tornerò a scavare un giorno. È un nome sepolto, circondato da mistero come un amuleto, un amuleto sopravvissuto a un passato incredibilmente distante. La notte sto sdraiata sul letto, con gli occhi chiusi, e il mio nome è lì, sospeso dietro gli occhi, non del tutto a portata di mano, che brilla nel buio. 

Alle donne non è permesso leggere. L'unica lettura di cui possano godere è quella di alcuni passi della Bibbia letti dal Comandate nei giorni di Cerimonia, i giorni cioè in cui avviene un atto sessuale prestabilito e controllato tra l'Ancella e il Comandante. Non c'è spazio per la passione o l'erotismo. Quello che avviene in quei giorni è una trattativa d'affari stipulata sotto il vigile occhio della padrona di casa, niente di più. 

Lì sotto il Comandante sta fottendo. Ciò che sta fottendo è la parte inferiore del mio corpo. Non dico fare l'amore, perché non è ciò che sta facendo. Anche copulare non è l'espressione esatta, perché indica la partecipazione di due persone mentre qui solamente uno di noi è coinvolto. Neanche parlare di stupro sarebbe giusto, perché non sta succedendo nulla che io non abbia sottoscritto.

Gilead, patriarcale nella forma e matriarcale nel contenuto, è una fandonia. Gli uomini di alto rango, quelli che posseggono la parola, continuano a godere delle proprie piccole o grandi perversioni: possedere tante donne e farne delle puttane o delle sante a loro piacimento. Scopo del regime, messo a punto dagli uomini e dagli uomini gestito, effettivamente non è la sublimazione della figura femminile, ma la possibilità di aizzare le donne le une contro le altre. Uno Stato come questo giustifica la violenza se indirizzata ai traditori, ma punisce chi attenta alla vita degli schiavisti degli alti ranghi; rifugge da qualsivoglia iniziativa solidale tra i suoi membri, ma concede grandi manifestazioni per le esecuzioni capitali; eleva la donna a simbolo di purezza, ma permette che i Comandanti frequentino club in cui altre donne vengono costrette a prostituirsi. Lo Stato si fa garante del benessere dei propri cittadini, che sono considerati inabili alla scelta del proprio bene. Ma fin dove è lecito per un garante spingersi nella limitazione della libertà? E ammesso che il fine sia giusto (giusto per chi?), il fine giustifica il mezzo?

Questi e altri gli spunti di riflessione che offre questo libro. Una lettura quasi d'obbligo per donne e uomini del nostro tempo. 

martedì 23 giugno 2020

Reggio: la rabbia esplode. Un ricordo dal Canzoniere delle Lame - Janna Carioli


Janna Carioli, mitica componente del Canzoniere delle Lame, ci racconta di quando compose la canzone "Reggio: la rabbia esplode", in occasione dei moti scoppiati a Reggio Calabria, cinquant'anni fa, per la definizione del nuovo capoluogo di Regione.
Erano tempi in cui una solidarietà, oggi dimenticata, univa i compagni e le compagne, da un capo all'altro dell'Italia, per combattere insieme una lotta comune. E per combattere, ci si serviva anche della musica.



In questi giorni, su molti giornali, si ricordano i pesantissimi scontri avvenuti 50 anni fa per la definizione del capoluogo dell’allora neonata Regione Calabria. Il contendere era fra Catanzaro e Reggio. Ovviamente non era questione di campanile ma di soldi.
Tanti soldi.
La destra e dietro di lei la ‘ndrangheta si mobilitarono attivamente per ottenere che il capoluogo fosse a Reggio e non nella designata Catanzaro.A me capitò di partecipare a quella avventura.
All’epoca facevo parte del Canzoniere delle Lame, un gruppo che cantava canzoni di protesta.
In genere facevamo concerti nella nostra regione o poco più lontano, ma un giorno ci arrivò un S.O.S da Reggio Calabria.
Ci telefonò un funzionario della federazione del PCI di Bologna che era stato mandato in Calabria per “dare una mano” ai compagni calabresi.
“Dovete venire qua subito a fare concerti. I fascisti sono pieni di soldi e fanno dischi, manifesti, materiali di propaganda. Noi non abbiamo nulla, serve un aiuto”.
Prendemmo le ferie e ci sciroppammo 1500 chilometri per andare in Calabria.
Rimanemmo una settimana durante la quale cantavamo in media quattro volte al giorno.
La situazione era pesantissima. Il primo concerto lo facemmo a Reggio, nel quartiere di Sbarre, mentre a una ventina di metri dal palco un gruppo di ragazzini di 8 anni rovesciava macchine. In un paese qualcuno mise una bomba davanti alla porta del sindaco (democristiano) perché aveva dato il permesso di fare il nostro concerto.
Ovunque ci chiedevano di scrivere una canzone che parlasse di loro, di quello che succedeva, delle lotte che stavano facendo. Ma con tutta la buona volontà a me quella canzone proprio non veniva. Alla fine della settimana avevamo le tonsille in fiamme. Avevamo fatto 20 concerti in 5 giorni. Le ferie erano finite e dovevamo assolutamente rientrare.I lunghissimi 1500 chilometri del ritorno li feci guidando il pullmino, con un foglietto sulle ginocchia. A mano a mano che i brandelli di quella esperienza tornavano a galla nella mente, scrissi la famosa canzone che non mi era venuta durante tutta la settimana.
All’ultimo autogrill prima di Bologna la canzone era fatta.
Ci procurammo dei gettoni (allora i telefoni pubblici funzionavano così) e chiamammo Reggio Calabria.
“La canzone è uscita… ma magari non vi serve più!”.
“Ci serve e come! Mandateci subito 1000 dischi”.
Il giorno seguente eravamo in uno studio a registrare e una settimana dopo mille 45 giri partivano per Reggio.
Come andò a finire lo leggemmo sui giornali: Reggio Calabria diventò capoluogo della Regione.
Della sorte dei dischi non avemmo più notizie. Poi, un anno dopo, in treno, sentimmo che nello scompartimento a fianco cantavano la canzone che avevo composto.
Rimanemmo esterrefatti e andammo a chiedere col tono più indifferente possibile, che canzone fosse mai quella.
“Una canzone delle parti nostre”, ci fu risposto.
Non dissi che l’avevo scritta io.
Per un cantante popolare come mi ritenevo a quell’epoca, il fatto che quella canzone fosse stata adottata e riconosciuta come “delle parti loro” era una medaglia sul petto.




Reggio, la rabbia esplode la miccia brucia già
Ma chi l'ha accesa sono gli stessi che vendon fame qua. 
Il capoluogo serve alla D.C. e ai mafiosi 
Per ottenere ancora più potere di quello che hanno già. 
Il sindaco Battaglia serve da copertura 
Dietro ha gli agrari, i proprietari tutta la mafia nera. 
Non costa far promesse alla povera gente 
Che cosa importa se alla fine si fa scannar per niente. 

Reggio la rabbia esplode

La miccia brucia già 
Ma chi l'ha accesa 
Sono gli stessi 
Che vendon fame qua. 
Le barricate a Sbarre la gente spara già
Spara miseria, spara la fame ma non sa contro chi. 
Fascisti con le bombe mafiosi col potere 
I proletari solo le braccia hanno da far valere. 
Fascisti quelle bombe vi scoppieranno in mano 
I comunisti alla violenza hanno risposto no. 

Reggio, la rabbia esplode

La gente adesso sa 
Contro chi deve usare la rabbia 
Fascismo non passerà

giovedì 23 aprile 2020

Xenofemminismo, di Helen Hester


Lo Xenofemminismo, o XF, può essere visto in un certo senso come un lavoro di bricolage, dato che sintetizza cyberfemminismo, postumanesimo, accelerazionismo, neorazionalismo, femminismo materialista e altro ancora, nel tentativo di dar forma ad un progetto adeguato alle condizioni politiche dell’epoca contemporanea.

Quando ho cominciato a leggere queste prime righe dell’Introduzione, ho pensato che questo saggio di Hester pubblicato nel 2018 negli Stati Uniti e tradotto in italiano nello stesso anno, fosse uno di quegli esercizi di eclettismo sterile che spesso ho incontrato nel mio non molto lungo percorso di lettrice di testi femministi. 

In buona parte mi sono dovuta ricredere.  La mia maggiore perplessità riguardo al femminismo contemporaneo e agli studi di genere è la loro parzialità, l’astratto formalismo, l’esercizio elementare di catalogazione dei gusti sessuali e dei cambiamenti di genere che dà origine ad una serie di categorie alienate rispetto al contesto storico, economico e sociale, nei confronti del quale spesso si tiene un atteggiamento di spocchiosa indifferenza, quasi a voler dire “Ma ancora dobbiamo occuparci di questioni sociali? Il tempo delle lotte di classe è finito!” L’eclettismo, l’individualismo e l’aperta o inconscia adesione all’ideologia di destra, l’antimarxismo latente o palese che caratterizza spesso questi scritti, mi ha resa diffidente e dubbiosa nei confronti di questo indirizzo di ricerca filosofica, ormai ben collaudato e con la sua strutturata egemonia.

Non è il caso del manifesto di Hester, la quale, aldilà di alcune eccentricità linguistiche e contenutistiche tipiche di certa letteratura statunitense, elabora alcuni concetti che permettono ai movimenti e alla teoria femministi di ampliare la loro prospettiva, inserendo la questione dell’identità del genere nel contesto in cui si dà. Proprio perché l’identità non è una definizione teorica, ma una prassi politica, è all’ambiente sociale, all’organizzazione politica, al tempo storico che bisogna guardare.

I concetti fondamentali che consentono ad Hester di ampliare la sua prospettiva di genere sono il tecnomaterialismo, l’antinaturalismo e l’abolizionismo del genere.

A voler essere pignoli, il termine “tecnomaterialismo” è frutto di una non necessaria fusione tra il materialismo (storico-dialettico) e una certa filosofia borghese che fa della tecnica un problema in sé, penso ad esempio ad Heidegger. Per il materialismo la tecnica è un problema che c’è sempre, in ogni epoca storica, e allo stesso tempo non è mai un problema in quanto tale: il problema delle macchine sta nell’uso che se ne fa, ossia nei rapporti sociali che sono costruiti attorno all’uso e alla produzione delle macchine, intorno ai fini dell’utilizzo delle tecnologie. Ma perdoniamo questo neologismo ad Hester poiché è proprio questo il problema che l’autrice intende porre: come si caratterizza il mondo del lavoro nell’epoca dello sviluppo tecnologico? Come la tecnica influenza la riproduzione biologica e sociale?
Già Marcuse si era posto questi problemi negli anni cinquanta, interrogandosi sulle potenzialità dello sviluppo tecnologico in atto, ma anche sulle forme di alienazione causate dall’uso capitalistico e monopolistico delle macchine. L’impostazione di Hester è molto simile: lo sviluppo tecnologico dà all’uomo l’opportunità di migliorare e progredire, ma questa fiducia nel progresso non è cieca e acritica.

L’antinaturalismo  è invece un termine che si collega alla tradizione marxista e progressista: inchiodare un’identità, un soggetto, una comunità alla natura è tipico del pensiero conservatore, per cui le cose sono quello che sono e sono immutabili, perché così ha voluto la Natura, o Dio, o una qualche altra Autorità. Per un manifesto progressista come Xenofemminismo, la riproduzione biologica e la riproduzione sociale si intersecano nel corso dello sviluppo storico. La tecnica rende ancora più visibile questa interconnessione, ed è proprio qui che si pone il problema politico del governo di questo sviluppo tecnologico, che deve favorire la libera espressione dell’identità di genere dei singoli, l’esercizio del diritto di volere o non volere dei figli, questioni che non sono identiche per tutti ma che si differenziano a seconda delle classi sociali e delle condizioni economiche in cui versano gli individui.

Infine l’abolizionismo di genere sostiene che obiettivo delle lotte dei movimenti femministi e di genere è l’abolizione dei generi stessi, ossia il conseguimento di una uguaglianza tra gli uomini tale che permetta loro di poter scegliere il proprio genere di appartenenza (con tutte le infinite sfumature tra un genere e l’altro) senza dover subire alcuna discriminazione. Un’anarchia sessuale fondata su poche regole condivise ed inclusive.

Per quanto abbozzato, questo manifesto costituisce il tentativo di elaborare, a partire dalle condizioni attuali, dalle tradizioni e dalle pratiche di cui disponiamo, una teoria progressista e razionale, critica nei confronti dello stato di cose e che prospetta nuove possibilità.


domenica 5 aprile 2020

Ri-bilanciare i poteri tra Governo e Parlamento quando il virus sparirà - Marina Calamo Specchia


In tempi di pandemia da Covid-19, in quale organo vanno collocati i poteri normativi?
Le pandemie rientrano negli stati d’eccezione che prevedono deroghe alla normativa vigente. Le democrazie costituzionali contemporanee regolano gli stati d’emergenza, prevenendo gli sconfinamenti dell'un potere a discapito dell'altro. La nostra forma di governo parlamentare, nomen omen, si poggia sul Parlamento e sulla relazione triadica che s’instaura con Governo da un lato e Presidente della Repubblica dall'altro. La Costituzione prevede tre disposizioni da attivare in momenti di eccezione: l'art. 77 della Costituzione disciplina i decreti-legge del Governo in casi straordinari di necessità e urgenza da convertire in legge; l'art. 78 prevede la dichiarazione dello stato di guerra con legge; l'art. 120 autorizza il Governo ad avocare le competenze amministrative regionali per disporre misure uniformi su tutto il territorio nazionale, sulla base di una legge. Tutti gli atti emergenziali prevedono l'intervento della legge del Parlamento a monte o a valle: oggi, il decreto legge è lo strumento corretto per disciplinare la crisi, ma esso non può istituire una delega in bianco alla normazione secondaria (il DPCM sottratto al controllo del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale) che limiti diritti e libertà fondamentali. Cosa è accaduto di fatto? Il Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020 ha disposto per sei mesi lo stato di emergenza costituzionale, bypassando il Parlamento, e il decreto-legge n. 6/2020 ha delegato il DPCM ad adottare le più corpose limitazioni dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini. Solo il Parlamento, quindi, potrebbe ripristinare la legittimità costituzionale violata. Invece in questo clima da “guerra virologica”, il Parlamento delibera “a ranghi e tempi ridotti” su decisione dei Presidenti delle Camere, quasi a sanzionare la “morte annunciata” dell'organo rappresentativo: la decisione di limitare l'ingresso ai parlamentari contagiati dal virus e di concentrare le sedute, senza predisporre forme telematiche di partecipazione ai lavori parlamentari contraddice la scelta del Governo di stabilire per tutti gli organi collegiali la deliberazione attraverso videoconferenze tra le misure COVID-19 (art. 73 d.l. 18/2020), utilizzando l'innovazione tecnologica a servizio della democrazia. Si potrebbe utilizzare lo strumento telematico per i parlamentari impediti? A mio avviso sì: l'articolo 64 della Costituzione richiede a fini deliberativi la presenza dei parlamentari, concetto ampio che ben può essere reinterpretato come “presenza virtuale”, alla luce dell'evoluzione giuridica e tecnologica. Si tratterebbe, però, di procedimenti eccezionali, che suggeriscono in futuro una prudente normazione attraverso la modifica dei Regolamenti parlamentari. L'emergenza finirà e forse parlare in questo momento di poteri, funzioni e garanzie può (apparire) un privilegio da intellettuali. Tuttavia, se non si pone un freno agli sconfinamenti del Governo sul Parlamento, la pandemia ci lascerà in eredità una democrazia moribonda: adesso, quando il destino impone “tempo per riflettere”, ecco, pensiamo alla Repubblica che vogliamo!


* Marina Calamo Specchia
Docente di Diritto costituzionale comparato Università di Bari
Presidente Rete solidale in difesa della Costituzione

mercoledì 11 dicembre 2019

Le Sardine e il populismo "perbene"


Nelle ultime settimane stiamo assistendo alla nascita di un nuovo movimento politico che rivendica, con garbo e compostezza, l'esigenza di una comunicazione politica più misurata, meno aggressiva, dai toni pacati ed educati. Insieme ad un nuovo galateo della politica si avanzano richieste di maggiore tolleranza nei confronti delle diversità razziali e di genere, di una più spiccata attenzione nei confronti delle questioni ambientali.
L'oceano di idee vaghe e generiche, di impressioni e sentimenti confusi in cui nuotano le Sardine acquista concretezza e densità nella sua ferma opposizione alla politica di Salvini. 
Ci chiediamo se questa opposizione sia efficace e, in generale, se il "movimentismo" che ha caratterizzato gli ultimi anni della politica italiana non abbia già mostrato i suoi limiti con l'esperienza del Movimento 5 Stelle. 
Forse le Sardine aiuteranno il PD a vincere le elezioni regionali in Emilia, forse contribuiranno a rinvigorire il fronte anti-Salvini, ma al prezzo di un eterno rimandare una riflessione più profonda sulle contraddizioni della sinistra italiana, sull'organizzazione che una forza politica di sinistra deve avere e, infine, sul senso dell'essere di sinistra nel nostro tempo.
Proprio perché non ci basta la definizione di sinistra come anti-salvinismo o come amalgama di generiche istanze di tolleranza, pace e amore, vorremmo tentare una riflessione più approfondita sul senso dei fenomeni politici italiani di quest'ultimo periodo.


Organizzazione liquida e potere carismatico
Elemento caratterizzante di un movimento politico spontaneo è la sua organizzazione "liquida". Non è costituito da alcuna struttura, non ha delle sedi in cui vengono prese le decisioni politiche o elaborati i programmi, le idee, i progetti che quel movimento intende portare avanti. Ma allora chi decide? Dove si decide? E cosa si decide?
Nel giro di pochi giorni sono già emerse delle personalità di spicco dal mare indistinto, dalla notte in cui tutte le vacche sono nere. Alcuni volti ci sono già familiari, abbiamo avuto modo di ascoltarli in televisione, sui social, di leggere le loro dichiarazioni sui giornali. Questi nuovi volti della politica rivendicano l'importanza della partecipazione alla vita democratica, di contro alla chiusura autoritaria della nuova destra.
Ma cos'è la democrazia? Se dobbiamo seguire gli umori dei diversi movimenti che si sono avvicendati sulla scena politica, la democrazia è la partecipazione diretta del "popolo" al dibattito pubblico, senza alcuna intermediazione istituzionale. La Piazza parla e incita la Politica ad essere più seria, onesta, inclusiva. I partiti sono associazioni costituite da élites che non rappresentano oramai nessuno.
I grillini e le sardine hanno molto in comune. Ci chiediamo perché i primi abbiano costituito, per buona parte degli intellettuali italiani, un movimento antipolico, mentre i secondi siano la forza viva e pulsante della Vera Politica.
Se democrazia e quello che ormai consideriamo la sua antitesi, il populismo, non sono parole vuote, contenitori  di fumosi valori astratti, allora dobbiamo capire in cosa consistano realmente, materialmente. Potremmo sostenere che se democrazia e populismo si distinguono anche - e soprattutto, a nostro avviso - per le modalità con cui le diverse organizzazioni scelgono il proprio ceto dirigente, allora le sardine sono un movimento populista, piuttosto che democratico.
Le figure di riferimento sono emerse su base puramente carismatica. Paradossalmente, l'autoritario Salvini è stato eletto democraticamente in un congresso di partito, con iscritti e sedi ben riconoscibili. Su quali procedure democratiche si fonda la leadership delle giovani sardine rampanti che parlano a nome di un popolo che non è chiaro da chi sia costituito? Sono stati eletti su una piattaforma on-line? Nemmeno. La selezione sembra fondarsi sulla capacità di attirare l'attenzione sui social. Lo stesso "metodo" con cui il Movimento5Stelle ha selezionato il suo ceto dirigente. Con i risultati che abbiamo avuto modo di vedere.

PD tra Sardine e 5Stelle
Ma tra le Sardine e i Grillini ci sono anche delle differenze che, ahimè, ispirano solidarietà nei confronti dei seguaci di Grillo e Casaleggio sul far del loro crepuscolo. I 5Stelle avevano, almeno ai loro esordi,  quel carattere di radicalità - al netto delle idee politiche spesso improbabili - che rende un movimento uno stimolante interlocutore politico. Basti pensare ai tempi del referendum sull'acqua pubblica, alla presa di posizione a favore di Maduro, al decreto dignità e al reddito di cittadinanza, che, con tutti i difetti, hanno dato alle politiche sul lavoro una direzione opposta a quella del Jobs Act di Renzi.
E forse proprio perché i 5Stelle hanno messo in discussione le politiche del PD, quest'ultimo ha tergiversato nel cercare un dialogo, per poi intavolare un'alleanza opportunistica e senza convinzione, oltre che tardiva.
Meglio le sardine, specchio acritico di una sinistra che preferisce arroccarsi sull'aventino dell'anti-salvinismo, usato come pretesto, dal PD e da tanti che gli gravitano attorno, per non mettere in discussione le politiche attuate negli ultimi anni, per non ascoltare le istanze sociali più profonde.
Un nuovo movimento dietro il quale schermare le esigenze delle classi popolari, di tutti coloro che non ce l'hanno fatta a tenere il passo con i processi di globalizzazione, che dalla crisi non si sono mai ripresi e che la destra è pronta a sedurre per vincere. E, molto probabilmente, vinceranno. Sardine o no.

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