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venerdì 20 maggio 2016

"L'uomo senza qualità", Robert Musil

Robert Musil dedicò alla stesura di questo romanzo gli ultimi tredici anni della sua vita, dal 1929 al 1942. Un capolavoro, animato dall’ambizioso progetto di cogliere appieno il senso del proprio tempo. Di quei primi ferventi anni del Novecento in cui  tutto sembrava possibile: tanto la rivoluzione proletaria quanto la restaurazione autoritaria borghese, tanto una spinta democratica della politica, dovuta all’irruzione delle masse nella vita della società e dello stato, quanto una svolta autoritaria, dittatoriale, che relegasse le masse ad acefalo organo del consenso. Il capitalismo attraversava una fase di straordinaria crescita, la modernizzazione della società era galoppante, e al tempo stesso si metteva in discussione nella teoria e nella prassi politica l’idea che la valorizzazione del capitale sarebbe andata di pari passo con il progresso della società e dell’umanità. Al progresso tecnico-scientifico che aveva raggiunto livelli impensabili pochi anni prima, si affiancano nuove idee che mettevano in discussione la solidità, la veridicità, l’oggettività di quella razionalità che aveva sostenuto il progresso scientifico. In queste aporie si muove il romanzo di Musil, cercando di cogliere il senso complessivo di quell’insieme caotico di contraddizioni che fu il Novecento, un secolo in cui l’uomo poté conoscere un tenore di vita altissimo e in cui conobbe gli orrori e le morti più terrificanti. È un romanzo incompleto, e forse, proprio questa incompletezza costituisce l’intuizione più importante dell’autore: nell’impossibilità di riuscire a cogliere il senso ultimo di un’epoca, si scopre che proprio quella mancanza e quell’impossibilità costituiscono il tratto distintivo di un tempo storico sfuggente, contraddittorio, frenetico. L’aporia, la contraddizione, il contrasto delle idee, la lotta delle interpretazioni sono i nodi che Musil, nel tentativo di sciogliere, fa emergere in tutta la loro insolubilità.
Protagonista di un tempo senza Verità è l’uomo senza qualità, Ulrich, un matematico che decide di prendersi un anno di vacanza dalla vita. Viene coinvolto, spinto dal padre, a partecipare ad un progetto patriottico sostenuto dall’élite aristocratico-borghese dell’impero asburgico, in particolare da sua cugina Diotima Tuzzi, in onore del settantesimo compleanno dell’imperatore Francesco Giuseppe. Siamo alle soglie della Grande Guerra e l’intellighenzia e la burocrazia austriaca decidono di organizzare questa Azione, che prenderà il nome ufficioso di Azione Parallela, ossia parallela ad un progetto prussiano analogo che animava le élite tedesche in quello stesso periodo.
Questa la vicenda nella quale l’Uomo senza qualità si trova coinvolto. Ma chi è quest’uomo? Cosa significa essere privi di qualità? Per qualità qui si intende un’ “attitudine a…”, la capacità di agire, di fare qualcosa. Per fare qualcosa bisogna avere senso della realtà: un uomo dotato di una certa qualità, o di più qualità, è un uomo che ha una chiara e precisa concezione di ciò che gli sta attorno e, sulla base delle sue conoscenze, è in grado di calcolare i rischi e i vantaggi di ogni sua azione e, dunque, di procedere con l’azione concreta. Ulrich è un uomo senza qualità: è dunque un uomo incapace di agire, che presuntuosamente crede di poter prendersi un anno di vacanza dalla vita, e questa sua incapacità deriva da una “deficienza” del senso di realtà. Ulrich è fermo non perché inchiodato ad un’insicurezza o ad una incapacità, ma è fermo nel senso di sospeso: sospeso dalla realtà e aperto verso la possibilità. Il suo senso della possibilità non gli permette di avere quel senso di realtà che, come una calamita, ci fa aderire al suolo e ci permette di muoverci con linearità, direzione, senso. Ulrich fluttua sul caos del suo tempo, sballottato da una parte all’altra, risucchiato nel vortice di idee, azioni, macchine, strade, case, persone e non c’è un concetto, un’ idea, un punto di riferimento che funga da zavorra e gli permetta di scendere. Ulrich è un uomo che non ha nessuna voglia di scendere da quel continuo fluttuare: quale realtà dovrebbe spingerlo a muoversi verso una direzione precisa? Quale verità potrebbe dar senso e consistenza al suo cammino? Queste domande non sono retoriche, ma quesiti scientifici cui Ulrich cerca di dare una risposta oggettiva, esatta. L’esattezza analitica del protagonista lo porta a comprendere che la realtà è soltanto una parte che va integrata con la possibilità per poter essere consistente. Che la realtà intesa come l’insieme delle cose che sono quelle che sono è una interpretazione parziale di quell’insieme di fenomeni che caratterizzano un tempo storico, una società, un individuo. La possibilità, l’irrealtà sono motori del divenire, e la realtà è una cristallizzazione parziale di un immenso mondo di infinite possibilità. Per questo, secondo Ulrich, si dovrebbe cancellare la realtà, o vivere come si legge.

Un’esperienza o una verità possibili non equivalgono a un’esperienza o a una verità reali prive del valore della loro realtà, ma hanno in sé, almeno secondo i loro sostenitori, qualcosa di smaccatamente divino, un fuoco, un’esaltazione, un proposito costruttivo e un consapevole utopismo che non rifugge la realtà, ma la tratta come un compito e un’invenzione.[…] È la realtà che desta le possibilità, e nulla sarebbe così assurdo come negarlo. Tuttavia, sommate o in media, restano sempre le stesse possibilità che si ripetono finché non arriva un individuo per il quale una cosa reale non è più importante di una cosa pensata. È colui che conferisce alle nuove possibilità senso e determinazione, è lui a risvegliarle. […] E dal momento che il possesso di qualità presuppone una certa gioia nel saperle reali, è legittimo ritenere che a chiunque manchi il senso di realtà anche nei confronti di se stesso potrà capitare all’improvviso di scoprirsi un giorno un uomo senza qualità.

L’assenza di qualità di Ulrich è il riflesso dell’assenza di qualità del tempo che vive. Il protagonista è, da un lato, un uomo che non trova spazio nel proprio tempo, che non riesce ad assumere un compito e portarlo fino in fondo, brillante e parziale in tutte le imprese che intraprende. Ma, dall’altro, Ulrich è l’uomo che più di tutti replica individualmente una condizione collettiva, storica: il Novecento è un tempo privo di qualità. Un vortice dal quale emergono idee uguali e contrapposte che non riescono a trovare conciliazione. Nel romanzo il caos dell’epoca che precede la Grande Guerra è dipinto perfettamente nel microcosmo dell’alta borghesia imperiale alle prese con l’Azione Parallela. Obiettivo di questa iniziativa spirituale è la ricerca di una Grande Idea che possa unificare i sudditi dell’impero, conciliare le differenze nazionali, etniche, linguistiche, religiose, le differenze ideologiche, che congiunga pacifismo e militarismo, spirito ed economia, anima e sessualità. I personaggi che si affaccendano nella ricerca disperata e inconcludente di questa Idea sono sempre personaggi aporetici e contraddittori: Diotima, la regina indiscussa del salotto culturale, è dapprima una fanatica spiritualista, per poi diventare una erudita in sessuologia; speculare rispetto ad Ulrich, Paul Arnheim, si presenta presso l’Azione come uomo interessato alla grande impresa spirituale austriaca, è dotato di una vasta conoscenza erudita, ha scritto molti saggi, è un intellettuale e grande imprenditore molto apprezzato. Un uomo pieno di qualità che si scopre avere dei significativi interessi petroliferi legati all’impero austro-ungarico. Il generale Stumm che cerca di conciliare la schematica disciplina militare con la caotica cultura moderna e tanti altri, dall’assassino di prostitute Moosbrugger, alla nietzscheana sfegatata e mentalmente instabile Clarisse, fino alla sorella di Ulrich, Agathe, ragazza caratterizzata dalla stessa “sospensione” rispetto al mondo di suo fratello, che in lei si manifesta come indifferenza morale nei confronti del mondo. Il rapporto tra Ulrich e Agathe è molto particolare: separati fin dall’infanzia, si incontrano da adulti dopo la morte del padre. Tra i due esplode un amore “mistico” e velatamente incestuoso: Ulrich la definisce “il mio amor proprio”, la mia “gemella siamese”. Un rapporto di anime affini che si incontrano nella sospensione dal mondo, nel regno delle possibilità infinite non ancora realizzate.


Nella confusione e contraddittorietà che caratterizza il protagonista, ogni singolo personaggio, Vienna, il tempo storico nel suo complesso, serpeggia la sensazione indeterminata e ineffabile che “qualcosa stia per accadere”: in un’epoca in cui si comprende che qualcosa è andato perduto, ci si aspetta un cambiamento, un avvenimento che getterà luce – in modo tragico, possiamo ben dire oggi – su una complessità che soltanto un uomo fuori e per questo immerso nel suo tempo, come l’uomo senza qualità, in modo arguto e profondo ha già colto. 

domenica 8 maggio 2016

Tra vecchio e nuovo: "La storia del giogo d'oro" di Zhang Ailing

Nonostante La storia del giogo d'oro sia stata data per la prima volta alle stampe a Shanghai nel 1943, l'Italia l'ha conosciuta soltanto da pochi anni e neanche in modo così massiccio. Basti pensare che il breve romanzo è considerato il capolavoro di Zhang Ailing e che la scrittrice cinese non ha neppure la pagina di Wikipedia in italiano. A me è capitata per le mani l'edizione della BUR, l'unica disponibile, con le 140 pagine o poco meno e l'interessante postfazione della traduttrice, la professoressa Alessandra Cristina Lavagnino. Ho scoperto così una scrittrice insospettatamente famosa e, almeno a primo impatto, interessante (sebbene gridare al genio ribelle e alla creatività indomita, come leggo da parte di alcuni, mi paia proprio un'esagerazione).
Al centro de La storia del giogo d'oro, ambientata a cavallo della Rivoluzione Xinhai del 1911, 
si colloca la famiglia tradizionale cinese, con le sue rigide gerarchie e i suoi riti stantii. I vari membri della famiglia Jiang non sono quasi mai chiamati per nome, ma piuttosto, anche nel rivolgersi gli uni agli altri, con un appellativo che rimanda al ruolo ricoperto: Primo, Secondo e Terzo Fratello, con le rispettive Cognate; Fratello Maggiore e Sorellina Minore, fino alla Padrona anziana, la grande matriarca che pur senza uscire dall'ombra della sua stanza pare informare di sé tutto l'ambiente circostante e istituire, con la sua sola presenza silenziosa, un ordine di solida pietra. All'interno di questa gerarchia si colloca, in una pessima posizione, la bella e tragica Qiqiao, che si trova ad essere moglie di uno dei fratelli Jiang quasi per caso. La famiglia che la acquisisce è antica e mostra di patire dei «grandi disordini sotto il cielo», non tanto o non solo perché il nuovo assetto sociale minaccia il prestigio dell'aristocrazia

tradizionale, ma piuttosto perché la storia, con il suo progresso inarrestabile, sembra averla scavalcata, essersela lasciata alle spalle, con il suo corredo di vezzi e obblighi ormai antiquati e sterili. Qiqiao si trova imprigionata in questo declino, in questo collasso della società e della famiglia tradizionale, ma prima ancora si è trovata vittima di questa famiglia nel pieno del suo vigore. Infatti, lei non ha lo stesso lignaggio del marito, ma era una bottegaia: vendeva olio di sesamo e non conosceva l'etichetta, ma si esprimeva (e continuerà a farlo) nel modo popolare che le è proprio. Per via della sua bassa estrazione era stata destinata ad essere una semplice concubina del Secondo Fratello Jiang, che però, colpito da una grave forma di tubercolosi ossea, diventa presto invalido. Sfumata così la possibilità di trovare per lui una moglie più altolocata, non resta ai Jiang che accasarlo con la bottegaia Qiqiao, che si trova così ad essere l'ultima ruota del carro della famiglia. Disprezzata e maltrattata per via della sua origine e dei suoi modi, derisa perfino dalla servitù che non la considera molto più che una concubina, posta in condizione di inferiorità anche per via della salute precaria del marito che non può difendere lei né i loro interessi, perfino umiliata dai furti subiti ad opera del proprio fratello e la cui responsabilità morale cade su lei stessa, Qiqiao non può che inacidirsi, richiudersi su se stessa in una sorta di implosione che la porta fino ad una forma di lucida follia autodistruttiva, che passa dal vizio dell'oppio alla rovina cosciente dei propri stessi figli. La figura crudele e allo stesso tempo innocente di Qiqiao sembra riprodurre l'implosione, la deriva della società tradizionale, che può dare segni di vitalità soltanto attraverso degli spasmi irrazionali, dei rigurgiti di tradizione, proprio come il folle momento in cui Qiqiao decide di fasciare i piedi alla propria figlia, nonostante la pratica sia ormai caduta in disuso. La figura di Qiqiao non esce mai di casa: la vediamo rintanarsi nelle stanze scure e stantie della casa che si fa sempre più claustrofobica (in un processo che mi ricorda quello descritto ne La schiuma dei giorni di Boris Vian). La chiusura in se stessa di Qiqiao, il suo ritiro dal mondo e la sua follia rappresentano il delirio dell'aristocrazia cinese di fronte ad un progresso che la spaventava, la sua pretesa egoistica di rimanere avvinghiati ad un passato ormai destinato a sfilacciarsi, a perdere significato. Qiqiao appare alla fine quasi come uno spettro, persa nei fumi dell'oppio, odiata dalla nuora che si lascia morire di dolore, disprezzata dai figli a cui ha rovinato la vita con le sue manie.
La storia del giogo d'oro contiene tutti gli elementi di una gustosa saga familiare ma è costretta, per via della sua brevità, a lasciare appena accennati tanti aspetti e tanti elementi che l'avrebbero ispessita e impreziosita. È comunque una lettura gradevole, una metafora del contrasto emotivo tra il vecchio e il nuovo, influenzata dalla cultura "occidentalizzante" dell'autrice ma che rivela anche la sua appartenenza alla "cinesità" più cinese, che si manifesta anche nelle sequenze fortemente visive, materiche, che richiamano alla memoria i testi e gli stili tradizionali, come i disegni di Wang Wei e gli esercizi di calligrafia.