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mercoledì 22 marzo 2017

La nuova colonia, Luigi Pirandello


La nuova Colonia fu rappresentata per la prima volta al Teatro Argentina di Roma nel 1928. Un’opera che coniuga la narrazione mitica, biblica, con la tradizione realista siciliana di verghiana memoria,  che ci spinge ad una attenta riflessione sulla natura del potere, sulle dinamiche prevaricatorie che inevitabilmente sorgono all’interno di una comunità, sulla naturale brutalità e violenza degli esseri umani, scissi tra il desiderio di riscatto e la loro essenza intrinsecamente corruttiva.

Il primo atto si svolge in una taverna di “un paese meridionale”: un locale che si affaccia sul porto, meta di avventori  dalle facce consumate dalla vita dissoluta, fatta di espedienti, di violenza e furberie, necessarie per sopravvivere. Su questo scenario degradato si susseguono personaggi di dubbia moralità: una prostituta, La Spera, pirandellianamente acconciata, Tobba, un ex galeotto di tarda età, e poi una cricca di delinquenti, Currao, Osso-di-seppia, Fillicò, Burrania, Crocco ed altri. Si parla di un’isola, sede di un penitenziario ormai dismesso: Tobba descrive quest’isola come un Eden, ameno e incontaminato, rimpiangendo i tempi della sua permanenza in quel luogo. Ad ascoltarlo incantato un innocente giovanotto, Dorò, figlio di un notabile locale, Padron Nocio, il quale irrompe sulla scena per dissuadere suo figlio dal frequentare quel covo di corruzione e decadenza, invano. Tra un bicchiere di vino e un’imprecazione, tra una discussione accesa e una rissa, la combriccola giunge alla conclusione che in questa civiltà nessuno di loro potrà mai riscattarsi. Qualunque tentativo di redimersi è vano: se un delinquente è stato in galera, ne avrà sempre la puzza addosso, sarà sempre considerato un delinquente, perché questa è l’etichetta che la società ti ha affibbiato, questa è l’onta che non potrai mai cancellare; se una prostituta si spoglia del trucco eccessivo, del vestiario allusivo, gli altri la vedranno sempre volgarmente truccata e disinibita. Non c’è riscatto, quando negli altri vive l’immagine che ti condanna alla corruzione e all’emarginazione. La Spera allora fa una proposta: perché non andare tutti sull’isola per ricominciare? Perché non fondare una nuova civiltà che finalmente ci permetta di cambiare? Dopo alcune perplessità, dovute soprattutto al modo in cui recarsi sull’isola e al fatto che quel posto è destinato ad essere sommerso dal mare, decidono di partire. Una nuova colonia costituita da ex galeotti e da una prostituta che decidono di fuggire dalla civiltà che li ha impietosamente condannati.

Il secondo atto comincia con una discussione tra Crocco e Fillicò. La ciurma è approdata sull’isola, e bisogna stabilire dove ognuno di loro debba vivere e quale pezzo di terra debba lavorare. La discussione verte proprio su questo punto: entrambi hanno adocchiato la medesima abitazione diroccata e lo stesso pezzo di terra. Interviene nella disputa Currao, riconosciuto come capo e garante dell’ordine in quanto possiede l’unica donna della comunità, La Spera, la quale da prostituta  diventa la donna più desiderata, che si prende cura degli uomini, amata e  rispettata da tutti perché  compagna legittima di Currao. Questi propone di formare un tribunale che possa dirimere la controversia. Crocco reagisce con rabbia, non si è liberato da una legge per sottomettersi ad un’altra! Currao gli risponde che è necessaria una legge «che valga per te e per tutti allo stesso modo; legge tua e nostra, che ce la comandiamo noi stessi, perché l’abbiamo riconosciuta giusta; come la necessità ce l’ha insegnata: del lavoro che dobbiamo fare, tutti, ciascuno il suo, per darci aiuto a vicenda: tu questo, io quello, secondo le forze e le capacità. Non te l’impone nessuno. Tu stesso. Perché possa ricevere, in cambio di quello che dai». Crocco si rifuta di obbedire a questa legge condivisa, non riconosce il potere di Currao legittimo, perché il fondamento di questo potere si fonda su un privilegio, il possesso di una donna. Allora decide di andarsene, sottraendo alla comunità l’unica imbarcazione che permetteva loro di avere un contatto con il vecchio mondo.

Il terzo atto si apre con l’invasione dell’isola. Crocco ritorna accompagnato da Padron Nocio, che vuole portare il figlio con sé e da altri che vogliono entrare a far parte della nuova comunità. Questi portano donne e vino, voglia di far festa e corruzione. L’arrivo delle donne porta a due conseguenze fondamentali: la promiscuità sessuale, per cui, in assenza di una legge, le donne sono continuamente insidiate dagli uomini, trattate come oggetti di piacere, e la seconda, più importante, è il declino del ruolo della Spera. Questa ritorna ad essere la prostituta e l’emarginata che era sempre stata: gli uomini che l’avevano desiderata adesso la insultano e dileggiano, Currao la abbandona, desideroso di riprendersi il potere contraendo un nuovo “matrimonio” con la figlia di Padron Nocio, Mita. A difenderla resta solo l’innocente Dorò, a darle conforto il suo bambino. Tutto diventa corruzione, l’isola da luogo ameno di lavoro e collaborazione diventa una Sodoma di perdizione e anarchia: nessuno lavora, e la vecchia vita frugale è adesso scandita da orge dionisiache e da lotte per il potere. Crocco e i suoi amici elaborano un piano diabolico per evitare l’alleanza tra Currao e Padron Nocio: bisogna uccidere Dorò e far ricadere la colpa su Currao. Allora Padron Nocio sarà l’unico legittimato al potere, e Crocco e gli altri saranno le sue “guardie del corpo”, la forza armata che stabilirà la legge del più forte, alla quale lo stesso Nocio sarà assoggettato. Nell’intrigo viene coinvolta, con l’inganno, anche La Spera, che durante una grande festa in cui si celebrano dei finti matrimoni – volutamente ufficiosi – accuserà pubblicamente Currao di voler uccidere Dorò. L’ultima scena vede lo sciogliersi dell’intrigo: Currao dichiara la sua innocenza, ripudia La Spera e cerca di sottrarle il figlio. La prostituta scappa, correndo lungo la salita di un’altura. Gli altri restano in basso ad urlare ed imprecare, finché questa civiltà, appena nata e già corrotta, viene scossa da un violento terremoto e sprofonda in mare. Restano sulla  cima della montagna la reietta e il bambino: l’unica persona che era stata davvero in grado di cambiare, di redimersi, la sola che aveva servito la comunità con autentica passione e generosità, l’unica ad aver resistito alla corruzione del potere; e resta il futuro, un nuovo 
piccolo uomo che, da adulto, potrà fondare una società migliore.


E la terra veramente, come se il tremore del frenetico, disperato abbraccio della Madre si propagasse a lei, si mette a tremare. Il grido di terrore dalla folla con l’esclamazione “La terra! La terra” è ingoiato spaventosamente dal mare in cui l’isola sprofonda. Solo il punto più alto della prominenza rocciosa, dove La Spera s’è rifugiata col bambino, emerge come uno scoglio. 

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