La nuova Colonia fu rappresentata per la prima volta al
Teatro Argentina di Roma nel 1928. Un’opera che coniuga la narrazione mitica,
biblica, con la tradizione realista siciliana di verghiana memoria, che ci spinge ad una attenta riflessione sulla
natura del potere, sulle dinamiche prevaricatorie che inevitabilmente sorgono
all’interno di una comunità, sulla naturale brutalità e violenza degli esseri
umani, scissi tra il desiderio di riscatto e la loro essenza intrinsecamente
corruttiva.
Il primo atto si svolge
in una taverna di “un paese meridionale”: un locale che si affaccia sul porto,
meta di avventori dalle facce consumate
dalla vita dissoluta, fatta di espedienti, di violenza e furberie, necessarie
per sopravvivere. Su questo scenario degradato si susseguono personaggi di
dubbia moralità: una prostituta, La Spera, pirandellianamente acconciata, Tobba,
un ex galeotto di tarda età, e poi una cricca di delinquenti, Currao,
Osso-di-seppia, Fillicò, Burrania, Crocco ed altri. Si parla di un’isola, sede
di un penitenziario ormai dismesso: Tobba descrive quest’isola come un Eden,
ameno e incontaminato, rimpiangendo i tempi della sua permanenza in quel luogo.
Ad ascoltarlo incantato un innocente giovanotto, Dorò, figlio di un notabile
locale, Padron Nocio, il quale irrompe sulla scena per dissuadere suo figlio dal
frequentare quel covo di corruzione e decadenza, invano. Tra un bicchiere di
vino e un’imprecazione, tra una discussione accesa e una rissa, la combriccola
giunge alla conclusione che in questa civiltà nessuno di loro potrà mai
riscattarsi. Qualunque tentativo di redimersi è vano: se un delinquente è stato
in galera, ne avrà sempre la puzza addosso, sarà sempre considerato un
delinquente, perché questa è l’etichetta che la società ti ha affibbiato,
questa è l’onta che non potrai mai cancellare; se una prostituta si spoglia del
trucco eccessivo, del vestiario allusivo, gli altri la vedranno sempre
volgarmente truccata e disinibita. Non c’è riscatto, quando negli altri vive l’immagine
che ti condanna alla corruzione e all’emarginazione. La Spera allora fa una
proposta: perché non andare tutti sull’isola per ricominciare? Perché non
fondare una nuova civiltà che finalmente ci permetta di cambiare? Dopo alcune
perplessità, dovute soprattutto al modo in cui recarsi sull’isola e al fatto
che quel posto è destinato ad essere sommerso dal mare, decidono di partire.
Una nuova colonia costituita da ex galeotti e da una prostituta che decidono di
fuggire dalla civiltà che li ha impietosamente condannati.
Il secondo atto comincia con una discussione tra Crocco e
Fillicò. La ciurma è approdata sull’isola, e bisogna stabilire dove ognuno di
loro debba vivere e quale pezzo di terra debba lavorare. La discussione verte
proprio su questo punto: entrambi hanno adocchiato la medesima abitazione
diroccata e lo stesso pezzo di terra. Interviene nella disputa Currao,
riconosciuto come capo e garante dell’ordine in quanto possiede l’unica donna
della comunità, La Spera, la quale da prostituta diventa la donna più desiderata, che si prende
cura degli uomini, amata e rispettata da
tutti perché compagna legittima di
Currao. Questi propone di formare un tribunale che possa dirimere la
controversia. Crocco reagisce con rabbia, non si è liberato da una legge per
sottomettersi ad un’altra! Currao gli risponde che è necessaria una legge «che valga per te e per tutti allo stesso
modo; legge tua e nostra, che ce la comandiamo noi stessi, perché l’abbiamo
riconosciuta giusta; come la necessità ce l’ha insegnata: del lavoro che
dobbiamo fare, tutti, ciascuno il suo, per darci aiuto a vicenda: tu questo, io
quello, secondo le forze e le capacità. Non te l’impone nessuno. Tu stesso.
Perché possa ricevere, in cambio di quello che dai». Crocco si rifuta di
obbedire a questa legge condivisa, non riconosce il potere di Currao legittimo,
perché il fondamento di questo potere si fonda su un privilegio, il possesso di
una donna. Allora decide di andarsene, sottraendo alla comunità l’unica imbarcazione
che permetteva loro di avere un contatto con il vecchio mondo.
Il terzo atto si apre
con l’invasione dell’isola. Crocco ritorna accompagnato da Padron Nocio, che
vuole portare il figlio con sé e da altri che vogliono entrare a far parte
della nuova comunità. Questi portano donne e vino, voglia di far festa e
corruzione. L’arrivo delle donne porta a due conseguenze fondamentali: la
promiscuità sessuale, per cui, in assenza di una legge, le donne sono
continuamente insidiate dagli uomini, trattate come oggetti di piacere, e la
seconda, più importante, è il declino del ruolo della Spera. Questa ritorna ad
essere la prostituta e l’emarginata che era sempre stata: gli uomini che l’avevano
desiderata adesso la insultano e dileggiano, Currao la abbandona, desideroso di
riprendersi il potere contraendo un nuovo “matrimonio” con la figlia di Padron
Nocio, Mita. A difenderla resta solo l’innocente Dorò, a darle conforto il suo
bambino. Tutto diventa corruzione, l’isola da luogo ameno di lavoro e
collaborazione diventa una Sodoma di perdizione e anarchia: nessuno lavora, e
la vecchia vita frugale è adesso scandita da orge dionisiache e da lotte per il
potere. Crocco e i suoi amici elaborano un piano diabolico per evitare l’alleanza
tra Currao e Padron Nocio: bisogna uccidere Dorò e far ricadere la colpa su
Currao. Allora Padron Nocio sarà l’unico legittimato al potere, e Crocco e gli
altri saranno le sue “guardie del corpo”, la forza armata che stabilirà la
legge del più forte, alla quale lo stesso Nocio sarà assoggettato. Nell’intrigo
viene coinvolta, con l’inganno, anche La Spera, che durante una grande festa in
cui si celebrano dei finti matrimoni – volutamente ufficiosi – accuserà
pubblicamente Currao di voler uccidere Dorò. L’ultima scena vede lo sciogliersi
dell’intrigo: Currao dichiara la sua innocenza, ripudia La Spera e cerca di
sottrarle il figlio. La prostituta scappa, correndo lungo la salita di un’altura.
Gli altri restano in basso ad urlare ed imprecare, finché questa civiltà,
appena nata e già corrotta, viene scossa da un violento terremoto e sprofonda in
mare. Restano sulla cima della montagna
la reietta e il bambino: l’unica persona che era stata davvero in grado di
cambiare, di redimersi, la sola che aveva servito la comunità con autentica
passione e generosità, l’unica ad aver resistito alla corruzione del potere; e
resta il futuro, un nuovo
piccolo uomo che, da adulto, potrà fondare una
società migliore.
E la terra veramente,
come se il tremore del frenetico, disperato abbraccio della Madre si propagasse
a lei, si mette a tremare. Il grido di terrore dalla folla con l’esclamazione “La
terra! La terra” è ingoiato spaventosamente dal mare in cui l’isola sprofonda.
Solo il punto più alto della prominenza rocciosa, dove La Spera s’è rifugiata
col bambino, emerge come uno scoglio.
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