mercoledì 20 gennaio 2016

Lettera al maestro Ettore Scola

Maestro,
cominciando questa lettera mi viene subito in mente la scena di un suo film, C’eravamo tanto amati. Nicola Palumbo è sugli spalti ad assistere ad un discorso tenuto da Vittorio de Sica, il suo grande maestro. Per difendere Ladri di biciclette dalla critica di stampo “andreottiano”, Palumbo aveva perso il suo posto di lavoro, aveva dovuto abbandonare il suo paesino campano, la famiglia. Quel film era stato più volte decisivo nella vita di questo intellettuale fallito. Lo studente che lo accompagna, lo incita ad andare a parlare con De Sica, ma egli si rifiuta, schermendosi. Cosa dovrei dirgli, pensa Palumbo, dovrei parlargli di cose grandi, importanti e tristi  per me, e forse anche per lui.
Di cosa dovrei, di cosa potrei parlare? Di smarrimento, isolamento, paura, di un tempo inafferrabile e incomprensibile. Di cose grandi, di cose miseramente piccole, di cose tristi.
Invece le parlerò dell’orizzonte. L’idea me l’ha suggerita lei: durante una lezione di cinema tenuta durante il Bifest a Bari lo scorso anno, appena salito sul palco del teatro Petruzzelli, lei disse che non aveva voglia di parlare di cinema, ma che avrebbe voluto parlare di politica. Si rivolse ai giovani, alla mia generazione, dicendo che così non andava bene, che avremmo dovuto darci una svegliata. Ci parlò della sua generazione, quella che aveva vissuto gli ultimi anni del fascismo, che aveva vissuto la guerra, la caduta del regime, che aveva visto nascere la repubblica. Ci disse che eravate tutti animati dalla voglia di ricostruire una nuova Italia, nata dalle macerie del fascismo. Che avevate un orizzonte comune verso il quale tutti insieme camminavate, spinti dallo stesso desiderio, presi dallo stesso entusiasmo.
Non riuscii a cogliere appieno il significato che lei attribuiva a quell’orizzonte. Forse perché la mia generazione non ne ha uno proprio, perché siamo dispersi, sparpagliati per il mondo a sprecare le nostre energie in una lotta senza senso, senza perché.
Oggi quell’orizzonte mi fa pensare ai suoi film. È quell’orizzonte che lei descrive in C’eravamo tanto amati, un orizzonte inseguito dai personaggi per tutta la vita. Quando invecchiano, si accorgono che quell’orizzonte è stato superato, che il traguardo è ormai tagliato. L’orizzonte che unisce un radiocronista omosessuale e una casalinga infatuata di Mussolini in  Una giornata particolare: due persone completamente diverse, che mai si sarebbero incontrati, parlati, compresi, se non fossero stati entrambi stretti nella morsa repressiva del regime, se non fossero stati umiliati da quell’ideale di virilità che li escludeva, li emarginava. Quell’orizzonte perduto, dissolto, che l’intellettuale “frascico” non riesce più a vedere e che lo spinge alla follia e alla disperazione ne La terrazza. L’orizzonte che la spinge, nello stesso film, a far dissertare la Sora Lella sulla crisi dell’artista, dell’intellettuale. È l’orizzonte comune che unisce l’intellettuale e le masse disperate, abbandonate, degradate, crudeli, come lei le descrive in Brutti, sporchi e cattivi. È sempre nella prospettiva di questo orizzonte che lei denuncia una situazione di degrado, e la mette in luce senza retorica, senza condanne né tantomeno assoluzioni.
Guardando con lucidità, sensibilità, genialità a quell’orizzonte, lei è riuscito a trovare le parole giuste per essere amato dalle masse, per essere capito. Ci è riuscito perché ha amato gli uomini, li ha capiti, e guardando i suoi film, si smette davvero di sentirsi parte di una massa informe. Nell’amore proletario, nella gelosia, nella sofferenza e nella gioia consumatesi nella monnezza della capitale, divenuta ormai “Carosello infernale delle macchine de Gianni Agnelli”, descritto in Dramma della gelosia, estrapola dal contesto l’unicità di ogni singolo individuo. Nell’equilibrio tra collettività e individualità sta la forza della sua poetica, che è sempre anche politica. Nella sua ironia vi è la leggerezza che deride il potere e la sensibilità di chi ama il più debole, l’arroganza e la malinconia.

Oggi mi guardo attorno e cerco quell’orizzonte. Non riesco a vederlo. Tutto si frantuma nel clima di durezza, di odio, ogni tentativo di abbattere il muro dell’indifferenza sembra essere vano. Non abbiamo i suoi occhi, la mia generazione non ha quell’entusiasmo che aveva la sua. Le idee nascono troppo fragili e impotenti per affrontare un mondo sempre più ostile. È difficile cambiare, invertire la tendenza. È difficile unirsi in collettività che non abbiano l’odio del diverso come unico collante. È difficile, ma come lei disse in quella lezione di cinema nella quale non voleva parlare di cinema, non può essere un alibi. Anche in questo caso non la capii. Forse intendeva dire che anche la disperazione comporta una responsabilità individuale che ciascuno è tenuto ad assumersi. Che il mondo, anche se non siamo stati noi a crearlo in questo modo, grava sulle spalle della mia generazione, che deve decidere in che modo portarne il peso.
O forse intendeva dire che l’orizzonte non è semplicemente qualcosa che c’è, è lì e basta guardarlo, ma che va costruito. È frutto tanto della contemplazione quanto della volontà.
Lei, maestro, ci lascia questo orizzonte. È lì, sospeso, nella speranza di nutrirsi dei nostri sguardi e delle nostre volontà. Per diventare grande e coinvolgerci tutti in un grande entusiasmo, in una risata, in una speranza.
Grazie.


1 commento:

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...