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domenica 8 maggio 2016

Tra vecchio e nuovo: "La storia del giogo d'oro" di Zhang Ailing

Nonostante La storia del giogo d'oro sia stata data per la prima volta alle stampe a Shanghai nel 1943, l'Italia l'ha conosciuta soltanto da pochi anni e neanche in modo così massiccio. Basti pensare che il breve romanzo è considerato il capolavoro di Zhang Ailing e che la scrittrice cinese non ha neppure la pagina di Wikipedia in italiano. A me è capitata per le mani l'edizione della BUR, l'unica disponibile, con le 140 pagine o poco meno e l'interessante postfazione della traduttrice, la professoressa Alessandra Cristina Lavagnino. Ho scoperto così una scrittrice insospettatamente famosa e, almeno a primo impatto, interessante (sebbene gridare al genio ribelle e alla creatività indomita, come leggo da parte di alcuni, mi paia proprio un'esagerazione).
Al centro de La storia del giogo d'oro, ambientata a cavallo della Rivoluzione Xinhai del 1911, 
si colloca la famiglia tradizionale cinese, con le sue rigide gerarchie e i suoi riti stantii. I vari membri della famiglia Jiang non sono quasi mai chiamati per nome, ma piuttosto, anche nel rivolgersi gli uni agli altri, con un appellativo che rimanda al ruolo ricoperto: Primo, Secondo e Terzo Fratello, con le rispettive Cognate; Fratello Maggiore e Sorellina Minore, fino alla Padrona anziana, la grande matriarca che pur senza uscire dall'ombra della sua stanza pare informare di sé tutto l'ambiente circostante e istituire, con la sua sola presenza silenziosa, un ordine di solida pietra. All'interno di questa gerarchia si colloca, in una pessima posizione, la bella e tragica Qiqiao, che si trova ad essere moglie di uno dei fratelli Jiang quasi per caso. La famiglia che la acquisisce è antica e mostra di patire dei «grandi disordini sotto il cielo», non tanto o non solo perché il nuovo assetto sociale minaccia il prestigio dell'aristocrazia

tradizionale, ma piuttosto perché la storia, con il suo progresso inarrestabile, sembra averla scavalcata, essersela lasciata alle spalle, con il suo corredo di vezzi e obblighi ormai antiquati e sterili. Qiqiao si trova imprigionata in questo declino, in questo collasso della società e della famiglia tradizionale, ma prima ancora si è trovata vittima di questa famiglia nel pieno del suo vigore. Infatti, lei non ha lo stesso lignaggio del marito, ma era una bottegaia: vendeva olio di sesamo e non conosceva l'etichetta, ma si esprimeva (e continuerà a farlo) nel modo popolare che le è proprio. Per via della sua bassa estrazione era stata destinata ad essere una semplice concubina del Secondo Fratello Jiang, che però, colpito da una grave forma di tubercolosi ossea, diventa presto invalido. Sfumata così la possibilità di trovare per lui una moglie più altolocata, non resta ai Jiang che accasarlo con la bottegaia Qiqiao, che si trova così ad essere l'ultima ruota del carro della famiglia. Disprezzata e maltrattata per via della sua origine e dei suoi modi, derisa perfino dalla servitù che non la considera molto più che una concubina, posta in condizione di inferiorità anche per via della salute precaria del marito che non può difendere lei né i loro interessi, perfino umiliata dai furti subiti ad opera del proprio fratello e la cui responsabilità morale cade su lei stessa, Qiqiao non può che inacidirsi, richiudersi su se stessa in una sorta di implosione che la porta fino ad una forma di lucida follia autodistruttiva, che passa dal vizio dell'oppio alla rovina cosciente dei propri stessi figli. La figura crudele e allo stesso tempo innocente di Qiqiao sembra riprodurre l'implosione, la deriva della società tradizionale, che può dare segni di vitalità soltanto attraverso degli spasmi irrazionali, dei rigurgiti di tradizione, proprio come il folle momento in cui Qiqiao decide di fasciare i piedi alla propria figlia, nonostante la pratica sia ormai caduta in disuso. La figura di Qiqiao non esce mai di casa: la vediamo rintanarsi nelle stanze scure e stantie della casa che si fa sempre più claustrofobica (in un processo che mi ricorda quello descritto ne La schiuma dei giorni di Boris Vian). La chiusura in se stessa di Qiqiao, il suo ritiro dal mondo e la sua follia rappresentano il delirio dell'aristocrazia cinese di fronte ad un progresso che la spaventava, la sua pretesa egoistica di rimanere avvinghiati ad un passato ormai destinato a sfilacciarsi, a perdere significato. Qiqiao appare alla fine quasi come uno spettro, persa nei fumi dell'oppio, odiata dalla nuora che si lascia morire di dolore, disprezzata dai figli a cui ha rovinato la vita con le sue manie.
La storia del giogo d'oro contiene tutti gli elementi di una gustosa saga familiare ma è costretta, per via della sua brevità, a lasciare appena accennati tanti aspetti e tanti elementi che l'avrebbero ispessita e impreziosita. È comunque una lettura gradevole, una metafora del contrasto emotivo tra il vecchio e il nuovo, influenzata dalla cultura "occidentalizzante" dell'autrice ma che rivela anche la sua appartenenza alla "cinesità" più cinese, che si manifesta anche nelle sequenze fortemente visive, materiche, che richiamano alla memoria i testi e gli stili tradizionali, come i disegni di Wang Wei e gli esercizi di calligrafia.

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