lunedì 10 marzo 2014

Tracce di poesia - Ernesto "Che" Guevara

In "Qu'est que c'est la littérature?" (1948) Sartre scriveva: «Lo scrittore impegnato sa che le parole sono azione: sa che svelare è cambiare, e che non si può svelare se non progettando di cambiare. Ha abbandonato il sogno impossibile di dare un quadro imparziale della Società e della condizione umana. L'uomo è l'essere di fronte al quale nessun essere, nemmeno Dio, può restare imparziale. [...] L'uomo è anche l'essere che non può vedere una situazione senza cambiarla, perché il suo sguardo congela, distrugge o scolpisce o, come fa l'eternità, cambia l'oggetto in se stesso. È nell'amore, nell'odio, nella collera, nella paura, nella gioia, nell'ammirazione, nella speranza, nella disperazione che l'uomo e il mondo si rivelano nella loro verità. [...] Sa che le parole, come dice Brice-Parain, sono "rivoltelle cariche". Se parla, spara.»
Quando Sartre scrive "scrittore" intende "prosatore": il poeta, infatti, non può incarnare la figura dell'intellettuale impegnato. Nella poesia c'è sempre una perdita, un vuoto. Proprio a questa mancanza è imputabile quel "art for art's sake" di matrice wildiana: se si fa arte solo ed esclusivamente per estetica, si rischia di cadere nel vortice della pochezza e dell'inutilità. L'intellettuale è, essenzialmente, la coscienza della società e per palesare la propria essenza deve, per Sartre, scrivere in prosa. 
La domanda sorge spontanea: allora la poesia di Majakovskij? Quella di Neruda? Quella di Che Guevara? 


Ernesto Guevara nasce nel 1928 a Rosario, in Argentina, da una famiglia benestante e acculturata. I genitori di Ernesto, di tendenze liberali e anticlericali, durante la guerra civile in Spagna (1936-1939), si prodigano affinché venga formato un comitato che fornisca aiuto ai Republicanos. 
A causa delle condizioni di salute del piccolo Ernesto, afflitto da asma, la famiglia è costretta a trasferirsi a Còrdoba, la città-sfondo di gran parte dell'infanzia di Ernesto, che si forma intellettualmente leggendo Neruda, Jack London, Jules Verne, Freud e persino Bertrand Russel. Tra le tante attività svolte dal giovane, spicca la fotografia, che costituirà - assieme alla scrittura - una incredibile testimonianza dell'impegno politico del guerrigliero argentino. 
Quando, nel 1945, si trasferisce con la famiglia a Buenos Aires, Ernesto si iscrive alla facoltà di medicina e, nel gennaio del 1950, viaggia in bicicletta fino a Còrdoba, dove viene accolto dalla famiglia del suo amico Alberto Granado, che nel 1951 lo accompagnerà nel famoso viaggio alla scoperta del continente sudamericano prima a bordo della Poderosa II, una motocicletta Northon 300, e poi a piedi. Ernesto annota le impressioni del viaggio nel suo diario "Notas de viaje", che diventerà nel 2004 un film ("I diari della motocicletta"): l'idea che Ernesto, anche influenzato da letture marxiste, partorisce dal viaggio è quella di un Sudamerica devastato dalle diseguaglianze, un Sudamerica che può e deve risorgere in maniera unitaria rovesciando le strutture di potere e ristabilendo una forma di giustizia sociale.
Nel 1953 Ernesto rientra in Argentina e diventa medico, dopo aver sostenuto gli ultimi esami. Riparte immediatamente: è nel dicembre di quello stesso anno che incontra, in Guatemala, la sua prima moglie, Hilda Gadea, una esiliata peruviana che lo avvicina al governo del presidente Jacobo Arbenz Guzmán (che tenta di attuare una rivoluzione sociale attraverso varie riforme) e gli presenta un gruppo di rivoluzionari cubani legati a Fidel Castro, il rivoluzionario che ha scritto dal carcere il "Manifesto alla Nazione", denunciando i crimini della dittatura di Fulgencio Batista. In Guatemala la situazione degenera a seguito di un colpo di stato sostenuto dalla CIA: gli Stati Uniti, secondo il Che, sono una potenza imperialista che ha interessi a frenare l'emancipazione di Paesi in via di sviluppo. Sotto consiglio di Arbenz, il Che (nomignolo che risale a questo periodo) si trasferisce in Messico, dove incontra Fidel Castro e dove aderisce al "Movimento del 26 di luglio", che ha in programma di abbattere la dittatura di Batista. Dal 1956, anno in cui la nave Granma parte alla volta di Cuba, Ernesto si impegna nella guerriglia: è l'inizio della rivoluzione cubana. Nel 1959 Batista fugge e viene instaurato un nuovo governo che nomina Guevara "Cittadino cubano per diritto di nascita" e gli affida ruoli di grande rilievo: a Cuba è il secondo uomo più importante, dopo Castro. Il 1959 è anche l'anno in cui Ernesto divorzia da Hilda per sposare Aleida March, una cubana del "Movimento del 26 di luglio".
A partire dal 1965, dopo una breve latitanza, decide di occuparsi della liberazione degli altri popoli latinoamericani: prima il Congo e poi la Bolivia, dove viene catturato e ucciso dall'esercito nell'ottobre del 1967.

Autoritratto in Thailandia, 1964
L'importanza della scrittura, per il Che, non è solo intimo bisogno di confidarsi, ma è narrazione, inno, lotta e rivoluzione. I versi del guerrigliero argentino trasudano ideologia e evocano un bisogno sostanziale e ineludibile: il bisogno di giustizia sociale. «Il guerrigliero è un riformatore sociale, che prende le armi rispondendo alla protesta carica d'ira del popolo contro i suoi oppressori, e lotta per mutare il regime sociale che mantiene nell'umiliazione e nella miseria tutti i suoi fratelli disarmati» (Da "Scritti, discorsi e diari di guerriglia", 1959-1967): il rivoluzionario (rigorosamente armato) deve far riemergere dall'oblio lo splendore di un'America Latina assoggettata al potere imperialista. La denuncia è chiara e proprio da questa denuncia nasce un ponte che collega Ernesto a Pablo Neruda. D'altronde, non a caso, Ernesto legge "Canto generale" e lo commenta: «Quando il tempo avrà un po' sfumato gli andamenti politici e contemporaneamente - ineluttabilmente - avrà assegnato al popolo la sua definitiva vittoria, questo libro di Neruda si porrà come il più vasto poema sinfonico d'America. [...] È un canto generale d'America che ripercorre tutto ciò che è nostro, dai giganti geografici fino alle povere bestioline del signor monopolio.»
Ecco che la poesia diventa anch'essa impegnata: come potrebbe non esserlo? E come potrebbe l'intellettuale non utilizzare lo strumento di espressione più vicino e affine a sé per urlare? «Ciò significa che all'universo dell'immaginario, del sogno, del fantastico è necessario attribuire un potenziale rivoluzionario, una carica di ribellione, quanto meno simile all'attività liberatoria del guerrigliero che lotta contro la fame nel Terzo Mondo, contro il potere economico che schiaccia e uccide, contro la rapina di colui che possiede già tanto, e ancor più pretende di avere da chi non ha.» (dall'introduzione al libro "Poesie e scritti sulla letteratura e l'arte", a cura di Elena Clementelli e Walter Mauro)

E qui


«Sono meticcio», grida un pittore dalla tavolozza infuocata, 

«Sono meticcio», mi gridano gli animali perseguitati,
«Sono meticcio», esclamano i poeti pellegrini,
«Sono meticcio», riassume l'uomo che mi incontra
nel quotidiano dolore di ogni angolo,
e persino l'enigma di pietra della razza morta
accarezzando una vergine di legno dorato:
«È meticcio questo grottesco figlio delle mie viscere».

Io pure sono meticcio per un altro aspetto:
nella lotta in cui si uniscono e si respingono
le due forze che agitano il mio intelletto,
le forze che mi chiamano sentendo delle mie viscere
lo strano sapore di frutto racchiuso
prima di raggiungere la sua maturità dell'albero.

Mi giro al limite dell'America ispana
ad assaporare un passato che ingloba il continente.
Il ricordo scivola con dolcezza indelebile,
come un lontano suono di campana.


Non c'è arte che sia scevra da una dimensione politica: non è concepibile un'arte che non sia calata nella storia e che dalla storia assorba il suo proprio modo d'essere; le impressioni sensibili si fondono con un sentire più ampio, ideologico, eterno: secoli di soprusi, di aggressioni, di sottomissioni, di sfruttamento. E poi la ribellione, che si sbocconcella in versi di una bellezza inaudita. 

Vecchia Maria

Vecchia Maria, tu vai a morire, 
voglio parlarti seriamente:

La tua vita è stata un rosario completo di agonie, 
non un uomo amato, né salute, né denaro, 
appena la fame da spartire; 
voglio parlare della tua speranza, 
delle tre diverse speranze 
che fabbricò tua figlia senza saper come.

Prendi questa mano d'uomo che pare di bambino 
nelle tue sfregate dal sapone giallo. 
Strofina i tuoi calli duri e le nocche pure 
nella morbida vergogna delle mie mani di medico.

Ascolta, nonna proletaria: 
credi nell'uomo che arriva, 
credi nel futuro che non vedrai mai.

Non pregare il dio inclemente 
che per tutta la vita deluse la tua speranza. 
Non chiedere clemenza alla morte 
per veder crescere le tue grigie carezze; 
i cieli sono sordi e in te comanda il buio; 
soprattutto avrai una rossa vendetta, 
lo giuro per l'esatta dimensione dei miei ideali: 
i tuoi nipoti tutti vivranno l'aurora, 
muori in pace, vecchia combattente.

Vai a morire, vecchia Maria; 
trenta progetti di sudario 
diranno addio con lo sguardo, 
il giorno, tra questi, in cui te ne andrai.

Vai a morire, vecchia Maria, 
rimarranno mute le pareti della sala 
quando la morte si congiungerà con l'asma 
e copuleranno il loro amore nella tua gola.

Quelle tre carezze costruite in bronzo 
(l'unica luce che allevia la tua notte), 
quei tre nipoti vestiti di fame, 
rimpiangeranno i nodi delle vecchie dita 
dove sempre trovavano un sorriso. 
E sarà tutto, vecchia Maria.

La tua vita è stata un rosario di magre agonie, 
non un uomo amato, né salute, letizia, 
appena la fame da spartire, 
la tua vita è stata triste, vecchia Maria.

Quando l'annuncio del riposo eterno 
intorbida il dolore delle tue pupille, 
quando le tue mani di perpetua sguattera 
assorbono l'ultima ingenua carezza, 
pensi a loro... e piangi, 
povera vecchia Maria.

No, non farlo! 
Non pregare il dio indolente 
che per tutta una vita deluse la tua speranza 
e non chiedere clemenza alla morte, 
la tua vita è stata orribilmente vestita di fame, 
e finisce vestita d'asma.

Ma voglio annunciarti, 
con la voce bassa e virile delle speranze, 
la più rossa e virile delle vendette, 
voglio giurarlo per l'esatta 
dimensione dei miei ideali.

Prendi questa mano d'uomo che pare di bambino 
nelle tue sfregate dal sapone giallo, 
strofina i calli duri e le nocche pure 
nella morbida vergogna delle mie mani di medico.

Riposa in pace, vecchia Maria, 
riposa in pace, vecchia combattente, 
i tuoi nipoti tutti vivranno l'aurora, 
LO GIURO.


Persino le parti in prosa (sulla letteratura e sull'arte) non perdono mai del tutto la liricità: il Che scrive inevitabilmente sorretto dall'amore per gli invisibili. Scrive in qualità di lettore, di viaggiatore, di poeta, di guerrigliero, ma mai in qualità di uno solo di questi individui. Ernesto è tutte queste personalità al modo di una sola: fare della sua scrittura (anche quando essa si dedica a considerazioni artistiche) qualcosa di separato dall'impegno politico significherebbe de-naturalizzarla. «Se la silloge di poesie del Che [...] riflette stati d'animo, percezioni del sensibile, slanci di umana vitalità, quando Guevara affronta la storia dell'America Latina nelle sue più profonde strutture, analizzando le radici da cui è poi scaturito il disagio, il malessere, la condizione esistenziale del presente, allora la scrittura comprime il tono di una innata liricità (che appartiene alla mitezza di carattere del guerrigliero liberatore) e va a inoltrarsi nel buio fondo della Storia, con un vigore di schieramento dalla parte delle vittime che sta pure a significare una poetica interpretazione della marxista filosofia della prassi, tutta tesa a sfociare nel conseguimento del socialismo reale come approdo necessario dell'utopia.» E infatti gli scritti sull'arte non sono altro che «commosse ricognizioni sull'arte degli Inca e dei Maya, i due popoli-bersaglio del genocidio della Conquista Spagnola.» 
Il popolo deve essere riscattato e non ci può essere sconfitta: «Hasta la victoria siempre» diventa il motto di chi non può arrendersi, di chi deve lottare (in senso letterale) per garantire possibilità di vita migliori a chi ha conosciuto sempre crepuscoli e mai aurore.
Il Che dà ancora oggi il più grande insegnamento: la rivalsa da un regime di oppressione (che sia politica, ma anche culturale o economica) è ancora possibile, persino quando il numero dei collaborazionisti e dei corrotti sembra maggiore di quello dei sovversivi. E allora hasta siempre, comandante!


6 commenti:

  1. Ciao Clem,
    questo post è spettacolare, complimenti!!! Io adoro il Che e tra informazioni, poesie, foto e video gli hai reso davvero giustizia ;)
    hasta la victoria siempre !!!
    buona serata a presto ;)

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    Risposte
    1. Ciao cara Audrey!
      Grazie a te! Il Che è stato un grande uomo, meritava un post sul nostro blog... :)

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  2. Che

    Non si consuma
    questa terra,
    questo sangue d'autunno.
    E' dolce l'aria
    Rosario lontana
    dalle tue labbra.
    Ha venti e occhi
    per implorarti ma
    l'alba tarda a sorgere
    ed è il nostro male
    più caro.
    Un nome basta
    a sciogliere le mani,
    giunte restano
    quelle delle madri
    a Santa Clara chine
    sulla promessa di una vittoria.
    Non accadranno altre stelle
    o poderose imprese
    ancora la tua pioggia
    che non sa smettere,
    ancora la mia
    che non si rassegna.

    questa è una splendida poesia del poeta Michele Gentile dedicata al Kom. W il Che
    Maurizio

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  3. Che bel sito...
    e che bel post.
    Complimenti!
    Per gli appassionati di letteratura, consiglio Julio M.Llanes - Il Che tra la letteratura e la vita (note per il cuore e la memoria).
    E poi, questi versi: che fosse un uomo coraggioso, il Comandante, non c'è dubbio, ma nel suo eroismo era contemplato il senso della paura e della morte. E questo sentimento, così umano, così vicino a quello di tutti, è di grande bellezza...
    saluti!

    Cuando sepas que he muerto, no pronuncies mi nombre
    porque se detendrá la muerte y el reposo.
    Cuando sepas que he muerto di sílabas extrañas.
    Pronuncia flor, abeja, lágrima, pan, tormenta.
    No dejes que tus labios hallen mis once letras.
    Tengo sueño, he amado, he ganado el silencio.

    Quando saprai che sono morto
    non pronunciare il mio nome
    perché si fermerebbero
    il silenzio e il riposo.
    Quando saprai che sono morto pronuncia
    sillabe strane:
    fiore, ape,
    lacrima, pane, tempesta.
    Non lasciare che le tue labbra trovino le mie dieci lettere.
    Ho sonno, ho amato, ho
    raggiunto il silenzio.

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    Risposte
    1. Grazie mille! Sia per il bel commento che per la condivisione! Continua a seguirci! :)

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