Su di noi

domenica 25 novembre 2012

"La filosofia nel boudoir" del Marchese de Sade


«Le atrocità, gli orrori, i crimini più abietti non devono meravigliarti, Eugénie: quel che c'è di più sconcio, di più infame e di più proibito dà alla testa che è un piacere... e ci fa sempre orgasmare nella maniera più deliziosa.» 

Se dovessi definire con un aggettivo quest'opera, il primo che mi viene in mente è "agghiacciante". In un boudoir, stanzetta in cui le donne solevano imbellettarsi, sofisticate, superficiali e annoiate dalla vita del buon borghese, fatta di feste, cene, teatri, la giovane Eugénie viene educata al "libertinismo". Di cosa si tratta? Il libertinismo implica la distruzione di tutti i valori morali condivisi, primo tra tutti il pudore nella sessualità: non si tratta di vivere una sessualità libera da ogni pregiudizio, ma si tratta di fare sistematicamente tutto ciò che è proibito, con lucidità, con freddezza. La pedofilia, la violenza, l'abuso diventano dei doveri: è l'antimorale di Sade, il sadismo. Il sadico non è colui che ha una vita sessuale libera, ma è l'ateo, il criminale, il blasfemo. Protagonista del romanzo è sicuramente Dolmancé, l'educatore di Eugénie: è il leader del gruppetto costituito dai due, dalla signora di Saint Ange, dal fratello di lei, "il cavaliere" e da un servo molto dotato, Augustin. Nelle orge descritte molto dettagliatamente, non c'è nulla della passionalità, dell'estasi che ad esempio gli antichi greci esprimevano nei loro riti orgiastici. C'è, invece, la freddezza di un uomo, Dolmancé, il quale ritiene che l'altro sia soltanto un oggetto di cui servirsi per raggiungere il proprio piacere, non importa se questo soffra o goda, ed insegna agli altri a fare la stessa cosa, soprattutto alla sua allieva Eugénie. La crudeltà è razionalizzata, sistematizzata. L'uomo non conta nulla, né per gli altri, né per la natura, né per se stesso. L'uomo è un corpo di cui si può disporre come meglio si crede, e i valori morali e religiosi sono soltanto delle imposizioni ormai vecchie e pedanti, che non fanno bene all'uomo né alla società: una società veramente riuscita è quella che nega l'esistenza di Dio e tutto ciò che questa fede comporta. L'uomo è fatto per far soffrire, perché destinato a soffrire: può abusare degli altri perché ha subito abusi e perché poi, le vittime diventeranno carnefici, nel ciclo di vendetta e sangue che la natura ha voluto. E se l'umanità si estinguesse perseverando in questa condotta? Tanto meglio. La natura "tollera", con un certo disgusto, le sue creature, e poco importa che l'uomo esista o meno. Ritornando all'aggettivo "agghiacciante" credo che adesso sia più chiaro il perché lo abbia usato: il sadismo non è quella caricatura che si vede in TV, in cui ci sono tipi un po' eccentrici vestiti con borchie, armati di frustini, che dicono di vivere esperienze sessuali eccentriche. Il sadismo parte da una concezione antireligiosa, antimoralistica, della società e dell'uomo, sostenute e portate fino alle estreme conseguenze, fino all'annientamento dell'altro, e con le quali bisogna confrontarsi: è la parte oscura di noi, quella distruttiva, che reprimiamo ogni giorno, che ci hanno insegnato a sublimare in azioni positive, per il bene degli altri. Viviamo in questo meccanismo credendo che il male non ci riguardi, e quando veniamo a sapere di episodi di cronaca nera, omicidi cruenti, stupri o abusi sui bambini, pensiamo che sono dei pazzi, o dei pervertiti. Ma è proprio di questo che si tratta? La differenza tra noi "buoni" e i "malvagi" è una differenza sostanziale o è solo una differenza di grado? Se così fosse, de Sade non sarebbe un apologeta della perversione, ma un conoscitore dell'inferno che l'uomo porta in sé, e che aspetta il momento opportuno per uscire; rappresenta la scelta che l'uomo può fare, di buttarsi a capofitto nel proposito di agire contrariamente alla morale, con la stessa determinazione con cui un uomo religioso può decidere di agire nella santità. Non si tratta di liberare i propri istinti, ma di seguire l'antimorale, è la guerra contro la morale. Ciò che noi chiamiamo Male, Sade lo chiama Natura: ma è davvero questa la natura dell'uomo? Personalmente, i personaggi di quest'opera, in particolare Dolmancé, il più interessante senza dubbio, non mi sono sembrati naturali, ma determinati a sacrificare una parte di sé, per esaltare il piacere dato dalla distruzione: schiacciati dall'ipocrisia e dalla tirannia della morale, hanno costruito un'antimorale, ma il rischio è quello di essere schiacciati da una nuova tirannia, che reprime in senso opposto, ma con la stessa intensità, le pulsioni contrastanti dell'anima, umiliandola esattamente come la religione umilia il corpo. Non c'è armonia, ma cieca violenza. Il romanzo si conclude con un delitto, la vittima è la madre di Eugénie, che cerca di difendere inutilmente i valori morali in cui crede e che costituiscono le basi dell'educazione che ha dato a sua figlia. Ma, ormai, questa ha ricevuto, in un sol giorno, una nuova educazione, e la crudeltà del delitto ne sarà una dura dimostrazione. Dopo aver messo in pratica tutti i suoi insegnamenti fino alle più terribili conseguenze, Dolmancé dice:


 «Che splendida giornata! Non mangio mai meglio, non dormo mai così bene come quando mi sono macchiato a sufficienza, durante il giorno, di ciò che gli sciocchi chiamano crimine.»

giovedì 22 novembre 2012

Presentazione: "La collina del vento" di Carmine Abate

Che cos’è l’identità?
Questa è la prima domanda posta da Enrica Simonetti a Carmine Abate. La risposta di Carmine Abate inizia con: «Ho scritto nove libri di narrativa per cercare di rispondere a questa domanda».
La questione è profondamente intricata, stratificata. Intelligentissima è decisamente al passo con i tempi è la filosofia di Carmine Abate al riguardo: la soluzione è “vivere per addizione”.
Ricordiamolo: Carmine Abate è nato a Carfizzi, comunità  arbëreshë in provincia di Crotone; ha vissuto molti anni in Germania; attualmente vive e lavora in Trentino. Allora, sorge la domanda: quale identità Carmine Abate rivendica come propria? Si sente Calabrese, Arbëreshë, Tedesco (o meglio Germanese) o Trentino? “Vivere per addizione” vuol dire proprio sentirsi tutte queste cose insieme. Non scegliere fra le proprie diverse origini e identità una che ci rappresenti pienamente, ma viverle tutte insieme. Anche perché, come l’autore ha detto nel corso della presentazione, la discriminazione e il razzismo, come anche l’identità in un certo senso, sono solo “negli occhi degli altri”: quando si recò per la prima volta in Germania, dai Tedeschi era visto come uno straniero; dagli altri stranieri, come un Italiano; in Italia, è considerato un meridionale (o terrone); tra i meridionali, è un Calabrese; tra i Calabresi, uno ghiegghiu (termine dialettale, leggermente dispregiativo, per indicare gli appartenenti alle comunità arbëreshë); e a Carfizzi, tra gli Arbëreshë, era additato come Germanese (e oggi come Trentino). È lo sguardo degli altri, dunque, a frantumare l’identità di una persona: Carmine Abate si dice legato alle proprie radici più profonde (quelle arbëreshë e calabresi), ma non meno legato alle radici un po’ meno profonde, solo perché più recenti, che nel corso della vita ha affondato nei diversi terreni dei luoghi in cui ha vissuto.
Nel corso della presentazione abbiamo avuto dimostrazione pratica di questa filosofia: due partecipanti all’evento si sono rivolti all’autore in lingua albanese e in lingua tedesca, e lui ha risposto a entrambi nelle rispettive lingue, con la massima scioltezza ed evidente piacere.
È in questa filosofia, se vogliamo in questo “stile di vita” che affonda anche la principale caratteristica della narrativa di Carmine Abate: la tecnica o lo stile del “doppio sguardo”. L’identità e l’appartenenza si fanno forse più chiare e più sentite quando ci si allontana dalla terra in questione. Non a caso, Abate è un Calabrese che scrive di Calabria dalla Germania prima e dal Trentino poi. Lo fa essenzialmente attraverso un doppio sguardo, cioè attraverso la messa a fuoco di due diversi punti di vista: quello di chi appartiene alla comunità descritta e raccontata e quello di chi la vede e la scopre dall’esterno.
Cos’altro ha raccontato Carmine Abate di sé?
È stata una presentazione davvero piacevole e ricca di curiosità, in cui c’è stato spazio per qualche racconto dei tempi in cui era studente di materie letterarie presso l’Università di Bari, a partire dal suo incontro fortuito con Pier Paolo Pasolini, che segnò una vera svolta nella sua vita, consacrandolo all’arte della scrittura, fino alle torture più crudeli che goliardiche che gli studenti più anziani infliggevano alle matricole.
Per quanto riguarda la sua attività come scrittore, Carmine Abate ci ha rivelato quale sia il sentimento che più di altri lo spinge a scrivere: una sorta di “urgenza”. È quella che ha provato per esempio da ragazzo di fronte alle condizioni estremamente dure in cui suo padre, come altri emigrati, era costretto a lavorare durante il suo soggiorno ad Amburgo. È insomma una voglia ardente di denunciare le storture a cui l’autore si trova ad assistere.
E come poi da questa urgenza emergano delle storie ricche e articolate, è presto detto: come per altri autori (che personalmente ammiro e capisco ben più di quelli che si basano su “scalette” stabilite a mente fredda), per Carmine Abate tutto ha inizio da “visioni”, immagini quasi cinematografiche che colpiscono anche l’olfatto. Per quanto riguarda “La collina del vento”, Abate ha raccontato di aver avuto innanzitutto l’intuizione di due morti ammazzati appunto su una collina. Ha innanzitutto descritto questa scena, arricchendola dell’odore e del colore purpureo della sulla, e solo successivamente è venuto a conoscenza di chi fossero i due morti in questione, di chi li avesse uccisi e di tutto il resto della storia. Il ruolo dello scrittore interpretato da Abate è dunque, in un certo senso, “passivo”: di un vaso che si trova a ricevere una storia e a trascrivere le vicende che i personaggi (che presto diventano vere e proprie “persone” con un proprio carattere e un proprio destino) scrivono praticamente da sé. Abbiamo a che fare dunque con uno scrittore propriamente detto, un vero e proprio entheos di stampo aristotelico (il che mi piace!).
Per quanto riguarda lo stile di scrittura, e se Carmine Abate lo abbia mutuato da qualche altro autore, la risposta è stato sorprendente e piacevole: sicuramente tra gli scrittori da lui più apprezzati c’è Pavese, ma da nessuno scrittore Abate si è sentito influenzato come dai contadini del suo paese. Questi sono i più abili narratori, i più coinvolgenti affabulatori: è al loro modo di raccontare, è alla sveltezza e all’intensità della migliore tradizione orale popolare che Abate ha improntato il suo modo di scrivere. Con questo, gli piace dirsi inscritto nell’alveo degli antichi rapsodi, dei narratori orali appunto, che appoggiano le proprie storie sulle ballate, sulle vicende personali e popolari, sul dialetto. Perché la parola dialettale, come la parola arbëreshë, si inserisce armonicamente nella tessitura dello scritto di Abate, senza stonare o risultare incomprensibile. Segue in questo i molti autori che miscelano italiano e dialetto nelle loro opere, e lo fa in un suo modo molto personale e piacevole.
Prima della presentazione, ho avuto il piacere di scambiare qualche parola con Carmine Abate. È assolutamente il caso di riportare una parte della conversazione, che trovo di interesse praticamente pubblico.
Chiacchierando, gli ho detto di aver pubblicato un libro qualche tempo fa. L’ho detto con un tono dimesso e vergognoso, sperando che non indagasse. Lui, implacabile, ha indagato. Mi ha chiesto con che casa editrice. Alla mia risposta, ha scosso la testa.
«Non pubblicare mai con una casa editrice a pagamento», mi ha ammonito, sebbene per me purtroppo fosse troppo tardi (ebbene sì, io ho commesso questo grave errore di gioventù di cui ho già ampiamente avuto modo di pentirmi). Carmine Abate non è mai, in tutta la sua carriera, neanche agli esordi in Germania, ricorso all’editoria a pagamento. Non ha mai tirato fuori un soldo per pubblicare un libro.
Non è una questione di orgoglio né meramente di soldi: il fatto è che (parola di Abate) avere nel curriculum un libro pubblicato da una casa editrice a pagamento «è un pessimo biglietto da visita» quando ci si presenti da un editore “serio”.
Bene, scrittori esordienti e aspiranti scrittori che leggete questo post, siate avvisati!
Tornando all’argomento della presentazione, il libro “La collina del vento” sembra davvero aver messo d’accordo “critica e botteghino”. Alla piacevolezza della lettura sembrano aggiungersi un grande stile e un certo spessore. Non a caso, l’opera ha vinto l’ultimo Premio Campiello! Conoscendo Abate, non ho dubbi che il riconoscimento e i complimenti siano meritatissimi. Tornerò a parlare di questo libro dopo aver avuto il piacere di leggerlo!



mercoledì 21 novembre 2012

"L'amico ritrovato" di Fred Uhlman


"Non vidi il fuoco né udii le grida della madre e della cameriera, ma appresi la notizia il giorno dopo, quando i miei occhi si posarono sui muri anneriti, sulle bambole carbonizzate e sulle funi bruciacchiate dell'altalena, che dondolavano come serpenti dall'albero accartocciato. Ne rimasi sconvolto, come mai prima di allora. Avevo sentito parlare di terremoti nei quali erano state inghiottite migliaia di persone, di fiumi di lava incandescenti che avevano travolto interi villaggi, di onde gigantesche che avevano spazzato via le isole. Avevo letto che un milione di persone erano annegate durante l'inondazione del Fiume Giallo e altri due in quella dello Yangtse. Sapevo che a Verdun avevano perso la vita un milione di soldati. Ma non erano che astrazioni, numeri privi di significato, dati statistici, notizie. Non si può soffrire per un milione di morti. (...) «Non li vedi bruciare?» gridai disperato. «Non senti le loro urla? E hai ancora il coraggio di giustificare l'accaduto perché sei troppo pavido per vivere senza il tuo Dio? Cosa ci può servire un Dio privo di potere e di pietà? Un Dio che se ne sta nel suo paradiso e tollera la malaria e il colera, la carestia e le guerre?»"



Chi legge le pagine di questo libro ha come l'impressione di trovarsi sospeso in un'epoca intermedia, un'epoca a metà tra il presente e il passato. Forse è per questo che la prima volta l'ho abbandonato. Noi leggiamo da una postazione super partes, "protetti" dagli anni di storia che ci hanno preceduto: un ebreo degli anni Trenta non aveva le spalle coperte. Il nazifascismo era ancora troppo astratto per costituire una minaccia, ma già per le strade si avvertiva il terrore di chi, a causa delle proprie innegabili radici, doveva ritenersi un emarginato, un inferiore.
Questa è la storia dell'amicizia tra due sedicenni: uno (il protagonista, che parla in prima persona) è figlio di un medico ebreo, l'altro è discendente della gloriosa dinastia degli Hohenfels. Il suo nome è Konradin.
L'autore ci trasporta nella Stoccarda nazista del 1933: partendo da un'innocente amicizia, egli mette in scena la triste realtà dell'epoca, in cui divampano il bullismo in nome della razza ariana, la pressione psicologia, l'intolleranza, la perdita di identità. I tedeschi sono ammaliati dalla figura carismatica di Hitler, gli ebrei restano, gli ebrei partono. E da ebreo parte il nostro protagonista, alla volta dell'America, lasciando i propri genitori, che vogliono morire nella loro amata Germania, che pur li ripudia.
Dopo trent'anni, l'autore scrive "un libro che assilla la memoria", e i ricordi sembrano ricamati su una stoffa indistruttibile, sulla quale si vedono il dolore, la mistificazione, l'umanità tradita. Ciò che lo riporta al passato è una lettera da parte del suo vecchio liceo (il Karl Alexander Gymnasium), che contiene una richiesta di fondi "per l'erezione di un monumento funebre alla memoria degli allievi caduti durante la seconda guerra mondiale". In allegato, un libretto con la lista di tutti i caduti, in ordine alfabetico. I nomi sono ricordi. Legge e rilegge, saltando i cognomi che iniziano per H. Che fine ha fatto Konradin von Hohenfels?
Lascio a voi la sorpresa.


"Com'era inevitabile, alcuni tedeschi hanno incrociato la mia strada, brave persone che erano finite in prigione per essersi opposte a Hitler. (...) Ma anche con loro fingevo di avere qualche difficoltà a parlare tedesco. È una specie di facciata protettiva che adotto quasi (ma non del tutto)inconsciamente quando devo parlare con un tedesco. In realtà mi esprimo ancora perfettamente, accento americano a parte, ma non amo servirmi della mia lingua d'origine. Le mie ferite non si sono ancora rimarginate e, ogni volta che ripenso alla Germania, è come se venissero sfregate con il sale."



sabato 17 novembre 2012

"Il profumo" di Patrick Süskind



«Avrebbe potuto tacere e scegliere la via diretta dalla nascita alla morte senza deviare per la vita, e con ciò avrebbe risparmiato una quantità di sciagure al mondo e a se stesso. Ma per uscire di scena così discretamente avrebbe dovuto avere un minimo di gentilezza innata, cosa che Grenouille non possedeva. Fin dall'inizio fu un mostro. Si decise a favore della vita per puro dispetto e per pura malvagità.»


Sulla base di una ricostruzione storica molto dotta e ben documentata, Patrick Süskind ha delineato una storia di rara originalità e potente carica suggestiva.
L'autore riesce a trasportare con grande naturalezza il lettore in una dimensione distante dal modo di interpretare il mondo proprio della cultura occidentale, e cioè attraverso lo sguardo. Nella nostra cultura, gli approcci interpersonali, gli schemi concettuali che applichiamo alle percezioni, ogni cosa, insomma, è prettamente veicolata dal senso della vista. Nelle pagine de « Il profumo» si viene sbalzati fuori da questo habitus percettivo e mentale, ci si trova immersi in un mondo dipinto e descritto soprattutto tramite gli odori.
In una Parigi di fine Settecento, stipata di uomini e di case, nonché di cattivi odori di ogni tipo, viene al mondo non voluto da nessuno Jean-Baptiste Grenouille. Aggrappandosi alla vita come una zecca, rifiutandosi di morire «per puro dispetto e per pura malvagità», tra orfanotrofi, sfruttamenti e malattie, il piccolo cresce e sviluppa sempre più il dono sovrumano di cui la natura lo ha dotato: un olfatto straordinariamente acuto.
Jean-Baptiste, conscio della propria genialità, decidere di apprendere l'arte profumiera. Inizia così a lavorare per Giuseppe Baldini, profumiere che gli fornirà le basi del mestiere, e poi si sposta nella cittadina di Grasse per apprendere delle tecniche particolari. Tutto ciò perché Jean-Baptiste vuole far fruttare il suo dono e creare il profumo più straordinario di tutti i tempi: un profumo umano in grado di suscitare l'amore che gli è stato negato per tutta la vita.
Grenouille è un personaggio chiaramente squilibrato che l'autore cerca con ogni mezzo di far risultare odioso, tra manie di grandezza, atti di scellerata violenza, e riferimenti costanti alla sua cattiveria. Eppure, da lui si resta stregati.
Grenouille dimostra di essere davvero ciò che tutti hanno sempre creduto di lui: un mostro. Eppure, la mostruosità non risiede nella sua mancanza di umanità, nella leggerezza quasi inconsapevole che lo spinge all'omicidio seriale, nè in alcuno dei suoi delitti. La mostruosità di Grenouille risiede nella sua incapacità di amare. E' un personaggio richiuso in se stesso, prigioniero della propria perversità, incapace di darsi al mondo e di cercare un posto per sé nella comunità degli altri uomini.
E' un personaggio tratteggiato a tinte forti, a tratti spaventose e a tratti compassionevoli. Sicuramente con grande maestria.
Nel 2006 Tom Tykwer ha diretto «Profumo - Storia di un assassino», trasposizione cinematografica molto curata e abbastanza fedele del bellissimo romanzo di Süskind. Un film che merita sicuramente di essere visto e che mi è capitato di conoscere e apprezzare prima del romanzo.

Ben Whishaw interpreta magistralmente il ruolo di Grenouille in "Profumo - Storia di un assassino" 

mercoledì 14 novembre 2012

"La neve se ne frega" di Luciano Ligabue


«Fagli vedere il mare, piccola. Guarda tuto il mare che puoi. Infila tutto negli occhi da brava ingorda. Non stancarti di farlo. Per favore, non stancarti. Fagli "sentire" il mare con i tuoi occhi. Porgi anche il suo orecchio perchè possa sentirne i rumori ipnotici e quelli che non lasciano scampo.»

 L'uomo si distingue dagli altri animali perché è l'unico capace di ridere, ad avere un corso della vita "dritto" (mentre gli animali, che buffa cosa, nascono giovani e muoiono vecchi!) e a non riprodursi.
Questa è una verità semplice e all'ordine del giorno per DiFo e sua moglie Natura. Il Piano Vidor, la dittatura ipertecnologica che monitora ogni movimento dei cittadini, pianifica loro le esistenze, li fa nascere da una bolla generatrice e li abbina, in cambio garantisce loro i diritti, il «diritto ai diritti» e la felicità.
Nel pieno della giovinezza (cioè verso i sessant'anni), però, Natura mostra una strana anomalia. La sua pancia ingrossa, è tormentata da nausee e nessun medico sa fornirle una diagnosi.
Da secoli quella società ha dimenticato come sia una gravidanza umana e nessuno sembra riuscire a farsene una ragione, né a farvi fronte. Ma soprattutto, il Piano Vidor non è disposto ad accettare un simile regresso della specie.
La storia di DiFo e Natura è soprattutto una storia d'amore e una storia sul mistero, sul miracolo della vita. E' una strana fiaba sulla natura dell'uomo, una proiezione da incubo (o da sogno?) sul nostro futuro sempre più tecnologico e scientificamente sviluppato.
Se è vero che non ho apprezzato completamente lo stile di Ligabue, che mette in bocca ai suoi personaggi della fine del XXII secolo espressioni molto molto provinciali (e che sanno poco di fantascientifico), è vero anche che sono rimasta dolcemente affascinata dalla sua trama.
Quel mondo capovolto finisce col risultare pienamente verosimile e ritrovarsi in un mondo senza telecamere (o quantomeno con poche telecamere) in cui i neonati sono neonati e non «vecchietti dell'asilo» dà un'intensa nostalgia.
Questo libro è stato capace di suggestionarmi come pochi altri. Credo valga più di una recensione, per dettagliata che sia, questa ammissione: sono davvero felice di averlo letto (e grazie a Clem che mi ha praticamente costretto!).

«Ti lasciavi andare. Ti consegnavi a un destino che nessuno ti aveva confermato. E lo facevi da sola. Come non volessi ricordare che, qualunque fosse stato il cammino, qualunque la meta, io ci dovevo essere.»

lunedì 5 novembre 2012

Tracce di poesia - John Keats e Fanny Brawne

Ben ritrovati! 
Leggendo questo post vi ritroverete a Wentworth Place, nel 1819. Dopo aver ammirato i vostri obsoleti indumenti, vi guarderete attorno. Smarriti? No, forse un po' nostalgici.
Ebbene, oggi vi voglio trasportare nei meccanismi incantevoli di un amore lungamente invidiato. Invidiato da chi, allora, riteneva inopportuno per un poeta del rango di John Keats immischiarsi in bazzeccole come l'amore, che l'avrebbero sicuramente distolto dalla poesia. Invidiato da chi, oggi, viene affascinato dalle parole che il poeta scrisse alla sua amata Fanny Brawne.
L'amore tra Fanny e John nacque lentamente: il primo fu un incontro fortuito: la signora Brawne, vedova dal 1810, viveva coi suoi tre figli: Fanny, Samuel e Margaret. Nella casa accanto, Charles Brown ospitava il giovane Keats, addolorato per la morte del fratello Tom.
Per tutta la durata della relazione il poeta tentò di dare un nome a ciò che provava: un tumulto? Un brivido? “...io non so come esprimere la mia adorazione per tanta bellezza: voglio una parola più luminosa di luminosa, più bella di bella. Vorrei che fossimo farfalle e vivessimo tre soli giorni d'estate – tre giorni così, con te, sarebbero più colmi di delizie di quante ne potrebbero contenere cinquanta anni di vita ordinaria” scrisse il poeta alla sua amata. E ancora: “Sono avido di te. Non pensare che a me. Non vivere come se io non esistessi. Non dimenticarmi. Ma ho un qualche diritto di dire che mi dimentichi? Forse mi pensi tutto il giorno. Ho un qualche diritto che tu sia infelice per me? Mi perdoneresti simile pretesa, se sapessi con quanta passione desidero che tu mi ami – ora, per amarmi come ti amo io, devi pensare soltanto a me”. Un turbamento? Una malattia? Ecco. Forse una malattia. Il giovane si nutriva di un amore esasperato, ossessivo, geloso.
La forza di quest'amore ci scuote. Sembra chiederci, da quel lontano 1819: può esserci un amore più tremendo? Più tenero? Più indimenticabile? Le mani ci tremano perché reggono qualcosa di prezioso e raro: le epistole che John inviò alla sua "bright star". E quelle che la ragazza scrisse a lui? Non ci sono mai pervenute. 
Quando, infatti, il poeta si trasferì in Italia per far fronte alla sua affezione polmonare emorragica con un clima più vivibile, decise di interrompere la "corrispondenza d'amorosi sensi" (per usare un'espressione leopardiana). Anzi! Ordinò agli amici di distruggere le lettere dell'amata, mentre la ragazza conservò tutte le lettere ricevute. Il silenzio fu straziante. Il saluto che si diedero al postale di Pond Street, prima della partenza di Keats per l'Italia, fu quindi un addio?
Non proprio.
Anche dopo la morte dell'amato, Fanny continuò a ricordarlo e a leggerne i versi pieni di passione. Si rassegnò? Chi può dirlo?
Quello che ci rimane oggi è un pregevole epistolario e una lapide, che recita:

« Questa tomba contiene i resti mortali di un GIOVANE POETA INGLESE che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: “Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell'acqua”  »

Per chi volesse approfondire la vita di Keats e il romanticissimo soffio vitale di cui sono intrise le sue opere, vi consiglio: 
  • il libro "Bright star. Vita breve di John Keats", di Elido Fazi ed edito da Fazi Editore;
  • l'epistolario "Leggiadra stella. Lettere a Fanny Brawne", edito da Archinto;
  • il film "Bright Star" con la regia di Jane Campion.

Di seguito una delle poesie più belle della letteratura di tutti i tempi: 


Il miraggio dell’amore costante

Oh, fossi come te, lucente stella,
costante – non sospeso in solitario
splendore in alto nella notte, e spiando,
con le palpebre schiuse eternamente
come eremita paziente ed insonne
della natura, le mobili acque
nel loro compito sacerdotale
di pura abluzione intorno ai lidi
umani della terra, o rimirando
la maschera di nuova neve che
sofficemente cadde sopra i monti
e sopra le brughiere,no – ma sempre
costante ed immutabile posare
il capo sul bel seno maturante
del mio amore e sentire eternamente
il suo dolce abbassarsi e sollevarsi,
per sempre desto in una dolce ansia,
sempre udire il suo tenero respiro
e vivere così perennemente -
o svenire altrimenti nella morte.


(John Keats)



Una delle scene del film "Bright Star". Qui Abbie Cornish nelle vesti di Fanny Brawne.