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lunedì 31 dicembre 2012

"Il ballo tondo" di Carmine Abate

«A volte, se il corteo era in vena, ci si prendeva per mano, adulti e bambini, e in cerchio si ballava al ritmo monotono ma allegro della vallja: Lojmë Lojmë, vasha, vallen.»

Hora è una piccola comunità arbëresh della Presila, circondata da piante di sulla e rovi. Hora, in Albanese, significa paese, villaggio. Hora è il luogo del cuore di Carmine Abate, o almeno uno dei suoi luoghi del cuore: sotto la verniciatura sottile, come attraverso una filigrana, si vede Carfizzi, il paese arbëresh dove l'autore è nato. E' con grande delicatezza che lo ritrae nel libro "Il ballo tondo".

A Hora vive la famiglia Avati: Francesco, detto il Mericano, è un tipico germanese. Ha lasciato la sua casa per un lavoro a Ludwigshafen e si è ritrovato con un'identità frammentata. Va e viene da Hora, progetta confusamente, lavora duramente e cerca di "sistemare" le due figlie. Sua moglie, zonja Elena, regge con energia la casa, insegnando alle ragazze il lavoro del telaio. Orlandina e Lucrezia tessono coperte scarlatte decorate da file di acquile bicipiti.
Il piccolo Costantino non conosce il significato di quel simbolo. Il ballo tondo è il racconto della sua ricerca di un'origine, mezza sepolta dalla storia e mezza luccicante sotto il sole della Marina, dove la gente arbëresh si riunisce per il mercato. A guidare Costantino è nani Lissandro, ultimo baluardo di una tradizione che sembra sfilacciarsi sotto l'invadente pressione del twist, dell'emigrazione, del litish imposto ai bambini nella scuola in luogo dell'arbëresh. La coha dorata del matrimonio e quella nera del lutto, l'aquila bicipite, la lingua arbëresh sono fili delicati, ereditati dal passato, da cui Costantino Avati cerca di lasciarsi avviluppare, trascinato dalla modernità ma altrettanto legato all'origine mitica della sua gente. Costantino Avati, detto l'Aquila perché non si stanca mai di raccontare quell'episodio, quella volta che da bambino vide volare un'aquila a due teste nell'aria frizzantina della Marina, quello stesso giorno in cui nani Lissandro baciò la sabbia della riva e poi gliene spiegò il motivo. Quella era la costa a cui erano approdati i loro antenati, dopo una lunga fuga via mare per sfuggire ai Turchi che spadroneggiavano in Albania.
Scanderbeg, Amurat II, Costantino il Piccolo sono lo sfondo mitico della narrazione di Abate. In primo piano vediamo tratteggiate con semplicità e verità l'infanzia e la giovinezza di Costantino Avati: gli amori travagliati delle sorelle, il rapporto col maestro Carmelo Bevilacqua, i lavori per restaurare il piccolo castello venduto alla famiglia dal signorotto del paese, l'incontro con la sensuale e travolgente Isabella detta la Romana. Tutto, le piccole storie dei personaggi e la grande storia della comunità arbëresh di Hora, si intreccia ed accavalla in un delicato tentativo: quello di omaggiare un mondo tradizionale e rurale e, contemporaneamente, di aprirsi al resto del mondo (alla Germania come alla Merica). E' una vallja, un ballo tondo, che racchiude in un circolo la tradizione e la modernità, la memoria e il progetto. E' la ricerca di un'identità autentica e insieme nuova, è un intreccio a tratti comico e a tratti lirico, è un affresco semplice ma vivido.
Figura chiave del romanzo è il vecchio nani, devoto alla tradizione fino alla ripetizione, sentimentale e malinconico, tra la sua mesta constatazione che «Jeta ësht si fjeta» (la vita è come una foglia) e il suo energico omaggio alle «grat me kripë» (le donne con sale, quelle energiche e lavoratrici, passionali e schiette, come la nonna Sidonia, la giovane Lucrezia e la sfacciata Isabella). Il personaggio è ugualmente devoto alla tradizione albanese, grato alla Calabria che accolse i profughi del passato e consapevole della necessità per il genero Francesco di andare a lavorare in Germania: è la chiave di volta tra tre tempi, tre generazioni e tre culture. Sicuramente dà materiale su cui riflettere.
Carmine Abate delinea in questo romanzo (recentemente raccolto dalla Mondadori in una trilogia, Le stagioni di Hora, insieme a La moto di Scanderbeg e Il mosaico del tempo grande) un affresco delicato e variegato. Lo fa con lo stile leggero ed efficace del racconto orale dei rapsodi, e la narrazione scorre rapida tra frasi idiomatiche e dialoghi in lingua. Si legge ma si ha l'impressione di stare ascoltando Luca Rodotà, il vecchio rapsodo di Corone, mentre suonando la lahuta canta dell'eroe albanese Scanderbeg, della bella di sangue e ricotta, delle nozze di Costantino il Piccolo. Frammenti di una tradizione antica e viva, appuntata nei taccuini del maestro Bevilacqua e immortalata dal registratore di Costantino. Cristallizzata da Carmine Abate in una storia che è un intrecciarsi di storie: un omaggio alla memoria e una sfida multiculturale per il futuro.

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