venerdì 31 marzo 2017

1917/2017: Aleksandra e le altre. Le donne e la rivoluzione


In occasione del Festival delle Donne e dei Saperi di Genere, organizzato a Bari dal 20 marzo al 12 aprile 2017, si è tenuto l'altroieri, presso il Palazzo delle Poste, un seminario intitolato “1917/2017: Aleksandra e le altre. Le donne e la rivoluzione”. Relatrici Lea Durante (UniBa) e Alessia Franco (dottoressa in Scienze Filosofiche e collaboratrice di questo blog, come i lettori abituali ben sapranno). A coordinare la discussione la Dott.ssa Rosaria De Bartolo. Il seminario si è incentrato su quattro donne che hanno trattato la condizione femminile all’interno dei partiti socialdemocratici e socialisti europei a cavallo tra Ottocento e Novecento: Aleksandra Kollontaj, Clara Zetkin, Rosa Luxemburg e Anna Kuliscioff. Si è cercato di mettere al centro della riflessione le figure di queste donne, la loro corporeità, le loro esperienze politiche e private, oltre che il loro pensiero teorico-politico, partendo dalla considerazione che nessun  pensiero, specialmente un pensiero militante e rivoluzionario, possa essere disincarnato dalla concretezza, fisica, storica, estetica, delle donne che lo hanno incarnato. Donne che sono state obliate e il cui pensiero è stato in parte distorto dai movimenti femministi contemporanei.



La relazione della Prof.ssa Durante prende in esame le figure di Clara Zetkin e Aleksandra Kollontaj: due donne, la prima tedesca e la seconda russa, che dovettero confrontarsi con un clima culturale ostile e diffidente nei confronti della partecipazione politica delle donne, anche all’interno dei partiti rivoluzionari nei quali militavano. La legislazione prussiana negava alle donne il diritto di associazione, il positivismo scientifico affermava, soprattutto in Germania, l’inferiorità biologica della donna rispetto all’uomo, l’Internazionale socialista delegava ai partiti nazionali la linea da tenere rispetto alla questione femminile. All’interno dei partiti socialdemocratici queste donne, come anche Luxemburg e Kuliscioff, dovranno farsi strada lottando. Possiamo ritenere questa lotta vinta, se consideriamo che Kollontaj sarà la prima donna al mondo a ricoprire la carica di ministro nel governo sovietico, e che Zetkin sarà parlamentare del Partito Comunista Tedesco dal 1920 al 1933, fino alla caduta della Repubblica di Weimar.
Clara Zetkin, la cui vita – come del resto quella di tutte queste donne – fu avventurosa, segnata da continui spostamenti per l’Europa e da numerose lotte, entrò in conflitto con il Partito Socialdemocratico Tedesco, per diverse ragioni. Ne criticò soprattutto le tendenze imperialiste e riformiste, cercando di inserire all’interno della propria visione del marxismo e dell’attività politica la questione femminile, distinguendo accuratamente il suo rifiuto della guerra e la sua lotta per l’emancipazione femminile dal pacifismo e dal femminismo borghese. Questo aspetto rende la riflessione di Zetkin complessa e profonda: il rifiuto della guerra deve inserirsi all’interno di una critica dell’imperialismo capitalista. Non è sufficiente “desiderare la pace tra i popoli”, sulla base di diritti e di aspirazione moralistiche e disincarnate dal contesto storico e sociale. Rifiutare la guerra non significa ripugnare una generica violenza, ma significa opporsi alla guerra che il capitale conduce nei confronti delle società non capitalistiche, depredandone le risorse e sussumendo i rapporti sociali sotto la propria terribile e autoritaria logica annichilente. Allo stesso modo, il femminismo non può consistere in una serie di rivendicazioni fondate sui diritti biologici, ma deve essere parte integrante dell’emancipazione del proletariato. Sono le lavoratrici che devono prendere coscienza della propria condizione economica e sociale e lottare per un miglioramento delle proprie condizioni insieme a tutto il proletariato. Sulla base di questa logica Clara Zetkin fonda l’Internazionale delle Donne, separata dall’Internazionale socialista, e si pone criticamente rispetto alla questione del suffragio femminile: il diritto al voto deve essere un mezzo per avvicinare le lavoratrici alla causa socialista e non un mezzo per permettere alle donne benestanti di consolidare lo sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo.

Aleksandra Kollontaj, la cui personalità spicca per il carisma e il fascino che sprigiona, apre una riflessione politica sull’eros femminile. L’amore, il desiderio, sono le spinte propulsive della rivendicazione politica. Un inciso personale: siamo abituati a datare l’inizio della riflessione politica sull’Eros intorno agli anni Sessanta, riferendoci in particolare alla Scuola di Francoforte o a Deleuze e Foucault. Invece è interessante scoprire che già alla fine dell’Ottocento il desiderio viene considerato una forza politica vitale, un’energia rivoluzionaria, ed è interessante che a farlo sia una marxista che ricopre cariche istituzionali all’interno del governo sovietico. Per comprendere il modo in cui Kollontaj affronta la questione sessuale e femminile, bisogna far riferimento alla politica portata avanti in quanto Ministro della solidarietà sociale: secondo la ministra, lo Stato ha il dovere di stanziare finanziamenti affinché possano essere costruiti asili e ricoveri per i bambini abbandonati, nati fuori dal matrimonio. Questi devono godere delle stesse opportunità dei figli cosiddetti legittimi. La maternità deve essere tutelata e sostenuta a prescindere dalla natura delle relazioni, ufficiali o ufficiose, riconosciute o meno, in cui si verifica. L’aborto, operazione all’epoca pericolosa e spesso mortale, deve essere un diritto transitorio: lo stato deve creare le condizioni che permettano alle donne di non abortire. Nei primi anni venti, l’Unione Sovietica dovrà fare economia, tagliare le spese dello stato sociale: lo stato, non potendo sostenere le politiche approntate da Kollontaj, pone nuovamente al centro della propaganda la famiglia e le unioni legittime. Potremmo sintetizzare la strenua opposizione della ministra con un suo celebre motto:  «Largo all’Eros alato!».

La relazione di Alessia Franco descrive le figure di Rosa Luxemburg e Anna Kuliscioff, militanti la prima nella Socialdemocrazia Tedesca, la seconda nel Partito Socialista Italiano. Le vite di queste due donne vengono definite “peregrine”: Kuliscioff e Luxemburg si muovono per l’Europa, tra arresti, fughe ed esili. Ma sono vite peregrine anche in senso figurato: queste donne violano sistematicamente le convezioni sociali e sessuali, i tabù del loro tempo (e anche del nostro tempo!), vivendo una sessualità libera, disinibita, lottando continuamente con la gelosia dei loro compagni di vita e di lotta. Sono donne che tanto nella vita politica, quanto in quella privata, affermano la propria autonomia, entrando spesso in rotta di collisione con i partiti di appartenenza.
Di Rosa Luxemburg si è messa subito in evidenza la sua diversità: una diversità innanzitutto fisica, data la sua malformazione alle anche che la portava a zoppicare; la sua diversità estetica: era solita tagliarsi i capelli da sola, con una certa grossolanità; la sua diversità politica che la porterà ad essere isolata all’interno della socialdemocrazia, di cui critica
aspramente il revisionismo e l’opportunismo politico. Comincerà ad occuparsi della questione femminile soltanto dopo la rottura con l’SPD e la formazione della Lega Spartachista, poi Partito Comunista Tedesco. Qui Luxemburg si sente in un ambiente meno ostile rispetto al partito socialdemocratico, in cui può essere libera di analizzare criticamente la questione, discernendo accuratamente e con rigore teorico, la propria riflessione dal femminismo borghese. In un discorso tenuto a Stoccarda nel 1912 in occasione del raduno delle donne socialiste, intitolato “Voto alle donne e lotta di classe”, Luxemburg sostiene che la questione del suffragio femminile non può essere considerata come un diritto formale e universale: le lavoratrici devono avere il diritto di voto, ma se questo non fosse al momento possibile, è meglio che nessuna donna goda di tale diritto. In altre parole, è inaccettabile, da un punto di vista marxista, sostenere un suffragio femminile su base censitaria: questo rafforzerebbe notevolmente la classe padronale. Inoltre, la questione del ruolo femminile nella politica e nella società non viene posta su una base idealistica – “è giusto che le donne partecipino alla vita politica perché ne hanno diritto in quanto donne” – ma su una base materialistica: le donne sono entrate in massa nella produzione capitalistica, il capitalismo le ha “strappate al focolare domestico”, e dunque, avendo il medesimo ruolo degli operai uomini all’interno dei rapporti di produzione, devono conseguentemente avere lo stesso ruolo politico  e il medesimo riconoscimento sociale. Non in quanto donne, ma in quanto componente massiccia e vitale del proletariato.

Anna Kuliscioff dedicò gran parte della sua militanza alla questione femminile. Le sue posizioni a riguardo furono dibattute sulle pagine della “Critica sociale”, rivista fondata da Kuliscioff e Turati, suo compagno di vita, oltre che di militanza. La polemica che intercorre tra questi due sulle pagine del giornale del Psi, ironicamente chiamata “la polemica in famiglia” è emblematica dell’atteggiamento dei partiti radicali e rivoluzionari nei confronti del femminismo, e della capacità di queste donne di tenere insieme la prospettiva marxista e la lotta per le donne, prospettive non sempre facilmente conciliabili. Anna Kuliscioff accusò il Psi di indifferenza nei confronti della questione del suffragio femminile: essendo ormai imminente il riconoscimento del suffragio universale maschile, il partito non voleva alzare la
posta in gioco rischiando di perdere tutto. A queste considerazioni strategiche, Kuliscioff ne oppone altre, altrettanto strategiche e concrete: innanzitutto, bisogno tener conto dell’ingresso massiccio delle donne nelle file del proletariato industriale; questo ingresso implica che le donne devono lottare per la propria emancipazione e che questa lotta è fondamentale per tutto il proletariato: se le donne si accontentano di un salario “integrativo” abbasseranno necessariamente il costo del lavoro e il potere contrattuale degli operai; infine mette in evidenza le forme concrete di partecipazione femminile, che si verificano a prescindere dal riconoscimento dei diritti, e che vanno dal volantinaggio alle sottoscrizioni. Nell’appello alle sartine di Corso Magenta, Kuliscioff invita all’organizzazione delle lavoratrici, alla lotta unita dell’intero proletariato, maschile e femminile, come condizione imprescindibile per la liberazione dalla schiavitù e dallo sfruttamento.

La conclusione che emerge da entrambe le relazioni riguarda l’eredità che queste donne ci consegnano, il bisogno di ricordarle. Non è un bisogno meramente commemorativo, un’esigenza di costruire monumenti in occasione del centesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. È piuttosto un’esigenza che si radica nel presente, che sorge dalle cose stesse: in un periodo di crisi economica riemerge l’importanza di analizzare le condizioni materiali ed economiche delle classi sociali subalterne. Diseguaglianza ed ingiustizia si riempiono di nuovi concreti significati che investono anche la riflessione sul ruolo delle donne nella società. La questione femminile non può essere disincarnata dal disagio economico, né può essere isolata dalla visione d’insieme che si ha della società e dalle lotte che si intendono avviare per cambiarla. In un tempo in cui il femminismo viene spesso usato come argomento politicamente corretto, strumentalizzato da forze politiche liberiste e/o razziste, donne come Luxemburg, Kuliscioff, Kollontaj e Zetkin ci insegnano che la liberazione delle donne è possibile solo all’interno di un’umanità liberata, di una società giusta.


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