Che cos’è l’identità?
Questa è la prima domanda posta da Enrica Simonetti a Carmine Abate. La
risposta di Carmine Abate inizia con: «Ho scritto nove libri di narrativa per
cercare di rispondere a questa domanda».
La questione è profondamente intricata, stratificata. Intelligentissima
è decisamente al passo con i tempi è la filosofia di Carmine Abate al riguardo:
la soluzione è “vivere per addizione”.
Ricordiamolo: Carmine Abate è nato a Carfizzi, comunità arbëreshë
in provincia di Crotone; ha vissuto molti anni in Germania; attualmente vive e
lavora in Trentino. Allora, sorge la domanda: quale identità Carmine Abate
rivendica come propria? Si sente Calabrese, Arbëreshë, Tedesco (o meglio
Germanese) o Trentino? “Vivere per addizione” vuol dire proprio sentirsi tutte
queste cose insieme. Non scegliere fra le proprie diverse origini e identità
una che ci rappresenti pienamente, ma viverle tutte insieme. Anche perché, come
l’autore ha detto nel corso della presentazione, la discriminazione e il
razzismo, come anche l’identità in un certo senso, sono solo “negli occhi degli
altri”: quando si recò per la prima volta in Germania, dai Tedeschi era visto
come uno straniero; dagli altri stranieri, come un Italiano; in Italia, è
considerato un meridionale (o terrone); tra i meridionali, è un Calabrese; tra
i Calabresi, uno ghiegghiu (termine dialettale, leggermente dispregiativo, per
indicare gli appartenenti alle comunità arbëreshë); e a Carfizzi, tra gli
Arbëreshë, era additato come Germanese (e oggi come Trentino). È lo sguardo
degli altri, dunque, a frantumare l’identità di una persona: Carmine Abate si
dice legato alle proprie radici più profonde (quelle arbëreshë e calabresi), ma
non meno legato alle radici un po’ meno profonde, solo perché più recenti, che
nel corso della vita ha affondato nei diversi terreni dei luoghi in cui ha
vissuto.
Nel corso della presentazione abbiamo avuto dimostrazione pratica di
questa filosofia: due partecipanti all’evento si sono rivolti all’autore in
lingua albanese e in lingua tedesca, e lui ha risposto a entrambi nelle
rispettive lingue, con la massima scioltezza ed evidente piacere.
È in questa filosofia, se vogliamo in questo “stile di vita” che
affonda anche la principale caratteristica della narrativa di Carmine Abate: la
tecnica o lo stile del “doppio sguardo”. L’identità e l’appartenenza si fanno
forse più chiare e più sentite quando ci si allontana dalla terra in questione.
Non a caso, Abate è un Calabrese che scrive di Calabria dalla Germania prima e
dal Trentino poi. Lo fa essenzialmente attraverso un doppio sguardo, cioè
attraverso la messa a fuoco di due diversi punti di vista: quello di chi
appartiene alla comunità descritta e raccontata e quello di chi la vede e la
scopre dall’esterno.
Cos’altro ha raccontato Carmine Abate di sé?
È stata una presentazione davvero piacevole e ricca di curiosità, in
cui c’è stato spazio per qualche racconto dei tempi in cui era studente di
materie letterarie presso l’Università di Bari, a partire dal suo incontro fortuito
con Pier Paolo Pasolini, che segnò una vera svolta nella sua vita,
consacrandolo all’arte della scrittura, fino alle torture più crudeli che
goliardiche che gli studenti più anziani infliggevano alle matricole.
Per quanto riguarda la sua attività come scrittore, Carmine Abate ci ha
rivelato quale sia il sentimento che più di altri lo spinge a scrivere: una
sorta di “urgenza”. È quella che ha provato per esempio da ragazzo di fronte
alle condizioni estremamente dure in cui suo padre, come altri emigrati, era
costretto a lavorare durante il suo soggiorno ad Amburgo. È insomma una voglia
ardente di denunciare le storture a cui l’autore si trova ad assistere.
E come poi da questa urgenza emergano delle storie ricche e articolate,
è presto detto: come per altri autori (che personalmente ammiro e capisco ben
più di quelli che si basano su “scalette” stabilite a mente fredda), per
Carmine Abate tutto ha inizio da “visioni”, immagini quasi cinematografiche che
colpiscono anche l’olfatto. Per quanto riguarda “La collina del vento”, Abate
ha raccontato di aver avuto innanzitutto l’intuizione di due morti ammazzati
appunto su una collina. Ha innanzitutto descritto questa scena, arricchendola
dell’odore e del colore purpureo della sulla, e solo successivamente è venuto a
conoscenza di chi fossero i due morti in questione, di chi li avesse uccisi e
di tutto il resto della storia. Il ruolo dello scrittore interpretato da Abate
è dunque, in un certo senso, “passivo”: di un vaso che si trova a ricevere una
storia e a trascrivere le vicende che i personaggi (che presto diventano vere e
proprie “persone” con un proprio carattere e un proprio destino) scrivono
praticamente da sé. Abbiamo a che fare dunque con uno scrittore propriamente
detto, un vero e proprio entheos di stampo aristotelico (il che mi piace!).
Per quanto riguarda lo stile di scrittura, e se Carmine Abate lo abbia
mutuato da qualche altro autore, la risposta è stato sorprendente e piacevole:
sicuramente tra gli scrittori da lui più apprezzati c’è Pavese, ma da nessuno
scrittore Abate si è sentito influenzato come dai contadini del suo paese.
Questi sono i più abili narratori, i più coinvolgenti affabulatori: è al loro
modo di raccontare, è alla sveltezza e all’intensità della migliore tradizione
orale popolare che Abate ha improntato il suo modo di scrivere. Con questo, gli
piace dirsi inscritto nell’alveo degli antichi rapsodi, dei narratori orali
appunto, che appoggiano le proprie storie sulle ballate, sulle vicende
personali e popolari, sul dialetto. Perché la parola dialettale, come la parola
arbëreshë, si inserisce armonicamente nella tessitura dello scritto di Abate,
senza stonare o risultare incomprensibile. Segue in questo i molti autori che
miscelano italiano e dialetto nelle loro opere, e lo fa in un suo modo molto
personale e piacevole.
Prima della presentazione, ho avuto il piacere di scambiare qualche
parola con Carmine Abate. È assolutamente il caso di riportare una parte della
conversazione, che trovo di interesse praticamente pubblico.
Chiacchierando, gli ho detto di aver pubblicato un libro qualche tempo
fa. L’ho detto con un tono dimesso e vergognoso, sperando che non indagasse.
Lui, implacabile, ha indagato. Mi ha chiesto con che casa editrice. Alla mia
risposta, ha scosso la testa.
«Non pubblicare mai con una casa editrice a pagamento», mi ha ammonito,
sebbene per me purtroppo fosse troppo tardi (ebbene sì, io ho commesso questo
grave errore di gioventù di cui ho già ampiamente avuto modo di pentirmi).
Carmine Abate non è mai, in tutta la sua carriera, neanche agli esordi in
Germania, ricorso all’editoria a pagamento. Non ha mai tirato fuori un soldo
per pubblicare un libro.
Non è una questione di orgoglio né meramente di soldi: il fatto è che
(parola di Abate) avere nel curriculum un libro pubblicato da una casa editrice
a pagamento «è un pessimo biglietto da visita» quando ci si presenti da un
editore “serio”.
Bene, scrittori esordienti e aspiranti scrittori che leggete questo
post, siate avvisati!
Tornando all’argomento della presentazione, il libro “La collina del
vento” sembra davvero aver messo d’accordo “critica e botteghino”. Alla
piacevolezza della lettura sembrano aggiungersi un grande stile e un certo
spessore. Non a caso, l’opera ha vinto l’ultimo Premio Campiello! Conoscendo
Abate, non ho dubbi che il riconoscimento e i complimenti siano meritatissimi. Tornerò
a parlare di questo libro dopo aver avuto il piacere di leggerlo!
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