domenica 13 dicembre 2015

"La metamorfosi" di Franz Kafka



«Che cosa mi è successo?»


Una mattina il risveglio di Gregor Samsa, un commesso viaggiatore prossimo ad un viaggio d'affari, si colora di paradossale. L'addome dell'uomo si è trasformato in una pancia convessa e marrone, la schiena è una corazza dura, le gambe hanno lasciato il posto a delle zampette esili e tremolanti. Gregor si è trasformato in uno scarafaggio. Alla scoperta dell'accaduto, i familiari, visibilmente disgustati, non assumono un atteggiamento di comprensione o di accettazione dell'imprevedibile, ma di assoluto sdegno. La metamorfosi appare, ai loro occhi, come la colpa più spregevole dell'uomo (come se l'accaduto gli fosse in qualche modo appuntabile) e cominciano ad allontanarsene sempre di più. Gregor, il cui lavoro fino a quel momento era stato l'unica fonte di sostentamento per la famiglia, diventa l'emarginato. Nella logica borghese, la libertà non si configura come il "diritto alla disuguaglianza” (come scriveva Nikolaj Berdjaev), ma come la sosta in quel territorio che il senso comune chiama normalità. Il racconto lungo, scritto nel 1912 ma pubblicato tre anni più tardi, è allora una metafora dell'ipocrisia borghese: i rapporti familiari, scintillanti di perfezione, si sgretolano. A sostenerli non è l'imprescindibile legame affettivo da cui sembrano concepiti: la famiglia non è un'isola felice. È un luogo di code di paglia e di sensi di colpa. Il racconto della metamorfosi è scevro di qualsiasi spiegazione, di qualsiasi esplicita eziologia. Non è una storia di rivalsa: Gregor non tenterà mai di far valere le proprie ragioni né di lasciare la casa in cui provoca null'altro che sdegno. Si lascerà andare fino ad una morte solitaria, che si configurerà come la metafora nella metafora: la morte come accettazione dell'emarginazione, come comprensione del difetto da parte del difettoso. D'altronde i sentimenti di Gregor (di cui il lettore legge qua e là delle brevi pennellate), non sono taciuti:

«Ogni volta che i discorso cadeva su questa necessità quotidiana di denaro, Gregor si allontanava dall’uscio e, lasciatosi andare sul sofà di cuoio lì accanto, si sentiva avvampare di vergogna e di tristezza.»

Solo alla morte dell'emarginato, la normalità trionfa.

Ma chi è Gregor per Kafka? Di certo non un antieroe, ma nemmeno un eroe. Kafka non lo nasconde. I suoi personaggi sono borghesi inariditi, gente il cui unico scopo è quello di potersi permettere uno stile di vita agiato. Non c'è sentimento o parentela che tenga: il denaro e l'onore sono i sovrani indiscussi di qualsiasi rapporto interpersonale. Se Gregor non riesce più a mantenere la propria famiglia è un parassita, un ingrato. Egli è doppiamente imprigionato: dal nuovo corpo, un involucro estraneo; dal rifiuto della società, giudice tendenzioso della sua diversità. È un diverso, ma la normalità lo attrae: quando la sorella suona il violino davanti ai pensionanti, il suo essere animale/diverso/anormale/emarginato si annulla e riaffiora l'umanità/la normalità/l'essere parte di.

«Gregor venne avanti un altro poco, tenendo il capo rasente al suolo, sforzandosi di incontrare quegli occhi. Dunque era proprio una bestia se la musica a tal punto lo affascinava? Gli pareva di veder disegnarsi davanti a lui la via verso un cibo desiderato quanto sconosciuto.»

Egli rimane fermo a guardare la società che lo deride, non mette in pratica una rottura. L'emarginazione, in Kafka, non è il preludio di una resistenza, tuttalpiù l'incipit di una bandiera bianca. Ecco la morte del protagonista, ecco il sollievo dei parenti, ecco il "Ben ti sta!" del lettore. Gregor non disprezza la società che lo emargina e il lettore non può far altro che disprezzarlo a sua volta per la sua ignavia.

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