«La vita è un palcoscenico, dicono tutti. Ma non sembra che la gran maggioranza sia ossessionata da quest'idea, o perlomeno non sembra che lo sia in una fase precoce come successe a me. Addirittura alla fine dell'infanzia ero fermamente convinto che quella massima corrispondesse alla verità, e che io avrei dovuto recitare la mia parte sul palcoscenico senza mai tradire, neppure una volta, il mio autentico io».
Questa è la storia di una attrazione che brucia, sbaragliata e pulsante come un ago metallico in una bussola, indecisa e viscerale come una oscura follia. Il torpore di Kochan assume i tratti di una confessione graduale: le pulsioni sono continuamente mascherate e messe a tacere da un qualche desiderio di normalità che si avverte come una risolutezza.
Quello che soffoca il giovane protagonista, che parla in prima persona e al passato, è un dramma che lentamente s'inasprisce lasciando posto alla verità solo quando essa s'impone:
«quando c'entravano le donne, ero sgombro di quella timidezza che gli altri ragazzi possiedono in forma innata».
Non si tratta di spavalderia o di fiera mascolinità: la naturalezza nel rapportarsi alle donne è, in realtà, totale indifferenza verso di esse, un'indifferenza che in tutti i modi si cerca di dissimulare attraverso l'approdo all'autoconvinzione di amare fortissimamente il sesso femminile. Ma «è forse ammissibile un amore che non abbia alcun fondamento nel desiderio dei sensi? Non è questo un assurdo ovvio e lampante?».
Il flusso di coscienza non lascia scampo al lettore, che si trova a tu per tu con Kochan, vedendolo da dentro eppur restandone al di fuori, come un confessore.
Il ragazzo, appena affacciatosi alla pubertà, confonde l'attrazione per il fisico maschile (il cavaliere occidentale che poi scopre essere Giovanna D'Arco, San Sebastiano che lo introduce alla masturbazione (la "brutta abitudine"), il compagno di scuola Omi) con l'ammirazione per la figura maschile, intesa come un tripudio di forza e virilità. Ciò è comprensibile, se facciamo caso all'ambiente che lo circonda: il Giappone del primo Novecento è pregno dell'elemento militare, che in qualche modo intensifica la timidezza del ragazzo, che cresce esile e che, proprio in virtù di questa fragilità, si rifugia nel mondo letterario.
«Il lettore non ha che da raffigurarsi un discreto studente di liceo, non ancora ventenne; provvisto di normale curiosità e di normale appetito della vita; d'indole riservata, probabilmente per nessun motivo salvo quello ch'è troppo portato all'introspezione; pronto ad arrossire alla minima parola; e, difettando della spavalderia che deriva dal sapersi abbastanza bello per destare l'interesse delle ragazze, costretto a ripiegare soltanto sui libri».
Il continuo tendere verso qualcosa a cui Kochan non può anelare (in caso contrario la società tutta lo etichetterebbe "danshokuka", sodomita) viene portato all'esasperazione quando la finzione coinvolge un'altra persona: Sonoko, una ragazzina che assume un ruolo fondamentale nel romanzo. Ella favorisce il movimento di disvelamento che porterà il protagonista all'accettazione del proprio io. Non più maschere, quindi, ma un porsi dinnanzi ad una verità ineludibile.
«Oltre alla cupa irritazione che sempre mi minacciava quand'ero solo, il dolore che aveva scosso a tal punto le fondamenta della mia esistenza al mattino, quando avevo visto Sonoko, si ravvivava adesso nel mio cuore più lancinante che mai. Proclamava che ogni parola da me pronunciata e ogni gesto da me compiuto durante il giorno erano stati falsi: in seguito alla scoperta che mi riusciva meno penoso riconoscere la falsità di una cosa nel suo tutto che non torturarmi nel dubbio su quale sua parte potesse esser vera e quale falsa, ero già andato familiarizzandomi a grado a grado con questo sistema di mascherare intenzionalmente la mia falsità di fronte a me stesso. [...]
A lungo andare la "recita" è diventata una parte integrante della mia natura, riconobbi fra me. Non è più una recita. [...] In altre parole, sto diventando una di quelle persone incapaci di credere a nulla che non sia contraffatto. Ma se questo è vero, allora il mio tentativo di voler considerare una mera contraffazione l'attrattiva esercitata da Sonoko su me potrebbe non esser altro che una maschera intesa a celare il mio autentico desiderio di credermi sinceramente innamorato di lei. E quindi forse sto diventando una di quelle persone incapaci di agire contrariamente alla loro natura genuina, e forse l'amo sul serio».
Il tema dell'omosessualità non oscura quello della morte, che sembra ergersi al di sopra e al di sotto di tutto, sovrana. Da ricordare che Yukio Mishima (pseudonimo di Kimitake Hiraoka) si suicidò nel 1970. E allora forse il libro è autobiografico e quella per la morte è un'ossessione martellante che ha in qualche modo caratterizzato tutta la vita dell'autore, invadendola e consumandola.
«Una volta che mi fui lasciato alle spalle il cancello della caserma, infilai di corsa la discesa dello squallido, gelido colle che portava al villaggio. Proprio come alla fabbrica di aeroplani, le gambe mi precipitavano verso un traguardo che non era comunque la Morte: qualsiasi cosa fosse, non era la Morte...»
Bellissima recensione però gli scrittori giapponesi non mi piacciono, è più forte di me!
RispondiEliminaUn baciotto a voi ragazze
Anche io partivo con questa idea e invece... ;)
EliminaSembra interessante, lo leggerò!
RispondiEliminaUn abbraccio
Allora buona lettura! :)
EliminaE ora voglio sapere come continua quindi andrò a comprarmi il libro.
RispondiEliminaBuona domenica :)
Xavier
Corri! :)
EliminaE buona lettura!