Su di noi

lunedì 31 dicembre 2012

"Il ballo tondo" di Carmine Abate

«A volte, se il corteo era in vena, ci si prendeva per mano, adulti e bambini, e in cerchio si ballava al ritmo monotono ma allegro della vallja: Lojmë Lojmë, vasha, vallen.»

Hora è una piccola comunità arbëresh della Presila, circondata da piante di sulla e rovi. Hora, in Albanese, significa paese, villaggio. Hora è il luogo del cuore di Carmine Abate, o almeno uno dei suoi luoghi del cuore: sotto la verniciatura sottile, come attraverso una filigrana, si vede Carfizzi, il paese arbëresh dove l'autore è nato. E' con grande delicatezza che lo ritrae nel libro "Il ballo tondo".

A Hora vive la famiglia Avati: Francesco, detto il Mericano, è un tipico germanese. Ha lasciato la sua casa per un lavoro a Ludwigshafen e si è ritrovato con un'identità frammentata. Va e viene da Hora, progetta confusamente, lavora duramente e cerca di "sistemare" le due figlie. Sua moglie, zonja Elena, regge con energia la casa, insegnando alle ragazze il lavoro del telaio. Orlandina e Lucrezia tessono coperte scarlatte decorate da file di acquile bicipiti.
Il piccolo Costantino non conosce il significato di quel simbolo. Il ballo tondo è il racconto della sua ricerca di un'origine, mezza sepolta dalla storia e mezza luccicante sotto il sole della Marina, dove la gente arbëresh si riunisce per il mercato. A guidare Costantino è nani Lissandro, ultimo baluardo di una tradizione che sembra sfilacciarsi sotto l'invadente pressione del twist, dell'emigrazione, del litish imposto ai bambini nella scuola in luogo dell'arbëresh. La coha dorata del matrimonio e quella nera del lutto, l'aquila bicipite, la lingua arbëresh sono fili delicati, ereditati dal passato, da cui Costantino Avati cerca di lasciarsi avviluppare, trascinato dalla modernità ma altrettanto legato all'origine mitica della sua gente. Costantino Avati, detto l'Aquila perché non si stanca mai di raccontare quell'episodio, quella volta che da bambino vide volare un'aquila a due teste nell'aria frizzantina della Marina, quello stesso giorno in cui nani Lissandro baciò la sabbia della riva e poi gliene spiegò il motivo. Quella era la costa a cui erano approdati i loro antenati, dopo una lunga fuga via mare per sfuggire ai Turchi che spadroneggiavano in Albania.
Scanderbeg, Amurat II, Costantino il Piccolo sono lo sfondo mitico della narrazione di Abate. In primo piano vediamo tratteggiate con semplicità e verità l'infanzia e la giovinezza di Costantino Avati: gli amori travagliati delle sorelle, il rapporto col maestro Carmelo Bevilacqua, i lavori per restaurare il piccolo castello venduto alla famiglia dal signorotto del paese, l'incontro con la sensuale e travolgente Isabella detta la Romana. Tutto, le piccole storie dei personaggi e la grande storia della comunità arbëresh di Hora, si intreccia ed accavalla in un delicato tentativo: quello di omaggiare un mondo tradizionale e rurale e, contemporaneamente, di aprirsi al resto del mondo (alla Germania come alla Merica). E' una vallja, un ballo tondo, che racchiude in un circolo la tradizione e la modernità, la memoria e il progetto. E' la ricerca di un'identità autentica e insieme nuova, è un intreccio a tratti comico e a tratti lirico, è un affresco semplice ma vivido.
Figura chiave del romanzo è il vecchio nani, devoto alla tradizione fino alla ripetizione, sentimentale e malinconico, tra la sua mesta constatazione che «Jeta ësht si fjeta» (la vita è come una foglia) e il suo energico omaggio alle «grat me kripë» (le donne con sale, quelle energiche e lavoratrici, passionali e schiette, come la nonna Sidonia, la giovane Lucrezia e la sfacciata Isabella). Il personaggio è ugualmente devoto alla tradizione albanese, grato alla Calabria che accolse i profughi del passato e consapevole della necessità per il genero Francesco di andare a lavorare in Germania: è la chiave di volta tra tre tempi, tre generazioni e tre culture. Sicuramente dà materiale su cui riflettere.
Carmine Abate delinea in questo romanzo (recentemente raccolto dalla Mondadori in una trilogia, Le stagioni di Hora, insieme a La moto di Scanderbeg e Il mosaico del tempo grande) un affresco delicato e variegato. Lo fa con lo stile leggero ed efficace del racconto orale dei rapsodi, e la narrazione scorre rapida tra frasi idiomatiche e dialoghi in lingua. Si legge ma si ha l'impressione di stare ascoltando Luca Rodotà, il vecchio rapsodo di Corone, mentre suonando la lahuta canta dell'eroe albanese Scanderbeg, della bella di sangue e ricotta, delle nozze di Costantino il Piccolo. Frammenti di una tradizione antica e viva, appuntata nei taccuini del maestro Bevilacqua e immortalata dal registratore di Costantino. Cristallizzata da Carmine Abate in una storia che è un intrecciarsi di storie: un omaggio alla memoria e una sfida multiculturale per il futuro.

domenica 30 dicembre 2012

Tracce di poesia - Fabrizio De Andrè

«Non chiedete a uno scrittore di canzoni 
che cosa ha pensato, che cosa ha sentito prima dell'opera:
è proprio per non volervelo dire
che si è messo a scrivere.
La risposta è nell'opera.»

Non ricordo la prima volta che ascoltai una canzone di De Andrè. Venne trasmessa in radio? Fu mio padre a farmela ascoltare? Il vuoto. Ogni volta che si parla di Faber, i sensi si inebriano. Eppure si assapora un sapore indimenticato, ma indecifrabile; si ascolta una melodia conosciuta, ma incontestualizzabile. La figura di questo poeta genovese è tutto e niente nello stesso momento. In "Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers" (scritta con Paolo Villaggio) è il canzonatore; in "La canzone di Marinella" è il cantautore impegnato nelle tematiche sociali («Quando lessi questa storia su un giornale [...], ebbi l'impulso di fare qualcosa per lei nell'unico modo che potevo: con una canzone. Visto che non potevo più cambiarle la vita, decisi di cambiarle la morte»); in "Amico fragile" è la roccaforte di chi, come artista, approda a quel senso di inutilità che fa delle proprie frasi composizioni di parole senza senso.
Una duttilità, quella di Fabrizio, che ormai è difficile rintracciare: le sue poesie musicate si fanno testimoni di storie inconciliabili. Il soldato Piero, Princesa, il Michè, Tito, e poi Il suonatore Jones, sono lì, come in un chiasma che sembra portare alla luce una verità suprema: «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior». 
I personaggi di De Andrè sono gli ultimi, gli emarginati, gli stranieri, gli ostracizzati. La musica rischiara le ombre, purifica il marcio, assegna ad ogni ruolo importanza. E nessuno è semplicemente quello che di lui viene detto: la "puttana" di via del campo è la graziosa dagli occhi grandi color di foglia, è la bambina con le labbra color rugiada. La propria specularità viene trasmessa dall'autore ai personaggi senza volgarità, senza banalità, senza forzatura. Ogni cosa risplende perché è fenomeno e noumeno insieme: scartavetrando l'imballo pesante dei nomignoli, una luce rende visibile ciò che non si vede a occhio nudo, in una continua dialettica di chiaroscuri, di interno-esterno, di immagini restaurate.
«Sentii fin da subito che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l'ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste e l'illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo. Quest'ultima si è sbriciolata presto, la prima, invece, rimane»: la musica è vera quando stimola le coscienze, quando si impone come «ultimo grido di libertà». Le canzoni di De Andrè riescono a conciliare l'ampissima cultura del loro autore (sono evidenti le influenze dei Vangeli, di Brassens, Majakovskij, Cioran, Álvaro Mutis, Edgar Lee Masters, Bob Dylan) a un pubblico variegato. Sono parole anarchiche, che si rivolgono a tutti. Perché «dietro a ogni scemo c'è un villaggio», perché ciascuno rivendica il proprio diritto all'equità.
Faber ha scritto lasciandosi attraversare dal divenire, viaggiando «in direzione ostinata e contraria»: è questo il suo grande merito. 
Scrivendo di questo personaggio, mi sento come una profana in un tempio: ne ammiro l'architettura, ma proprio la sua maestosità mi rende minuta. Uomini come Faber ci spronano a fare meglio, ad andare oltre, a emozionarci.  

«Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti
  


Qui potete trovare un elenco di libri su De Andrè: http://www.bielle.org/fabriziodeandre/Pages/libri.htm

Vi lascio con una canzone: 




lunedì 24 dicembre 2012

"Nero" di Tiziano Sclavi


«Nella notte fredda e scura, chi ha paura? 
Chi ha paura?
Ha paura l’assassino di incontrare il suo destino.»


La prima cosa che si scopre leggendo un libro è chi sia il protagonista. Nel caso di Nero, non solo l'identità di "lui" non è chiara dal principio, ma non sarà chiara neppure alla fine. Il protagonista attraversa diverse identità: "l'uomo", Federico Zardo, di nuovo l'uomo, lui, fino all'ingresso dell'"altro Zardo" che torna a rimescolare le carte.
Vi sto confondendo? Questo non è niente.
Presso il grande pubblico, Tiziano Sclavi è conosciuto quasi esclusivamente come "il papà" del celeberrimo Indagatore dell'incubo, Dylan Dog. I suoi romanzi (Tre, Dellamorte Dellamore, il brevissimo Film e lo stupendo Mostri, oltre che lo stesso Nero del 1992) sono scritti in quello stesso stile che abbiamo imparato ad amare dal fumetto.
In Sclavi (come in molti numeri di Dylan Dog, sceneggiati da altri ma coerenti al progetto dell'autore) vediamo ripresentarsi degli inquietanti temi ricorrenti: l'identità stravolta e sostituita, il delitto sposato al delirio, il tema caro e delicato dei "freaks". In Nero vediamo la centralità del primo di questi temi, condito dall'immancabile gusto noir, grottesco più che horror, abbondantemente splatter, tipicamente grandguignolesco. Regina incontrastata è sempre l'Oscura Signora, la morte che domina la scena con la sua presenza inersorcizzabile e pervasiva. Tocco finale, l'onnipresente ironia (e a volte sarcasmo) che sempre caratterizza le battute di Dylan Dog e ritroviamo in tante espressioni del libro. Insomma, Nero si inscrive a pieno titolo in quel filone tipicamente sclaviano, che si contraddistingue per le sue suggestioni inquietanti e oniriche (ovviamente da incubo, e non da sogno!).
Eppure, nonostante l'omogeneità dell'opera al resto della produzione sclaviana, Nero non nasce per essere un romanzo o un racconto tra i tanti. Inizialmente, nelle intenzioni dell'autore c'è scrivere una sceneggiatura per un fumetto a puntate, una sorta di lunga e macabra soap opera cartacea; dei disegni sarebbe stato incaricato Claudio Villa, sebbene alla fine non sia stato possibile portare a termine il progetto.
Cosa resta allora di Nero?
«È una sceneggiatura raccontata minimamente per lasciare molto libero il regista» dice Sclavi. Già, perché la storia del romanzo Nero è inscindibile dalla storia dell'omonimo film. Il regista in questione è Giancarlo Soldi e il romanzo di Sclavi trova così la sua giusta dimensione. Leggendo il libro, infatti, si ha proprio l'idea di scorrere un canovaccio o di seguire da vicino un lavoro di regia; sembra non di leggere ma di ascoltare una voce che ci sta raccontando un film.  «Lentamente si delinea lo skyline di Milano», leggiamo, e ci sembra di vedere l'inquadratura allargarsi e delinearsi. Numerosi flashback e flashforward sono introdotti esplicitamente e scritti in corsivo. I dialoghi sono spontanei e secchi, le descrizioni scarne fino all'assurdo, puri appunti per una futura scenografia.
Eppure, nonostante questa incredibile leggerezza suggestioni e renda la lettura facilissima, non è altrettanto semplice la comprensione del testo. Essendo nato per altri scopi, addirittura, Nero è un romanzo senza finale. Per il film ne è stato appositamente inventato uno, "anzi due", come dice lo stesso Sclavi in un'intervista. E dice anche, dopo aver dichiarato di nutrire ricordi vaghi della stesura di Nero:
«La maggior parte delle cose che ho scritto, fin da ragazzo, le scrivevo da ubriaco. La classica figura dello scrittore alcolista, con la sigaretta, il bicchiere di whiskey e la macchina da scrivere. Ciò mi ha permesso di diventare alcolista, non scrittore!». La solita ironia sclaviana di cui parlavo.
Sclavi è un autore davvero da non perdere, e nel dire questo mi riferisco anche e forse soprattutto al fumetto. Leggendo diversi autori, soprattutto tra i giovani, mi risultano evidenti i prestiti e le influenze sclaviane, nei generi che spaziano dal noir all'horror più scabroso. Si può dire senza tema di essere smentiti che Tiziano Sclavi sia un punto di riferimento per la letteratura di genere degli ultimi vent'anni; di certo, è un autore che ha lasciato un segno molto incisivo nel panorama italiano.
Non aspettatevi di ricevere chiavi di lettura per comprendere meglio Nero, e non nutrite vane speranze in una chiarificazione finale. Lasciate che questa storia vi suggestioni e vi trasporti senza essere troppo razionali. E, naturalmente, accompagnate la lettura con la visione del film. Buona lettura e buona visione!


Francesca, protagonista femminile del film, accompagnata da Federico Zardo (un Sergio Castellitto superlativo come sempre).

«Dissolvenza in nero.»

domenica 9 dicembre 2012

"Creatura di sabbia" di Tahar Ben Jelloun

"Oggi posso dire che mi sono tormentato su quel volto di cui spesso mi sfuggivano i contorni. Era l'immagine di un'immagine, semplice illusione, velo posato su una vita, o metafora elaborata in un sogno?"

Prima dell'Islam, i padri seppellivano vive le figlie femmine quando erano ancora appena nate e avevano ragione a farlo. Così la pensa Hadj Ahmed a cui, dopo sette figlie femmine, ne nasce un'ottava. L'evento é vissuto dalla famiglia come un'ennesima sventura, senza dubbio il risultato di una maledizione, perché la legge islamica penalizza le donne in materia di successione e i fratelli minori di Hadj Ahmed già pregustano il corposo patrimonio che erediteranno alla morte del primogenito in barba alla sua vedova e alle sue numerose figlie. La soluzione sembra una sola: pesante come una bestemmia, grave come una sfida nei confronti del destino. Gli altri membri della famiglia non ne sanno nulla, la moglie é costretta a rendersi complice della folle ossessione del marito: nonostante Dio abbia destinato la famiglia a caricarsi di una ottava figlia femmina, la piccola sarà battezzata, cresciuta ed educata come un maschio. Per tutti, compresa lei stessa, sarà Mohamed Ahmed. Sarà il menarca a instillare il dubbio nel\nella protagonista e a mandare in frantumi l' identità artificiale che aveva assunto come propria, il viso che aveva eretto come si edifica una casa.
Se il tema dell' androgino, come quello della figlia femmina che viene rifiutata dal padre e trasformata artificialmente in un figlio maschio, è un classico e un motivo ricorrente in libri, film, miti e fiabe (per non dire che è un motivo  trito e ritrito), di certo non si può accusare di scarsa originalità il lavoro di Ben Jelloun. Il suo\la sua protagonista non è la Fantaghirò o la Lady Oscar di turno. Lo spessore psicologico di Ahmed è sconvolgente, la sua carica tragica è intensissima fin dalle prime pagine. Quando il ragazzino è ancora convinto di essere tale, quale l' educazione gli ha inculcato di essere, la tragedia non è ancora consumata ma già annunciata. L'anelato figlio maschio è una "creatura di sabbia",  una figura modellata dal padre, un' identità del tutto costruita ed irreale, priva di consistenza. È un' illusione, un inganno. Non è solo la società maghrebina ad essere ingannata, non è solo la Legge (giuridica e religiosa) ad essere aggirata, ma è lo stesso Ahmed la vittima di questa regia spietata. La sua natura, le sue pulsioni, la sua ricerca disperata di un'identità negata e violentata sono tratteggiate a tinte forti, con una grande intelligenza e una rara eleganza.
Impareggiabile è la figura disperata e fragilissima di Fatima, la cugina  epilettica che Ahmed pretende di prendere in moglie per portare all'estremo la messinscena paterna. Sublime è il linguaggio, fiorito e grondante di tradizione e insieme creatività. Ben Jelloun, dopo i primi testi resi sovraccarichi proprio da questo suo stile ricco ed immaginifico fino all'esagerazione, trova in " Creatura di sabbia" la sua compiuta maturitá: l'Occidente non è più additato come la fonte di ogni male (retaggio doloroso di un umiliante passato coloniale), ma a venire indagate e sviscerate nella loro rudezza sono le stesse istituzioni musulmane che, nelle forme più tradizionali e a dispetto del desiderio di modernizzarsi, penalizzano la donna.
Da bambino "ero circondato solo da donne che mi raccontavano storie meravigliose. Io osservavo la loro esistenza così piccola, servile, il loro universo domestico  consunto e misero. Non mi è piaciuto fin da allora: ne ho provato pietà e rabbia, la certezza di una ingiustizia supinamente accettata" ha dichiarato l'autore (La Repubblica  del 21 gennaio 1988). A queste forti impressioni radicate nell'infanzia di Ben Jelloun dobbiamo figure come quella, sottomessa e sofferente fino al totale annichilimento e alla follia, della madre di Ahmed e quella dello stesso Ahmed.  A questa amara e davvero approfondita riflessione dobbiamo l'intensità di questo racconto:  in una trama complicata e tumultuosa di episodi, in un intrecciarsi e accavallarsi di versioni e narratori diversi, in un incastro magistrale di realtà e sogno, in un labirinto di immagini fiabesche e da incubo, questo libro ci guida  nella ricerca di questa identità frammentata e perduta, nascosta all'ombra della morte e velata dei colori intensi e onirici di un pregiato stile orientale.

"Ho imparato così ad essere dentro al sogno e a fare della mia vita una storia totalmente inventata, un racconto che conserva il ricordo di quanto è realmente accaduto. Sarà per noia, sarà per stanchezza che ci si propone un`altra vita, che si indossa come una djellaba meravigliosa, un vestito magico, un mantello, tessuto di cielo trapunto di stelle, di colori e di luce?"

mercoledì 5 dicembre 2012

"La spada della verità vol. 7" di Terry Goodkind


«La vita è il futuro, non il passato.»

Cala rapidamente la sera e il freddo è intenso e pungente. Il cadavere di un soldato giace riverso nella neve e una ragazza, Jennsen, si ferma ad osservarlo. Incuriosita, lo fruga: tra le sue cose trova del denaro, un pugnale con la R della casata dei Rahl in rilievo sull'elsa e un messaggio che per lei equivale ad una condanna a morte. Non le resta che occultare il cadavere, avvisare la propria madre dell'allarme e darsi ad una fuga precipitosa, ma prima di riuscire ad allontanarsi Jennsen viene raggiunta da un giovane misterioso di cui non conosce le reali intenzioni.

Chi sperava di trovare nel settimo volume de "La spada della verità" i resoconti delle impavide gesta di Richard Rahl o i pettegolezzi freschi sulla sua comitiva non sarà soddisfatto prima delle ultime cento pagine. Spiazzante ma senza dubbio originale: il protagonista acclamato ed indiscusso della fortunata saga, infatti, non è che un personaggio marginale del volume. Il punto di vista è quello di Jennsen appunto, una ragazza praticamente priva di un'identità riconosciuta e di una vita propria. Il suo cognome è Rahl e suo padre, Darken, ha cercato di farla uccidere dai suoi quadrati fin dal giorno in cui ha saputo della sua esistenza. Tra fughe precipitose e immani sacrifici, Jennsen ha vissuto nel costante terrore di venire trovata e uccisa. Sua madre, unica persona che si curi di lei, l'ha addestrata all'uso del coltello nel timore, fondato, che prima o poi uno scontro armato sia inevitabile. Alla morte di Darken Rahl, la vita per le due giovani donne diventa ancora più dura, perché al tiranno succede Richard Rahl, un uomo ancora più temibile a sposato con una donna di rara crudeltà, la Madre Depositaria in persona.
Il totale capovolgimento dei punti di vista è la caratteristica principale e senza dubbio vincente di questo volume. Richard è il nemico, il "cattivone" di turno, e obiettivo della protagonista è quello di sfuggirgli e, se possibile, eliminarlo. Terry Goodkind ha abilmente intorbidito le acque e trasformato una sorta di esercizio di scrittura in un volume scorrevole e piacevolmente misterioso, perché imperniato sulla nozione, che non verrà chiarita fino all'ultimo, di "buchi nel mondo" o Pilastri della Creazione (titolo completo, in lingua originale, del volume).
I punti a sfavore sono una scarsa verosimiglianza in alcuni passaggi e qualche spruzzo di banalità qui e là. Su una struttura del tutto originale, come ho detto, per via del ribaltamento dei ruoli, è imbastita insomma una trama che è parecchio lontana dalla perfezione. Il finale è immensamente scontato e inoltre un po' precipitoso, ma segue il resto della storia meccanicamente e in perfetta logica (e soprattutto coerentemente al carattere volubile della protagonista, che a parer mio non brilla particolarmente per intelligenza).
Io non stravedo per la saga di Goodkind, ma ho trovato soprattutto quest'ultimo volume una lettura abbastanza piacevole e senz'altro leggera (solo 528 pagine e uno stile poco impegnativo).

lunedì 3 dicembre 2012

Tracce di poesia - Friedrich Nietzsche

Qualche giorno fa qualcuno ha detto che ci sarebbe stata una tromba d'aria che non sarebbe passata inosservata. Mi sono barricata in casa e ho immaginato il "là fuori" come uno scenario apocalittico: il sublime di questa visione mi ha sopraffatta. Mentre scrivo ho chiara nella mente quell'immagine: come fare a non associarla alla personalità di Friedrich Nietzsche? Come un turbine, egli parla anche alla mente più ottusa, trasformando il dionisiaco in apollineo e l'apollineo in dionisiaco* e riconfigurando ogni paradigma. 
Chiamare Nietzsche un filosofo è cosa riduttiva: egli non assume di volta in volta le vesti di poeta, filosofo, filologo, compositore, ma è tutte queste identità insieme nella misura in cui esse costituiscono il suo proprio.
Prosa e poesia si compenetrano: il pensiero filosofico si sviscera in una prosa "spensierata" che diventa poesia armoniosa, ironia didascalica. La spontaneità dello scrivere altro non è che un presentarsi: nelle poesie sparse qui è là nelle sue opere, Nietzsche scrive della felicità, della solitudine, dell'attesa. La prospettiva intimistica è poi coadiuvata da una irrinunciabile condivisione: un tema spesso affrontato è quello degli amici. «Einsam zu denken - das ist weise. Einsam zu singen - das ist dumm!»: « ensar da soli - quest'è certo saggio, cantar da soli - questo è solo sciocco!», scrive negli "Idilli di Messina". La poesia, il cantare assieme agli altri, è via di fuga e al tempo stesso ragione di sventura: «Solo il volo mi dà nuove forze - e m'insegna affari più belli, canti e scherzi e giochi di note» e ancora «Un'oretta, due ore - o fu un anno? Fu un istante ed i sensi e la mente sprofondarono dentro un eterno tutto uguale, un abisso s'è aperto, senza limiti: - e tutto è passato! -».
Come scriveva Italo Alighiero Chiusano: «il guaio di Nietzsche poeta è che sappiamo anche troppo che la sua penna e la sua fantasia sono le stesse del Nietzsche filosofo, e"filosofo del martello"». Non esiste prosa senza poesia né uomo senza storia, è vero! Ma la poesia deve essere astorica e apolide, nella misura in cui bisogna sentirne il ritmo, l'essenza, la frenesia: la contestualizzazione viene in un secondo momento, quando i sensi si sono già lasciati inebriare dalle onde spasmodiche della lirica.
Ebbene, come si deve intendere lo slancio poetico di Nietzsche, se più volte egli stesso ha ammesso di odiare i poeti per la loro presunzione di verità? Come ha scritto Fernando Pessoa in una sua bellissima poesia ("Autopsicografia"), «il poeta è un fingitore». Ne è una dimostrazione il discorso "Dei poeti" di Zarathustra: la poesia è autentica non quando si mischia col simbolismo, ma quando è profezia dell'originario. Nietzsche, nel poetare, è animato proprio dall'esigenza di autenticità e di chiarezza:


«(...)
così una volta crollai io stesso
giù dal mio delirio di verità,
dalle mie diurne bramosie,
stanco del giorno, malato di luce -
- crollai riverso, incontro alla sera e all'ombra,
da Una verità sola
bruciato, e assetato:
- ricordi ancora, ricordi, cuore ardente,
come allora eri assetato? -
Ch'io sia bandito
da ogni verità,
solo giullare!
Solo poeta!»



Forse proprio la ricerca della Verità ha causato il suo collasso psicologico: morì da folle, ma la sua follia è tutt'uno con la sua genialità. Credo sia questo il caso di parlare di "genio e follia".


Per approfondire la questione:

Da destra Lou Andreas-Salomé, Paul Rée e Friedrich Nietzsche
  • Le poesie, Friedrich Nietzsche, a cura di Anna Maria Carpi ed edito da Einaudi 
  • Nietzsche e la poesia, a cura di Annalisa Caputo e Michele Bracco ed edito da Stilo Editrice 
  • Vita di Nietzsche di Lou Andreas-Salomé, edito da Editori Riuniti (credo che questa sia la biografia più attendibile, dal momento che Nietzsche intrattenne un triangolo filosofico-sentimentale con Lou Andreas-Salomé e Paul Rée: chi meglio della Salomé avrebbe potuto scriverne una biografia?) 



Vi lascio con questi bellissimi versi:





Il lamento di Arianna (dai "Ditirambi di Dioniso")



Chi mi riscalda, chi mi ama ancora?

Date mani ardenti,

date bracieri per il cuore!

Giù prostrata, inorridita,

quasi una moribonda cui si scaldano i piedi,
sconvolta da febbri ignote,
tremante per gelidi dardi pungenti, glaciali,
incalzata da te, pensiero!
Innominabile! Velato! Orrendo!
Tu cacciatore dietro le nubi!
Fulminata a terra da te,
occhio beffardo che dall'oscuro mi guardi!
Eccomi distesa,
mi piego, mi dibatto tormentata
da tutte le torture,
colpita da te crudelissimo cacciatore,
sconosciuto- dio...
Colpisci più in fondo!
Colpisci una volta ancora!
Trafiggi, infrangi questo cuore!
A che questa tortura
con frecce spuntate?
Perchè guardi di nuovo
insoddisfatto da questo tormento,
con divini occhi lampeggianti?
Non vuoi uccidere,
torturare solo torturare?
A che- torturarmi,
tu malvagio dio sconosciuto?
Ah! Ah!
Ti avvicini furtivo
proprio in questa mezzanotte?
Che vuoi?
Parla!
Mi stringi, mi opprimi,
ah! troppo vicino!
mi ascolti respirare,
il tuo orecchio spia il mio cuore,
o geloso
-ma di che geloso?
Via, via!
perchè la scala?
vuoi salire sin dentro, nel cuore,
nei miei piu segreti
pensieri salire?
Svergognato! Ladro!
Che speri di rubare?
Che speri di scoprire spiando?
tu -dio carnefice!
Oppure devo, come il cane,
dinanzi a te adagiarmi?
Devota, rapita fuori di me
prostrarmi- amore?
E' inutile!
Trafiggi ancora,
spina crudelissima!
Non sono un cane- solo la tua preda,
crudelissimo cacciatore!
La più superba tua prigioniera,
tu, rapitore dietro le nubi...
Parla infine!
Tu velato dal fulmine! Parla!
Che vuoi, predone, da me?
Come?
Prezzo di riscatto?
Quanto vuoi per riscattarmi?
Chiedi molto- consiglia il mio orgoglio,
e parla poco- consiglia l'altro orgoglio!
Ah! Ah!
Me- vuoi me?
me- tutta...
Ah! Ah!
E mi torturi, folle che sei,
distruggi il mio orgoglio?
Dà amore a me- chi mi scalda ancora?
dà mani ardenti,
dà bracieri al cuore,
dà a me, la più solitaria,
cui ghiaccio, ah! sette strati di ghiaccio
a bramare nemici insegnano,
persino nemici,
dà a me- te,
nemico crudelissimo,
anzi arrenditi a me!...
E' andato!
Ecco anche lui fuggì,
il mio unico compagno,
il mio grande nemico,
il mio sconosciuto,
il mio dio carnefice!..
No!
torna indietro!
Con tutte le tue torture!
Tutte le lacrime mie
corrono a te
e l'ultima fiamma del mio cuore
s'accende per te.
Oh, torna indietro,
mio dio sconosciuto! dolore mio!
felicità mia ultima...
Un lampo- Dioniso si manifesta con una bellezza smeraldina
Dioniso:
Sii saggia Arianna!...
Hai piccole orecchie, hai le mie orecchie:
metti là dentro una saggia parola!-
Non ci si deve prima odiare, se ci si vuole amare?...

Io sono il tuo Labirinto...

Friedrich Nietzsche 
*La tensione tra apollineo e dionisiaco è qualcosa di irrisolvibile in tutta la speculazione di Nietzsche.