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sabato 13 aprile 2013

"La casa in collina" di Cesare Pavese

Nel '43 infuria la guerra. I bombardamenti colpiscono Torino e producono un gran numero di sfollati nelle campagne. Proprio lo sfollamento a Serralunga di Crea suggerisce a Cesare Pavese di scrivere La casa in collina, la storia di Corrado e della gente che come lui si ritrova suo malgrado ad affrontare la guerra, e lo fa in un modo o nell'altro. Ci sono i giovani arditi come Fonso e il piccolo Dino, ad esempio, che reagiscono alla distruzione con un moto di violenta speranza: gli eroi di quel periodo sono ragazzi, scrive Pavese, perché riescono a convogliare le loro energie e la loro caparbietà, la loro vitalità imprudente e talvolta inconsapevole, nel motore più vitale della lotta partigiana. C'è Giorgi, giovane soldato oppresso dal proprio senso del dovere e dall'abitudine di obbedire, che veste la divisa fascista senza condividerne il significato e che deve confrontarsi con i propri slanci e il proprio desiderio di altro. E poi c'è chi, come Corrado stesso, cerca invece solo un luogo di pace in cui rifugiarsi, una "casa in collina": un luogo bucolico circondato da rovi e gaggie, dove la gente si raccoglie a bere e cantare, distante dalle luci della città. Quando suona l'allarme e i bombardamenti colpiscono Torino, la squarciano, la insanguinano lasciando un tappeto fumante di macerie, gli sfollati si ritirano sulla collina del Pino e trovano sollievo vegliando con altri nelle stesse condizioni, guardando le stelle nel buio, dormendo nei prati.
Corrado vive intensamente questa stagione: mal tollera la Elvira e sua madre, le donne che lo ospitano in collina e che lo opprimono con le loro premure; si riscopre innamorato di Cate, giovane madre con cui condivise da ragazzo una relazione turbolenta; rivive i ricordi giovanili, rievoca l'adolescente che era e con il quale gli pare di non avere più niente in comune.

«Ma il giovane che viveva quei giorni, il giovane temerario che sfuggiva alle cose credendo che dovessero ancora accadere, ch'era già uomo e si guardava sempre intorno se la vita giungesse davvero, questo giovane mi sbalordiva. Che cosa c'era in comune fra me e lui? Che cosa avevo fatto per lui? Quelle sere banali e focose, quei rischi casuali, quelle speranze familiari come un letto o una finestra - tutto pareva il ricordo di un paese lontano, di una vita agitata, che ci si chiede ripensandoci come abbiamo potuto gustarla e tradirla così

Gli anni hanno cambiato Corrado e la guerra lo trasforma di nuovo, facendo insorgere in lui riflessioni sulla propria viltà, sul senso delle sue giornate, sulle sue relazioni. Sembra che in questo libro Pavese cerchi, attraverso il suo alter ego Corrado, di riabilitarsi agli occhi di sé stesso, raccontando una fenomenologia tutt'altro che eroica dell'uomo di fronte alla guerra. Il personaggio di Pavese pecca non proprio di viltà ma di isolamento: si rifugia nella casa in collina, nelle conversazioni con gli altri personaggi parla della guerra, si spinge a dire che tutti la meritano perché tutti hanno gridato "Evviva". Critica del coinvolgimento popolare e demagogico della dittatura, con la sua retorica della guerra e della patria; critica anche di chi ciecamente si affida a questa retorica e a questo coinvolgimento superficiale; infine, critica di chi rifiuta ogni tipo di coinvolgimento, desideroso soltanto di scappare in collina, lontano dai bombardamenti. Eppure, il termine esatto non è "critica", forse semplicemente 
"esposizione": Pavese mostra l'aspetto più umano della guerra, il modo in cui essa spinga l'uomo a riflettere su di sé, gli squallidi dettagli del quotidiano stravolto dal conflitto, le piccolezze campagnole di chi si disinteressa, al sicuro nella sua tana.
E infine, nucleo pulsante della riflessione e vertice dell'intensità poetica dell'opera, sono 
i morti: coloro che hanno assunto su di sé la guerra interamente, consapevolmente oppure per costrizione e caso, coloro che, proprio da morti, sono più vivi che mai, perché più intenso che mai è il loro insegnamento in forma interrogativa, il loro monito perentorio e grondante sangue: che senso ha la guerra?


«Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.»

2 commenti:

  1. Ciao ragazze, per quanto abbia cercato di farmelo piacere, Pavese per me ha uno stile troppo lento perciò non riesce a riscuotere la mia simpatia...
    Un abbraccio

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  2. Su questo siamo assolutamente d'accordo, con Pavese mi capita di toccare dei picchi di noia non indifferenti... Però credo che alla fine ne valga la pena!

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