domenica 30 dicembre 2012

Tracce di poesia - Fabrizio De Andrè

«Non chiedete a uno scrittore di canzoni 
che cosa ha pensato, che cosa ha sentito prima dell'opera:
è proprio per non volervelo dire
che si è messo a scrivere.
La risposta è nell'opera.»

Non ricordo la prima volta che ascoltai una canzone di De Andrè. Venne trasmessa in radio? Fu mio padre a farmela ascoltare? Il vuoto. Ogni volta che si parla di Faber, i sensi si inebriano. Eppure si assapora un sapore indimenticato, ma indecifrabile; si ascolta una melodia conosciuta, ma incontestualizzabile. La figura di questo poeta genovese è tutto e niente nello stesso momento. In "Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers" (scritta con Paolo Villaggio) è il canzonatore; in "La canzone di Marinella" è il cantautore impegnato nelle tematiche sociali («Quando lessi questa storia su un giornale [...], ebbi l'impulso di fare qualcosa per lei nell'unico modo che potevo: con una canzone. Visto che non potevo più cambiarle la vita, decisi di cambiarle la morte»); in "Amico fragile" è la roccaforte di chi, come artista, approda a quel senso di inutilità che fa delle proprie frasi composizioni di parole senza senso.
Una duttilità, quella di Fabrizio, che ormai è difficile rintracciare: le sue poesie musicate si fanno testimoni di storie inconciliabili. Il soldato Piero, Princesa, il Michè, Tito, e poi Il suonatore Jones, sono lì, come in un chiasma che sembra portare alla luce una verità suprema: «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior». 
I personaggi di De Andrè sono gli ultimi, gli emarginati, gli stranieri, gli ostracizzati. La musica rischiara le ombre, purifica il marcio, assegna ad ogni ruolo importanza. E nessuno è semplicemente quello che di lui viene detto: la "puttana" di via del campo è la graziosa dagli occhi grandi color di foglia, è la bambina con le labbra color rugiada. La propria specularità viene trasmessa dall'autore ai personaggi senza volgarità, senza banalità, senza forzatura. Ogni cosa risplende perché è fenomeno e noumeno insieme: scartavetrando l'imballo pesante dei nomignoli, una luce rende visibile ciò che non si vede a occhio nudo, in una continua dialettica di chiaroscuri, di interno-esterno, di immagini restaurate.
«Sentii fin da subito che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l'ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste e l'illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo. Quest'ultima si è sbriciolata presto, la prima, invece, rimane»: la musica è vera quando stimola le coscienze, quando si impone come «ultimo grido di libertà». Le canzoni di De Andrè riescono a conciliare l'ampissima cultura del loro autore (sono evidenti le influenze dei Vangeli, di Brassens, Majakovskij, Cioran, Álvaro Mutis, Edgar Lee Masters, Bob Dylan) a un pubblico variegato. Sono parole anarchiche, che si rivolgono a tutti. Perché «dietro a ogni scemo c'è un villaggio», perché ciascuno rivendica il proprio diritto all'equità.
Faber ha scritto lasciandosi attraversare dal divenire, viaggiando «in direzione ostinata e contraria»: è questo il suo grande merito. 
Scrivendo di questo personaggio, mi sento come una profana in un tempio: ne ammiro l'architettura, ma proprio la sua maestosità mi rende minuta. Uomini come Faber ci spronano a fare meglio, ad andare oltre, a emozionarci.  

«Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti
  


Qui potete trovare un elenco di libri su De Andrè: http://www.bielle.org/fabriziodeandre/Pages/libri.htm

Vi lascio con una canzone: 




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