"Non
vidi il fuoco né udii le grida della madre e della cameriera, ma appresi la
notizia il giorno dopo, quando i miei occhi si posarono sui muri anneriti,
sulle bambole carbonizzate e sulle funi bruciacchiate dell'altalena, che
dondolavano come serpenti dall'albero accartocciato. Ne rimasi sconvolto, come
mai prima di allora. Avevo sentito parlare di terremoti nei quali erano state
inghiottite migliaia di persone, di fiumi di lava incandescenti che avevano
travolto interi villaggi, di onde gigantesche che avevano spazzato via le
isole. Avevo letto che un milione di persone erano annegate durante
l'inondazione del Fiume Giallo e altri due in quella dello Yangtse. Sapevo che
a Verdun avevano perso la vita un milione di soldati. Ma non erano che
astrazioni, numeri privi di significato, dati statistici, notizie. Non si può
soffrire per un milione di morti. (...) «Non li vedi bruciare?» gridai
disperato. «Non senti le loro urla? E hai ancora il coraggio di giustificare
l'accaduto perché sei troppo pavido per vivere senza il tuo Dio? Cosa ci può
servire un Dio privo di potere e di pietà? Un Dio che se ne sta nel suo
paradiso e tollera la malaria e il colera, la carestia e le guerre?»"
Chi legge le pagine di questo libro ha come
l'impressione di trovarsi sospeso in un'epoca intermedia, un'epoca a metà tra
il presente e il passato. Forse è per questo che la prima volta l'ho
abbandonato. Noi leggiamo da una postazione super partes, "protetti" dagli anni
di storia che ci hanno preceduto: un ebreo degli anni Trenta non aveva le
spalle coperte. Il nazifascismo era ancora troppo astratto per costituire una
minaccia, ma già per le strade si avvertiva il terrore di chi, a causa delle
proprie innegabili radici, doveva ritenersi un emarginato, un inferiore.
Questa è la storia dell'amicizia tra due sedicenni:
uno (il protagonista, che parla in prima persona) è figlio di un medico ebreo,
l'altro è discendente della gloriosa dinastia degli Hohenfels. Il suo nome è
Konradin.
L'autore ci trasporta nella Stoccarda nazista del
1933: partendo da un'innocente amicizia, egli mette in scena la triste realtà dell'epoca, in cui divampano il bullismo in nome della razza ariana, la
pressione psicologia, l'intolleranza, la perdita di identità. I tedeschi sono
ammaliati dalla figura carismatica di Hitler, gli ebrei restano, gli ebrei
partono. E da ebreo parte il nostro protagonista, alla volta dell'America,
lasciando i propri genitori, che vogliono morire nella loro amata Germania, che
pur li ripudia.
Dopo trent'anni, l'autore scrive "un libro che
assilla la memoria", e i ricordi sembrano ricamati su una stoffa
indistruttibile, sulla quale si vedono il dolore, la mistificazione, l'umanità
tradita. Ciò che lo riporta al passato è una lettera da parte del suo vecchio
liceo (il Karl Alexander Gymnasium), che contiene una richiesta di fondi
"per l'erezione di un monumento funebre alla memoria degli allievi caduti
durante la seconda guerra mondiale". In allegato, un libretto con la lista
di tutti i caduti, in ordine alfabetico. I nomi sono ricordi. Legge e rilegge,
saltando i cognomi che iniziano per H. Che fine ha fatto Konradin von
Hohenfels?
Lascio a voi la sorpresa.
"Com'era
inevitabile, alcuni tedeschi hanno incrociato la mia strada, brave persone che
erano finite in prigione per essersi opposte a Hitler. (...) Ma anche con loro
fingevo di avere qualche difficoltà a parlare tedesco. È una specie di facciata
protettiva che adotto quasi (ma non del tutto)inconsciamente quando devo
parlare con un tedesco. In realtà mi esprimo ancora perfettamente, accento
americano a parte, ma non amo servirmi della mia lingua d'origine. Le mie
ferite non si sono ancora rimarginate e, ogni volta che ripenso alla Germania,
è come se venissero sfregate con il sale."
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