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giovedì 31 dicembre 2015

I 10 libri più belli letti nel 2015: da Dostoevskij a Kristof, da Pasolini a Vattimo

Nell'ultimo dell'anno, noi di Caratteri Vaganti vi proponiamo la nostra "Top Ten": i dieci libri più edificanti, suggestivi e belli che abbiamo letto in questo 2015. Sperando che la nostra lista vi dia qualche spunto, vi auguriamo un 2016 pieno di libri, di film e (possibilmente) rivoluzionario!


1. Petrolio, Pier Paolo Pasolini, pubblicato postumo nel 1992. Una discesa nei gironi dell'Italia degli anni Settanta, segnata dal conformismo, dalla sete di potere, dall'imporsi di un modello occidentale privo di alternative, che riduce a sé ogni specificità, da quella popolare del mondo delle borgate, a quella dell'intellettuale di sinistra, ormai perfettamente integrato nei salotti buoni.

2. I Demonî, Dostoevskij, 1873. Come in una tragedia dell'antica Grecia, Dostoevskij mette in scena un dramma collettivo, corale. Quello della lotta contro le ingiustizie, del nichilismo, dell'ossessione, della rivoluzione.

3. Costituzione e lotta di classe, Hans Jürgen Krahl, pubblicato postumo nel 1971. Allievo di Adorno, Krahl fu uno degli interpreti più lucidi della Scuola di Francoforte. Morto all'età di ventisette anni, non ha potuto lasciarci un'opera completa, ma questa raccolta di saggi e interventi getta luce su molte questioni affrontate dai suoi maestri francofortesi, e ci dice molto della sua generazione, dei suoi sogni e delle sue speranze. Quella del 1968.

4. L'analfabeta, Agota Kristof, racconto autobiografico scritto per una rivista di Zurigo. La scrittrice ripercorre la propria esistenza secondo un unico filo conduttore: la lingua. Se per l'Agota bambina l'unica lingua concepibile come universale è l'ungherese, per l'Agota adulta ed esule la lingua ungherese perde la propria globalità e diventa la lingua incomprensibile dello straniero, causa di emarginazione. Lo straniero, l'esule, non è solo colui che non può essere capito. È un analfabeta. Ella scrive: «Questa lingua, il francese, non l’ho scelta io. Mi è stata imposta dal caso, delle circostanze. So che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli scrittori francesi di nascita. Ma scriverò come meglio potrò. È una sfida. La sfida di un’analfabeta.»

5. Il pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, 2010. Una raccolta di saggi che oggi, più che mai, vale la pena leggere. Contro ogni metafisica fondazionale, i diversi autori dichiarano la pregnanza della soggettività. Se, come scrive Rovatti, «la situazione tipica del pensiero "forte" è [...] quella in cui pensante e pensato, chi pensa e cosa si pensa sono solidali», il pensiero debole si propone come ciò che può spodestare l'essere dalla sua centralità e presentare la ragione non più come universale, ma come «una singolarità tra le altre».

6. La metamorfosi, Franz Kafka. Pubblicato per la prima volta nel 1915, il racconto smaschera l'ipocrisia borghese perbenista. Nonostante il nobile intento, Kafka non nasconde (il protagonista ne è, in qualche modo, l'alter ego) al lettore che, dietro l'umiliazione subìta, si nasconde un desiderio, più che conscio, di far parte interamente di quel mondo ovattato di ipocrisia.

7. 36 Poesie, Attilio Bertolucci. Non poteva mancare un libro di poesie, porto ospitale per quei giorni in cui la narrativa non basta.

8. Tungsteno, Cesar Vallejo. Uno dei maggiori poeti peruviani per una sola volta si è cimentato con il mezzo espressivo del romanzo e il risultato è imperdibile. Atti di quotidiana crudeltà e cinismo si consumano nella zona mineraria di Cuzco, dove gli imprenditori statunitensi della Mining Society in combutta con le autorità locali spadroneggiano sugli indios facendone i propri schiavi nelle miniere. È un libro asciutto e vero, che racconta delle violenze operate dai gringos, della vita misera dei mineros che dopo essere stati sfruttati disumanamente possono ripiegare solo nelle loro squallide catapecchie, delle prepotenze operate dalle autorità sui manifestanti e sugli indios rastrellati nei villaggi rurali per fornire manodopera schiavile nelle fucine. Ma racconta anche degli entusiasmi di inizio secolo, delle agitazioni e dell'aspirazione a una vita più giusta.

9. Italiani brava gente?, Angelo Del Boca. Un illustre storico del colonialismo italiano cerca di sfatare, in questo libro ricco e necessario, il mito più solido del nostro Paese. Del Boca sviscera alcuni degli episodi più bui della nostra storia, dalla guerra al brigantaggio che ha visto stragi di ribelli nel sud Italia e decimazioni in villaggi innocenti ad opera del nuovo governo all'indomani dell'unità, alla brutalità della Grande Guerra e alla disinvoltura con cui Cadorna ha destinato al massacro ondate di giovani soldati, alle violenze operate in Africa durante gli anni del Fascismo. Di più ancora: questo libro scava sotto la retorica della conquista, della superiore civiltà italiana, del nostro essere "brava gente", e ci rivela anche gli aspetti meno conosciuti e più dolorosi da confessare: le deportazioni e i campi di concentramento realizzati dagli italiani in Libia, gli ordini ufficiali di decimare la popolazione, lo sciacallaggio operato dai nostri in Cina approfittando della Guerra dei Boxer, i tentativi di pulizia etnica che abbiamo perpetrato nei Paesi slavi (e sui quali abbiano anche ricamato il mito delle Foibe), la prigione di Nocra in cui lasciavamo i detenuti a morire di stenti, privi di acqua potabile e di cibo, per poi fucilarli senz'altro se tentavano di evadere. Queste e altre ancora sono le pagine di storia che Del Boca ci invita ad approfondire, mostrandoci il lato più oscuro e doloroso della nostra italianità.

10. Montedidio, Erri De Luca. «Calo la saracinesca, ci salutiamo, dice che è bello avere le ali, ma è stato più bello avere mani buone per lavorare». Le storie del piccolo protagonista, del calzolaio ebreo Rafaniello, della ragazzina che "ha già conosciuto lo schifo", molestata dal padrone di casa per sanare all'affitto arretrato, si intrecciano sullo sfondo di una Napoli laboriosa e rumorosa, di file di panni stesi che tagliano a fette il cielo azzurro, delle strade animate dalle voci delle comari e dei venditori di pettini. Una romanzo che somiglia a una poesia.


Nina, Bulma e Clem

mercoledì 23 dicembre 2015

Dal Vietnam all’Iraq. Colloqui con Patricia Lombroso, Noam Chomsky


Gli Stati Uniti son ben consapevoli che la conduzione della loro politica estera è da criminali. Siamo in presenza di una nazione violenta che si arroga il diritto di commettere impunemente gravi crimini.

Questa raccolta di interviste, pubblicata dalla Manifestolibri nel 2003, che vanno dal 1975 al 2003, al filosofo americano Noam Chomsky, impegnato sin dagli anni Sessanta nella lotta politica ed intellettuale contro la politica di potenza americana, getta un’inquietante luce sulla strategia imperialista e militarista condotta dagli Stati Uniti negli ultimi cinquant’anni, che coinvolge l’intero pianeta, dall’America latina al Medioriente, dall’Europa meridionale all’Indocina.

Sin dalla guerra in Vietnam, una vera e propria “invasione del Vietnam del Sud”,  gli Stati Uniti hanno condotto una grande guerra, perpetua e universale, animata da un’unica e sola logica, quella del profitto. Questa tragica e interminabile guerra si declina diversamente a seconda del contesto geopolitico e storico, adduce cause sempre diverse, ma tenendo presente l’obiettivo, l’unico e solo che anima la condotta politica di questa superpotenza: sopprimere ogni tentativo di indipendenza politica ed economica, di emancipazione democratica, disseminando in tutto il mondo governi fantoccio tenuti da élite compiacenti. Eliminare ogni forma di opposizione al regime economico statunitense è stato il punto fermo della politica estera americana, sia dei presidenti democratici che di quelli repubblicani. Tanto Kennedy, quanto Reagan, tanto Clinton quanto Bush sono responsabili delle atrocità commesse in tutto il mondo da una politica serva degli interessi delle grandi corporations, sono responsabili degli squilibri politici, economici e sociali che continuano a persistere tra il mondo Occidentale e il Terzo Mondo. Sono responsabili della disuguaglianza e dell’orrore disseminato ovunque.

Se le interviste degli anni Settanta e Ottanta ci consegnano un quadro storico  complesso e critico, che getta luce sul nostro recente passato – è molto interessante l’analisi di Chomsky sul periodo della “distensione” durante la Guerra Fredda, in cui USA e URSS stabiliscono un accordo di non interferenza nelle reciproche zone d’influenza – quelle degli ultimi vent’anni, dalla caduta del muro di Berlino in poi, descrivono il progressivo imporsi del modello economico e sociale americano in tutto l’Occidente, l’affinarsi del sistema di manipolazione mediatica, necessaria a legittimare il conflitto tra “mondo industrializzato e paesi detentori delle risorse energetiche”, il retrocedere dell’ex Unione Sovietica a paese del terzo mondo.

Gli anni Novanta sono gli “anni felici”, sul modello degli anni Venti: il rinnovato e rinvigorito liberismo americano attua una politica di potenza sempre più aggressiva. Il primo passo per rafforzare il potere delle grandi corporazioni è procedere con lo “smantellamento del contratto sociale”. Il potere politico, democratico e repubblicano, procede in questi anni a ridurre i diritti dei lavoratori (Chomsky ci dice che negli anni Novanta i lavoratori americani non avevano ferie pagate ed erano sottoposti ad orari di lavoro più pesanti rispetto ai lavoratori europei), ad abbattere lo stato sociale, negando il diritto alla sanità e all’istruzione. Le condizioni di povertà negli Stati Uniti sono paragonabili a quelle del Terzo Mondo. Chomsky parla di crisi degli anni Novanta: se consideriamo come parametro economico il PIL, allora dobbiamo ammettere che in quegli anni l’economia statunitense era in crescita. Ma ci sono altri parametri di cui le agenzie statistiche non tengono conto: la mortalità infantile, il costo del lavoro, l’abuso e la violenza sui minori; l’ultima analisi di questo tipo fu fatta
negli USA nel 1930.  Dichiara il filosofo in un’intervista del 2000:

…gli Stati Uniti non sono così prosperi come si vorrebbe far credere, anzi attraversano una vera e propria recessione. Basta guardare agli indici relativi alla mortalità infantile e alla povertà dei bambini al di sotto dei cinque anni: c’è da vergognarsi. Non si possono dimenticare poi i due milioni di cittadini in carcere – di cui il 90% afroamericani e latini -, o i 44 milioni di americani privi oggi di assistenza sanitaria – nel 1996 ne erano privi 38 milioni. Dal 1975, il prodotto nazionale lordo ha continuato a crescere, ma contemporaneamente c’è stato un collasso totale delle infrastrutture del sistema sociale. E qui la discesa continua.

L’imperialismo militarista si fonda su un apparato ideologico e repressivo che ha come scopo quello di  legittimare il modello di ingiustizia attraverso la manipolazione mediatica e l’imposizione con la forza di politiche che altrimenti sarebbero tollerate con molta difficoltà da parte dell’opinione pubblica. La propaganda americana crea dei mostri, dei nemici, dei capri espiatori. In questo modo gli Stati Uniti assumono il ruolo dei “buoni”, dei protettori dei diritti umani, dei custodi della democrazia, e allo stesso tempo immobilizzano l’opinione pubblica nella paura del mostro, del nemico, impedendo il sorgere di movimenti di protesta.
Dalla paura al “terrore”, dal “terrore” al “terrorismo”: una parola che Chomsky non esita a definire “inventata”. I governi americani hanno inventato la parola terrorismo per legittimare la propria politica di potenza: terroristi sono i cubani, terrorista è Saddam nel momento in cui attua politiche che non sono gradite agli USA. Perché Saddam è un terrorista se colpisce alleati degli Stati Uniti e non è un terrorista nel momento in cui non lede gli interessi americani con le sue atrocità?
Terrorismo, fondamentalismo islamico, esportazione della democrazia, tutela dei diritti umani sono concetti che l’ideologia americana utilizza per rendere tollerabile all’opinione pubblica il suo imperialismo militarista, alternando la persuasione, l’insistenza sui valori e sull’identità occidentale, al terrore e alla paura. Chomsky non parla di una strategia del terrore, ma sicuramente siamo di fronte ad una strategia mediatica del terrore.
Terrore che non esita a riversarsi anche sulla politica interna: la discriminazione razziale, l’individuazione di capri espiatori è fondamentale per abbattere ogni diversità, all’interno e all’esterno del confine statunitense. Nel terrore della criminalità, del narcotraffico, che l’apparato ideologico fomenta quotidianamente attraverso l’informazione, risiede la legittimazione di una politica repressiva nei confronti di alcune etnie, come quella africana e latina. Al momento dell’elezione di Clinton, e poi di Bush, una grossa fetta di questa popolazione sarà in carcere, sarà privata del diritto di voto. Questo, dichiara Chomsky, è forse più scandaloso della vergognosa vicenda delle schede elettorali di molti afroamericani annullate durante le elezioni di Bush figlio.

Terrorismo e fondamentalismo sono sicuramente i concetti più attuali, utilizzati dalla propaganda di tutti i governi occidentali. Chomsky ci spiega in maniera molto chiara che il problema non è certo il fondamentalismo islamico, dato che uno degli alleati dell’Occidente contro suddetto fondamentalismo è l’Arabia Saudita, un paese fondamentalista. Il problema è l’indipendenza dei popoli dal modello americano, che è il modello del Capitale, è l’indipendenza, la “devianza” di alcuni gruppi etnici e sociali rispetto al prototipo dell’uomo bianco consumatore e lavoratore. Per abbattere ogni differenza, che costituisce un pericolo per la stabilità del sistema, fondato sull’omologazione, sull’abbattimento di ogni forma di individualità e specificità, il potere utilizza ogni mezzo possibile. Con le bombe e col “Drive In” si è uccisa ogni alternativa. Chomsky ci mette in guardia. Il suo impegno costituisce un esempio di lotta ma soprattutto di esercizio del pensiero critico e libero.

In altre interviste Chomsky ha dichiarato che l’esercizio di un pensiero critico richiede semplicemente un po’ di apertura mentale e una buona dose di scetticismo. Non richiede particolari competenze, né preparazione politica o filosofica. Il trucco sta nel cogliere argutamente le discrepanze tra la narrazione ideologica e i fatti così come sono. L’intento del filosofo è quello di criticare l’intelligencija che si arroga il monopolio delle interpretazioni degli eventi politici e dei fenomeni sociali, mettendo queste interpretazioni al servizio di interessi particolari.
Su questo punto non si può che essere d’accordo con Chomsky. Tuttavia, bisogna tener conto della complessità del sistema mediatico d’informazione e di propaganda delle società occidentali. È un sistema pluralistico, articolato in modo complesso, in cui è davvero difficile stabilire quali siano i fatti ed elaborare un giudizio sulla base di dati oggettivi. È possibile elaborare un giudizio critico sulla base dei dati di cui siamo forniti, essendo questi narrati sempre sulla base di un interesse particolare?
A mio avviso, l’esercizio delle proprie facoltà critiche non richiede particolare erudizione, e su questo sono pienamente d’accordo con Chomsky. Ma ritengo che la critica sia frutto di una scelta politica precisa, che ci spinge a non accontentarci delle informazioni che impacchettano appositamente per noi poveri uomini-massa, che ci invita a dubitare, e dunque a cercare, e forse, a comprendere. Una scelta che precede l’analisi dei fatti. Una scelta che lo stesso Noam Chomsky ha compiuto.


martedì 15 dicembre 2015

I demonî, Dostoevskij

E c’era lì a pascolare pel monte un gran branco di porci; e lo scongiurarono a permetter loro di entrare in quelli. Ed egli permise. Allora i demoni, usciti da quell’uomo, entrarono nei porci e con grande impeto la mandria si precipitò nel lago e ivi affogò. Appena videro quanto era accaduto, i mandriani fuggirono a portare la notizia in città e per le campagne. E la gente uscì a vedere l’accaduto, e, venuti a Gesù, trovarono l’uomo, dal quale erano usciti i demoni, seduto ai piedi di Gesù, rivestito, in sé, e s’impaurirono. E quelli che avevano vista la cosa, raccontarono anche loro come l’ossesso era stato liberato.
VANGELO DI SAN LUCA, Cap. VIII, 32-37

La citazione che costituisce l’incipit del romanzo racchiude ermeticamente il senso dell’intera vicenda narrata da Dostoevskij, ispirata ai movimenti anarchici russi di metà Ottocento e, in particolare, all’anarchismo di Nečaev.
La vicenda si svolge in una provincia russa nella quale una “cinquina” di anarchici, capeggiata da Piotr Stepanovic Verchovenski si insinua, dapprima pacificamente, nella politica della comunità, accattivandosi il ceto dirigente, in particolare la moglie del governatore, Elizaveta Prokofevna, con un piano machiavellico scrupolosamente architettato: sabotare le iniziative politiche e sociali della classe dominante, insidiare i rapporti personali tra i membri del ceto dirigente, con l’intento di creare scompiglio, disorientamento. Fare abbassare la guardia ai custodi dell’ordine pubblico, in modo da creare situazioni di disordine violento e porre le condizioni per un abbattimento totale delle istituzioni del potere. Il tono del narratore segue un drammatico crescendo: la sedizione strisciante, nascosta, mascherata, rete che si avvinghia attorno ai protagonisti della vicenda, fino a stringerli in una morsa che non risparmierà nessuno, né le vittime, né i carnefici, distinzione che nella narrazione si fa sempre più sottile; e poi l’esplosione finale, l’incendio della provincia, culmine catartico di un piano che sembra non avere né autori né responsabili, in cui l’orrore e la violenza si distribuiscono ambiguamente tra i protagonisti della vicenda.
Tralascerò in questa sede l’esposizione più dettagliata delle vicende che intessono la trama del racconto, e mio malgrado, dovrò anche tralasciare una descrizione dettagliata della psicologia dei singoli personaggi, che pure meriterebbe una profonda riflessione. Ciò su cui intendo soffermarmi principalmente è il percorso dell’Idea, a mio avviso autentica protagonista del romanzo: dapprima parla con voce flebile alla coscienza umana, una voce talmente debole che richiede concentrazione e attenzione per poter essere udita, che va isolata da tutte le altri voci della coscienza. L’Idea si insinua gradualmente, dolce e inarrestabile, come un tarlo che comincia a scavare un tunnel profondo nei nostri pensieri, creando labirinti che conducono sempre allo stesso punto, all’Idea. Ogni concetto dalla mente elaborato, ogni dubbio, ogni domanda costituiscono per l’Idea il  nutrimento che le permette di crescere, una sorta di massa tumorale che occupa e divora tutta quanta la materia cerebrale. È il momento della possessione demoniaca: l’Idea vuole uscire da sé, diventare azione, realtà. E allora ci ordina di agire in suo nome: l’Idea guida tutte le nostre azioni, è fonte assoluta di legittimazione della nostra condotta morale. In nome dell’Idea si può ingannare, tradire, raggirare l’altro. Solo in nome dell’Idea si può uccidere. Il nesso istituito da Dostoevskij tra un’idea che agisce ossessivamente nel suo portatore e il delitto che il soggetto si ritiene legittimato a compiere, è un motivo ricorrente nella narrazione dell’autore: penso a Delitto e castigo, in cui il protagonista vive un tormento che lo affligge sia prima di uccidere la vecchia usuraia, sia dopo. Il protagonista teorizza che il delitto sia legittimo nel caso in cui si voglia combattere un’ingiustizia, e in nome di questa idea che si impossessa di lui in maniera sempre più prepotente, egli uccide, salvo poi espiare con la malattia, con la sofferenza inconsolabile la sua colpa. Fino alla catarsi, quando “alla dialettica si sostituisce l’amore”. Penso ai Fratelli Karamazov: Ivan Karamazov teorizza che “se Dio non esiste, tutto è concesso”. L’Idea che diventa realtà morale e intellettuale in Ivan, diventa realtà fisica in Smerdiakov, che ammazzerà il loro spregevole padre. Questa dimensione del “demoniaco” è una costante nei romanzi di Dostoevskij, ed è forse il punto focale in cui convergono le varie prospettive dalle quali l’autore guarda alla natura umana. Ma la particolarità de I demonî sta nella natura collettiva dell’ossessione: dal singolo, la possessione demoniaca si trasferisce ai “porci”, coinvolge una collettività.

Se non ho ancora precisato di quale idea si tratti non è per dimenticanza, ma  perché ritengo che la natura dell’idea non sia fondamentale nella descrizione di un’ossessione o di una possessione demoniaca. Si è ossessionati, si è “posseduti” nel momento in cui un’unica e sola idea diventa l’unica fonte del nostro agire, permea in tutti i molteplici e contraddittori aspetti della nostra psiche, abbatte ogni luogo di resistenza. Anche un’idea come quella di Ivan Karamazov, che sembra rimandare ad un relativismo che molti definirebbero spregevole e moralmente deprecabile, è un’idea che ha tutti i caratteri dell’assolutezza: Ivan uccide idealmente suo padre non perché è un relativista, ma proprio in nome dell’assolutezza imperativa della sua idea. È come se Dostoevskij ci dicesse che il mondo delle idee non è in alcun modo conciliabile con la storia e, nel momento in cui si cerca di far diventare realtà quell’Idea, l’individuo (o la collettività) si ritrova stretto in una morsa, in una contraddizione che è impossibile sanare: se si vuole realizzare un’idea nella sua purezza, così come essa è nella nostra mente, si dovrà ammazzare, annientare quella realtà a cui l’idea dovrebbe dar forma. L’idea sarà sempre in qualche modo tradita: nel momento in cui diventa “fatto”, l’idea perde la sua assolutezza, la sua purezza e perfezione, per divenire qualcosa di misero e aberrante. E il portatore dell’idea, che vede tutto ciò in cui ha creduto sporcato e umiliato, non può far altro che pentirsi ed espiare la sua colpa. Colui che invece vuole salvare la purezza dell’Idea ha un solo modo per metterla in pratica: il suicidio.
L’idea demoniaca dei maiali del romanzo è la Rivoluzione. Il rovesciamento totale e sistematico delle istituzioni del potere, l’abbattimento della differenza di classe, la libertà assoluta dell’uomo. Il piano di Piotr Stepanovic, uno dei capi di un’organizzazione anarchica operante (a suo dire) in tutta la Russia, organizzata in piccoli gruppi da cinque, è semplice e geniale: entrare nelle grazie della moglie del governatore, dalle idee moderatamente liberali, e sabotare la sua grande festa di beneficenza organizzata per le governanti indigenti, con letture di intellettuali di spicco e gran ballo finale. La festa è preceduta da uno sciopero di operai, succeduta da un incendio e sabotata da ubriaconi e personaggi di dubbia reputazione che si intrufolano nella festa creando scompiglio. In vista del suo progetto, Piotr Stepanovic ricorre a tutti gli inganni e le prepotenze di cui è capace, esercita una tirannia sui suoi compagni tale da spingerli ad assassinare un loro ex compagno, Sciatov, con l’accusa, assai poco fondata, che egli avrebbe prima o poi denunciato. Piotr Stepanovic è meschino, infido, vile, disposto a rovesciare “l’assoluta libertà in assoluta schiavitù”, come ebbe a dire un suo compagno di lotta. L’aspetto forse più interessante di questo personaggio è che, pur essendo l’artefice di tutto il piano, l’intelligente demiurgo che imprime l’idea nella materia, sembra essere il meno “indemoniato”. La sua spregevole condotta sembra più legata a ragioni personali, soggettive (il suo rapporto con il padre, che reputa indegno e vile, la sua antipatia personale per Sciatov, verso cui nutre vecchi rancori che nulla hanno a che fare con la rivoluzione): Piotr non è uno di quei porci che si getterà nel lago, ma fuggirà con destrezza una volta portato a termine il suo progetto.
I veri posseduti si ammazzeranno: Kirillov e Nikolai Stavroghin. Il primo per affermare la sua assoluta libertà: il suicidio è l’esito nichilistico di una scelta razionale, senza alcuna motivazione estranea alla propria libertà. Così Kirillov motiva il suo suicidio, annunciato come proposito sin dall’inizio del romanzo:

La vita è dolore, la vita è paura, e l’uomo è infelice. Ora tutto è dolore e paura: l’uomo ama la vita perché ama il dolore e la paura. Lo hanno fatto così. La vita viene concessa a prezzo di dolore e paura, e qui sta tutto l’inganno. Ora l’uomo non è ancora quell’uomo che dovrà essere. Vi sarà l’uomo nuovo, felice e superbo. Quello al quale sarà indifferente vivere, quello sarà l’uomo nuovo! Chi vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio. E l’altro Dio non vi sarà più.

La descrizione dello stato d’animo di Stavroghin nel momento in cui decide di impiccarsi, è decisamente diversa. Il narratore descrive il tormento che trapela dalla lettera scritta da Stavroghin prima di morire:

Questo documento, secondo me, è opera di un uomo in istato morboso, dettata dal demone che si era impadronito di lui. Pare il dimenarsi di un malato che soffra di un dolore acuto, e si agiti nel letto col desiderio di trovare una positura che gli allevii almeno per un attimo lo spasimo. Colui, naturalmente, ha altro per la testa che la bellezza o la ragionevolezza della posizione. L’idea fondamentale del documento è la terribile, non simulata esigenza del castigo, l’esigenza della croce, del pubblico supplizio. E tuttavia questa esigenza della croce si fa sentire in un uomo che non crede nella croce, e già questo solo costituisce un’ “idea”, come disse un giorno Stepan Trofimovic, del resto, a un altro proposito. Tutto il documento è nello stesso tempo qualcosa di tempestoso e disperato, sebbene scritto, evidentemente, con un altro scopo.

L’idea che si impossessa di entrambi questi porci è quella del nichilismo, della distruzione totale liberatrice, che si declina in due prassi differenti, entrambe autodistruttive: quella suicida di Kirillov, razionale e filosofica, e quella dissoluta di Stavroghin, che con la sua condotta immorale vuole distruggere i dogmi del suo tempo, primo fra tutti il buon senso e la morigeratezza. Entrambi realizzano e allo stesso tempo tradiscono e mortificano il loro nichilismo, e allora la morte, come unico mezzo di liberazione dalla contraddizione.

Le passioni, le ossessioni che tormentano i personaggi di questo romanzo culminano in un grande incendio, nella distruzione totale di sé, degli altri. Poi il nulla, la cui dolce e pesante quiete graverà sulle future generazioni. La tragedia appassionata del cammino dell’Idea distrugge tutto ciò che incontra lungo la via, fino alla sua stessa dissoluzione.

domenica 13 dicembre 2015

"La metamorfosi" di Franz Kafka



«Che cosa mi è successo?»


Una mattina il risveglio di Gregor Samsa, un commesso viaggiatore prossimo ad un viaggio d'affari, si colora di paradossale. L'addome dell'uomo si è trasformato in una pancia convessa e marrone, la schiena è una corazza dura, le gambe hanno lasciato il posto a delle zampette esili e tremolanti. Gregor si è trasformato in uno scarafaggio. Alla scoperta dell'accaduto, i familiari, visibilmente disgustati, non assumono un atteggiamento di comprensione o di accettazione dell'imprevedibile, ma di assoluto sdegno. La metamorfosi appare, ai loro occhi, come la colpa più spregevole dell'uomo (come se l'accaduto gli fosse in qualche modo appuntabile) e cominciano ad allontanarsene sempre di più. Gregor, il cui lavoro fino a quel momento era stato l'unica fonte di sostentamento per la famiglia, diventa l'emarginato. Nella logica borghese, la libertà non si configura come il "diritto alla disuguaglianza” (come scriveva Nikolaj Berdjaev), ma come la sosta in quel territorio che il senso comune chiama normalità. Il racconto lungo, scritto nel 1912 ma pubblicato tre anni più tardi, è allora una metafora dell'ipocrisia borghese: i rapporti familiari, scintillanti di perfezione, si sgretolano. A sostenerli non è l'imprescindibile legame affettivo da cui sembrano concepiti: la famiglia non è un'isola felice. È un luogo di code di paglia e di sensi di colpa. Il racconto della metamorfosi è scevro di qualsiasi spiegazione, di qualsiasi esplicita eziologia. Non è una storia di rivalsa: Gregor non tenterà mai di far valere le proprie ragioni né di lasciare la casa in cui provoca null'altro che sdegno. Si lascerà andare fino ad una morte solitaria, che si configurerà come la metafora nella metafora: la morte come accettazione dell'emarginazione, come comprensione del difetto da parte del difettoso. D'altronde i sentimenti di Gregor (di cui il lettore legge qua e là delle brevi pennellate), non sono taciuti:

«Ogni volta che i discorso cadeva su questa necessità quotidiana di denaro, Gregor si allontanava dall’uscio e, lasciatosi andare sul sofà di cuoio lì accanto, si sentiva avvampare di vergogna e di tristezza.»

Solo alla morte dell'emarginato, la normalità trionfa.

Ma chi è Gregor per Kafka? Di certo non un antieroe, ma nemmeno un eroe. Kafka non lo nasconde. I suoi personaggi sono borghesi inariditi, gente il cui unico scopo è quello di potersi permettere uno stile di vita agiato. Non c'è sentimento o parentela che tenga: il denaro e l'onore sono i sovrani indiscussi di qualsiasi rapporto interpersonale. Se Gregor non riesce più a mantenere la propria famiglia è un parassita, un ingrato. Egli è doppiamente imprigionato: dal nuovo corpo, un involucro estraneo; dal rifiuto della società, giudice tendenzioso della sua diversità. È un diverso, ma la normalità lo attrae: quando la sorella suona il violino davanti ai pensionanti, il suo essere animale/diverso/anormale/emarginato si annulla e riaffiora l'umanità/la normalità/l'essere parte di.

«Gregor venne avanti un altro poco, tenendo il capo rasente al suolo, sforzandosi di incontrare quegli occhi. Dunque era proprio una bestia se la musica a tal punto lo affascinava? Gli pareva di veder disegnarsi davanti a lui la via verso un cibo desiderato quanto sconosciuto.»

Egli rimane fermo a guardare la società che lo deride, non mette in pratica una rottura. L'emarginazione, in Kafka, non è il preludio di una resistenza, tuttalpiù l'incipit di una bandiera bianca. Ecco la morte del protagonista, ecco il sollievo dei parenti, ecco il "Ben ti sta!" del lettore. Gregor non disprezza la società che lo emargina e il lettore non può far altro che disprezzarlo a sua volta per la sua ignavia.

mercoledì 4 novembre 2015

Minima Moralia. Meditazioni sulla vita offesa, di T.W.Adorno

Raccolta di aforismi composta tra il 1944 e il 1947, durante l’esilio di Adorno negli Stati Uniti, pubblicata nel 1951, Minima Moralia costituisce una profonda riflessione sulla condizione dell’individuo nell’epoca della società di massa. La vita è offesa, violata, repressa, tradita da un’organizzazione economica e sociale repressiva, che riduce l’individuo a macchina di produzione e consumo. Ne scandisce il tempo, i respiri, gli aspetti più intimi e privati.

Novissimum organum. È stato dimostrato da tempo che il lavoro salariato ha foggiato le masse dell’età moderna, e ha prodotto l’operaio come tale. In generale, l’individuo non è solo il sostrato biologico, ma – nello stesso tempo – la forma riflessa del processo sociale, e la coscienza di se stesso come di un essente-in-sé è l’apparenza di cui ha bisogno per intensificare la propria produttività, mentre di fatto l’individuato, nell’economia moderna, funge da semplice agente della legge del valore. Di qui occorre dedurre, non solo la sua funzione sociale, ma l’intima struttura dell’individuo in sé.



La società capitalistica, così come si sviluppa nel Novecento, in cui il capitale è sempre più monopolizzato dalle grandi industrie, dalle multinazionali, si sviluppa come un  nuovo organismo, onnicomprensivo, che produce, dà forma agli individui. L’individuo racchiude in sé le forme sociali dominanti, è trasparente rispetto all’amministrazione totale della società, completamente informata sulla base delle leggi economiche. Ciò significa che le leggi che dominano la condotta dell’individuo, che ne regolano la vita, sono le stesse leggi che regolano l’andamento e lo sviluppo del mercato. Ma l’aspetto più complesso e più drammatico è forse questo: è necessario, affinché sia un autentico funzionario delle leggi del mercato, che l’individuo pensi di essere qualcosa di diverso da queste leggi, un “essente-in-sè”, un essere libero, autonomo, avente una sua propria sfera privata completamente separata dall’organizzazione economica e sociale vigente. È questa la “falsa coscienza”, la menzogna, la maschera che permette all’uomo di vivere come uno strumento, un ingranaggio della macchina, perché se ne fosse consapevole, non potrebbe tollerarlo. L’uomo attribuisce le sue frustrazioni a se stesso, alla sua sventura: la contraddizione tra la promessa di felicità reclamizzata dai mezzi di comunicazione, dalla pubblicità, e l’assoluta insoddisfazione e frustrazione è all’origine della lacerazione dell’individuo, della decadenza, della freddezza, del vuoto che egli avverte nella sua esistenza, ma che drammaticamente non riesce a spiegarsi. “Questa”, dice Adorno, “è la patogenesi sociale della schizofrenia”.

Da questa consapevolezza nasce il progetto di scrivere di questa vita offesa. Dall’impossibilità di poter descrivere in maniera sistematica questo fenomeno, che coinvolge l’uomo moderno nella sua totale lacerazione, la scelta di una scrittura aforistica: il pensiero si infrange contro il muro della fredda e crudele organizzazione sociale, frantumandosi in frasi intrise di fragilità. Adorno fu costretto ad abbandonare la Germania nazista: l’incubo dello stato totalitario anima quest’opera, e in generale il pensiero dell’autore. Ma il terrore più grande di Adorno è l’inquietante affinità della società nazista con la brillante e sfavillante società di massa americana. Il fascismo non è l’esito di una frattura, non è un morbo che affligge una società e una cultura perfettamente sane. Il fascismo è il capitalismo che mostra il suo volto più violento nei momenti di crisi. È continuità con la cultura occidentale, che tende a fare dell’universale una legge totalizzante e omologante, che schiaccia e umilia la vita nella sua molteplicità e diversità irriducibile.

La vita è offesa nella distanza che separa gli individui, che rompe ogni legame solidale per gettarli in un regime di concorrenza spietata che li conduce all’autoannientamento: l’incapacità di un contatto fisico, la superficialità delle conversazioni, l’inautenticità dei rapporti umani, rendono l’individuo disperatamente solo, spintonato e schiacciato dal movimento frenetico della folla. La vita è offesa nel tempo che le viene negato. Come cantava John Lennon “As soon as you're born they make you feel small/ by giving you no time instead of it all…”: il tempo del lavoratore viene suddiviso in tempo di lavoro e tempo libero. Se durante il lavoro l’uomo è costretto a sacrificare il suo tempo per la produzione, durante il tempo libero egli deve sacrificarlo per il consumo. Il mercato scandisce l’intera giornata degli individui: lavorare, comprare, avere “hobbies”, ossia spendere il proprio tempo in attività tollerate, organizzate, che costituiscono fonti di profitto. L’industria culturale ha qui un ruolo fondamentale: anche la fruizione della cultura non è esente dalle leggi del mercato. Nel momento in cui pubblicherò questo post, sarò inglobata nelle leggi dell’industria culturale. Non c’è via d’uscita, e pensare di essere degli “outsiders” rispetto al sistema, è mera illusione e cattiva coscienza. Nel lavoro, come nel piacere, entrambi irreggimentati e controllati, l’individuo muore, la vita viene offesa.
Ciò spinge Adorno ad affermare che “Il tutto è il falso”.

Persino nella sfera erotica permea l’ideologia borghese e capitalista. A questo proposito, l’aforisma intitolato “Il guastafeste” è illuminante. Adorno critica l’interpretazione del piacere di Schopenhauer, secondo cui l’esistenza dell’uomo è scandita dall’insoddisfazione che ci conduce alla ricerca del piacere e dalla noia che segue il soddisfacimento del desiderio. Per Adorno il merito di Schopenhauer è di aver intuito che i piaceri che inseguiamo ci rendono sempre più frustrati e insoddisfatti, ma ciò che il filosofo del dolore e della noia non ha compreso, è che questo accade perché i piaceri che noi viviamo non sono autentici, e non lo sono perché la società in cui li conseguiamo non è libera. L’idea che all’atto sessuale segua la noia, è un’idea tipicamente borghese, la cui ideologia nega ogni possibilità di stasi, di pace. L’uomo borghese deve sempre agire, muoversi, lavorare, produrre: l’eros è un’attività in cui bisogna produrre il maggior numero possibile di orgasmi, possibilmente all’interno di una coppia la cui unione è legittimata istituzionalmente e, ancor meglio, finalizzata alla riproduzione.

Il detto omne animal post coitum triste  è stato inventato dal disprezzo borghese per l’uomo: qui, più che in ogni altra sede, l’umano si distingue dalla tristezza della creatura animale. Non all’ebbrezza, ma all’amore socialmente approvato, succede la nausea […] Nell’innamorato la stanchezza si trasforma in richiesta di tenerezza, e la momentanea incapacità del sesso appare come qualcosa di contingente e affatto esterno alla passione. Non per nulla Baudelaire ha concepito come un tutto unico l’ossessione della schiavitù erotica e l’incipiente spiritualizzazione, e definito ugualmente immortali bacio, profumo e colloquio.

Nell’amante che giace tra le braccia dell’amato, la vita si rivela nella sua concreta forza e fragilità. Nel senso di appagamento, di calore, di umanità che segue ad un rapporto autentico, si rivela l’utopia di un’esistenza libera e degna di questo nome. Quel senso di appagamento dovrebbe seguire ad ogni attività dell’individuo: il lavoro, lo studio, il dialogo, il contatto con gli altri, dovrebbero lasciare in noi questa sensazione di pace, di soddisfazione.
Ciò non accade non perché l’uomo sia condannato a soffrire e ad annoiarsi, ma perché l’uomo è condannato, in questo mondo, in questo stato di cose, a soffrire e a sacrificare il proprio tempo.

Il pensiero rigidamente critico di Adorno, che condanna l'intero esistente con durezza, che non è disposto a cedere, a vedere spiragli, è animato dalla dolce utopia di una redenzione dell’umanità. Nel mondo che si rivela in tutto il suo orrore, il pensiero non può che fare “Tre passi di distanza”, criticarlo e condannarlo. Ma alla disperazione e al nichilismo del pensiero adorniano soggiace una grande idea, che rende il “Tutto” falso e terribile: che l’orrore non sia necessario, che l’uomo possa liberarsi, che l’umanità possa essere diversa e più giusta di quella che è oggi.

domenica 1 novembre 2015

Una piccola storia tra il bene e il male: "Varde" di Hanne Larsen

Varde: Google vi dirà che è un comune danese sui ventimila abitanti, un'agenzia di consulenze per investimenti con sede nel Minnesota e soprattutto una serie dell'Ikea fatta di moduli indipendenti per una cucina facile da rinnovare.
Per vie traverse e in modo totalmente casuale, ho scoperto che Varde è anche il titolo di un cortometraggio norvegese cupo e veridico, dai toni vocativi e quasi interrogativi. Una buona sinossi che ricavo dal sito dove si può vederlo in streaming conclude affermando che Varde porta a riflettere sul significato dell'amicizia. Io credo che questo corto si spinga ancora oltre, fino a interrogare l'anima più intima dell'uomo, dove si radica la scelta tra il bene e il male, insieme alla consapevolezza di compiere l'uno o l'altro.
Johan, il piccolo protagonista, è un bambino né buono né cattivo, o meglio entrambe le cose. È amico di Stig, un bambino apparentemente più piccolo, chiaramente lo sfigato della scuola: indifeso, dimesso e remissivo. Durante l'ora di educazione fisica, la ripartizione dei bambini in due squadre chiarisce subito il suo ruolo nella gerarchia:

- Potete prendere Stig.
- Non lo vogliamo.

Questo è il laconico scambio di battute tra i capitani. Alla fine, il piccolo Stig viene appioppato alla squadra di Johan, perché (questa la motivazione) Johan è suo amico, evidentemente l'unico. Uno dei bulli della classe, ragazzino più alto e belloccio, attacca Stig con una pallonata in faccia. Il professore rientra e vedendo il sangue di Stig chiede chi lo abbia colpito. A intervenire è Johan, e la scelta tra bene e male è già compiuta: è stato un incidente, non si sa chi sia stato, stavamo giocando. Stig ingoia l'intervento omertoso senza serbare rancore, come se in amicizia tutto fosse permesso e perdonabile.
All'uscita Johan viene avvicinato dai due bulli, la cui amicizia brama anche al costo di rinnegare l'amico impopolare, di cui prova vergogna: loro si congratulano con lui per non aver fatto la spia, lui di rimando nega di essere davvero amico di Stig. Johan viene coinvolto da due nei loro giochi, ma raggela all'avvicinarsi di Stig. Quest'ultimo spiega a Johan
che sta organizzando la propria festa di compleanno, ma avendo poco spazio in casa è costretto a invitare solo i suoi migliori amici: «Tu ed Elin della 5B».
Johan sente su di sé gli occhi dei due nuovi amici, che gli costano molto ma il cui prezzo decide di sostenere, immolando il devoto ed innocente Stig: andrà al suo compleanno, ma a patto che si cali in una botola. Nonostante il timore e il freddo, Stig accoglie la sfida senza tentennare e senza immaginarne l'esito.
Tutto questo accade nei primi tre minuti e mezzo: la tragedia è già compiuta, e il resto del corto mostra l'aspra lotta di Johan con se stesso, il dilaniarsi colpevole della sua coscienza, la ricerca della forza d'animo e della lealtà necessari a porre rimedio in qualche modo a quanto di crudele è stato compiuto.
La forza straordinaria di questo corto sta nella sconvolgente verosimiglianza del comportamento infantile. Mi viene in mente Caos calmo, con la ragazzina che pronuncia nel finale un assurdo: «Lo sai come sono crudeli i bambini!». Nel mostrare questa crudeltà, totale perché superficiale, spietata perché irriflessiva, Varde è infinitamente più sottile. Il gesto crudele viene compiuto istintivamente, in seguito ad un calcolo istantaneo dei costi e dei benefici, pensando al piccolo Stig non come ad un essere capace di soffrire o degno di essere rispettato, ma come ad una merce alienabile e sacrificabile all'idolo di un'amicizia più ambita. Ad acuire il carattere tragico di questo corto è la sproporzione dei rapporti all'interno del "triangolo" rispetto all'autenticità dell'amicizia: Stig vuole a Johan un bene incondizionato, gli è devoto e in certa misura pare dipendente da lui, al punto di subirne i torti senza ribellione e senza rancore; i due bulli concedono graziosamente a Johan una manifestazione di cameratismo e un approccio amichevole, disdegnando Stig. Johan si colloca in posizione mediana tra il massimo desideratum (la popolarità rappresentata dai due vincenti) e l'infimo grado relazionale, quello che con un'analogia religiosa definisco credente o adoratore (la devozione totale di Stig, la sua sottomissione all'oggetto del suo sentimento amichevole, senza pretesa di una mutua adorazione). 
Johan è posto evidentemente dinanzi ad una scelta di natura morale, piuttosto che sentimentale: si tratta di ricambiare (se non l'amicizia/amore, che non è oggetto di scelta) la lealtà di Stig, in qualche modo ricompensandolo, oppure di opporsi a lui in forma ostile. Stig sembra incapace, dal canto suo, di manifestare ostilità verso Johan o altri, dopo la pallonata in volto porge l'altra guancia a Johan e ai bulli accettando l'umiliazione e il pericolo di calarsi nella botola. È un piccolo Cristo, con poco scrupolo indirizzato dagli altri verso l'estremo sacrificio. Facile è allora l'identificazione dei due bulli con le autorità (insieme carnefici e pilatesche) romane e del sinedrio, mente a Johan tocca il ruolo (appunto mediano) di Pietro, per altro recitato in tutte le sue fasi, fino al fatidico canto del gallo che lo riporta alla sua colpa, commessa per un vantaggio immediato ma sleale e sproporzionato al sacrificio, al pentimento e poi alla riparazione.
Credo che l'accostamento evangelico permetta di cogliere al meglio lo spessore morale di Varde: la scelta di Johan non è semplicemente quella tra due amicizie, ma quella tra due condotte. Conseguire il bene/astenersi dal commettere il male anche se può rendere impopolari o far sfumare l'occasione di realizzare altri interessi? O piegarsi al compromesso morale, danneggiando una persona (o una causa) in nome di vantaggi immediati ma magari effimeri?
Questa che ho voluto offrire è la mia lettura di un cortometraggio bello sotto tutti i punti di vista, compreso quello tecnico, di cui non posso che consigliare la visione (ehm... lo trovate su cb01!).

domenica 4 ottobre 2015

"Noi" e gli "altri": il cannibalismo dei Tupinamba

«L'identità è un fatto di decisioni», scrive Francesco Remotti. Ugo Fabietti, nel suo famoso libro sull'identità etnica, la definisce «un concetto equivoco». Noi stessi, nella nuova società multietnica e multiculturale che andiamo costruendo, ci rendiamo conto giorno per giorno di quanto sia "decisa" e "costruita" la nostra identità, di quanto sia relativo e storicamente determinato quello che ci definisce, ci distingue dagli "altri".
E ancor di più: la nostra identità non solo è costruita ma è soggetta a mutamenti incessanti, è preda di un eterno «flusso». In pratica, continua a costruirsi giorno per giorno. E si costruisce attraverso il confronto con gli altri, attraverso l'incessante dialettica noi/altri, identità/alterità. Si nutre di alterità, vive attraverso l'alterità e talvolta, per conservarsi, «muore» nell'alterità.
Un caso eccellente di questo meccanismo, morire nell'alterità per conservarsi, è rappresentato dal cannibalismo. Non certo quello psicotico dei film dell'orrore o quello leggendario che la DC dei tempi d'oro attribuiva ai sovietici. Parliamo del cannibalismo rituale e precisamente, per seguire la bella esposizione di Remotti, del cannibalismo dei Tupinamba del Brasile.
Nel loro seno, come ci raccontano le testimonianze fin dall'arrivo degli europei nel Nuovo Mondo, esistevano tribù tra loro avversarie, protagoniste di guerre inestinguibili perché basate sull'antico principio della vendetta. Ad ogni morto, da una parte e dall'altra, seguiva un guerriero imprigionato e destinato alla morte. Ma questa uccisione compensativa, questo "regolamento di conti", non si realizzava sul campo.

«Quando il prigioniero B è condotto nel villaggio A, specialmente se incontra delle donne nei campi, lancia questo grido: "arrivo io, il vostro cibo".»

Il prigioniero viene condotto nel villaggio che aveva orbato di un guerriero, di una vita umana, e col proprio corpo occupa il posto lasciato vacante. Gli vengono depilate le sopracciglia, rasata la parte anteriore della testa, offerte collane e altre decorazioni: viene "travestito" da membro del gruppo. L'atto cannibalico, per avere significato, deve essere preceduto da questa lunga messinscena, da questo caso emblematico del "come se" che tante volte si incontra in antropologia: per un periodo più o meno lungo (mesi o anni) si farà quasi "come se" il prigioniero appartenesse al gruppo. Viene invitato nella casa del guerriero defunto: potrà (dovrà) congiungersi con la sua vedova per risarcirla del lutto, utilizzare le sue armi e i suoi attrezzi. Solo così, prendendo il posto dell'uomo che ha ucciso e usando le sue cose le purificherà, laverà via il precedente possessore: poi la donna potrà risposarsi e gli oggetti essere usati da altri. E solo l'uccisore può compiere questa "purificazione", sostituendosi nella fruizione e negli affetti familiari all'ucciso. Ne occupa il posto in famiglia, può perfino procreare con la sua vedova e con altre donne del gruppo. Può lavorare con gli altri uomini, può prendere parte alle loro feste e bere cauin (la loro bevanda fermentata) con
loro. Eppure, la sua non è una vera sostituzione del defunto: è solo un "come se".
È una cottura culturale, che rende il cibo pronto per essere inghiottito e assimilato. L'altro viene incluso tra il "noi" degli altri, a cui deve cercare di assomigliare. Deve mangiare la cultura degli altri prima che gli altri mangino il suo corpo, come se lasciare che l'"altro" conservi la propria alterità potesse renderlo indigesto.
Arriva prima o poi il giorno del fiero pasto: giorno di festa per tutti. Per i mangiatori, che portano finalmente a compimento la loro vendetta rituale e riassorbono in sé l'alterità, la riconducono a sé attraverso la massima violenza annientatrice; ma anche per il mangiato, perché «i coraggiosi muoiono in paese nemico». Il prigioniero prende parte attiva alla cerimonia che precede la sua uccisione con una mazza, la sua macellazione e la sua cottura su una graticola: l'esecutore gli si rivolge con parole rituali, lui risponde le cose giuste. Non c'è orrore ma c'è onore, essere mangiati dai nemici è una morte bella: perché essere mangiato dagli altri non distrugge il prigioniero, ma lo fa continuare a vivere nel corpo dei suoi mangiatori, nella loro società, nella loro cultura. Il suo teschio rimarrà su un palo davanti alla casa che per mesi o per anni è stata sua, a ricordarlo. Essere mangiato è il giusto prezzo per la morte che ha comminato ad un altro guerriero, ma soprattutto è un modo per mandare avanti la dialettica infinita tra "noi" e gli "altri": «la nostra terra è grande, e i nostri ci vendicheranno» afferma il prigioniero prima di lasciarsi mangiare.
I suoi non lo hanno salvato dagli "altri", sebbene la prigionia sia durata a lungo; anzi, se fosse fuggito e tornato a casa, lo avrebbero ucciso loro stessi. Lui ha ucciso un nemico, sarà mangiato dai suoi cari, e a sua volta essi saranno uccisi e mangiati se cadranno in combattimento. Così si nutre lo scambio tra le due comunità: assurdamente, perfettamente, è l'alterità che nutre l'identità, è l'atto cannibalico che annienta l'altro includendolo nel sé e nutre il sé dell'altro. E soprattutto, affumicando e mangiando il nemico, il gruppo torna in possesso di una parte di sé. Prima dell'esecuzione, colui che dovrà ucciderlo chiede al prigioniero:

«Non hai tu stesso ucciso e mangiato nostri parenti e nostri amici? [...] Quest'altro, più sicuro che mai, rispondeva: Pa, che tan, tan, aiuca atupavé ("Sì, io sono molto forte e ne ho veramente uccisi e mangiati molti"). "Oh, non mi sono sbagliato; oh come sono stato ardito nell'assalire e nel prendere la vostra gente, della quale ho tante e tante volte mangiato!"»

Il prigioniero conserva nel proprio corpo le carni dei guerrieri che ha mangiato, e con la sua stessa presenza ha colmato per lungo tempo il vuoto lasciato da un membro del gruppo, ha persino avuto figli in seno alla comunità. C'è un che di "nostro" nel suo corpo e nella sua persona, che deve tornare a casa, che deve essere riassorbito.
Questo è il cannibalismo Tupinamba: «cibarsi di alterità, morire nell'alterità». È un meccanismo di reciproca costruzione e conservazione, di continua creazione e ricreazione di sé e degli altri, del "sé" attraverso gli "altri", e la distruzione rituale è una tappa necessaria all'assimilazione, alla ricongiunzione. Non si mangia l'altro uomo per una violenza cieca né per fame, ma per tornare congiunti ai propri cari che sono stati mangiati prima di lui, dalla sua gente, spiega Michel de Montaigne, «idea questa che non ha niente di barbarico». È reciproco ed eterno, trionfale e tragico insieme. Recita un canto rituale Tupinamba:

«Questi muscoli, questa carne e queste vene sono i vostri, poveri pazzi che siete; non vi rendete conto che dentro vi è ancora la sostanza delle membra dei vostri antenati: assaporateli bene, vi troverete il sapore della vostra stessa carne.»

  • Le citazioni sono tratte dal libro Contro l'identità, Francesco Remotti, Editori Laterza (1996).
  • Il libro citato di Ugo Fabietti è L'identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Carocci editore (2011): un testo prezioso, che decostruisce il concetto di identità e memoria etnica, illustrando tra gli altri un caso esemplare di "invenzione etnica": quello della Padania, rappresentato dal simbolo del "carroccio".
  • Le testimonianze di Michel de Montaigne sui Tupinamba sono contenute nel libro Saggi, Adelphi (1992)

lunedì 7 settembre 2015

2012 - Foto di gruppo con poeta, di Alessia Franco

Questo post non vuole essere una recensione, ma una “presentazione on-line” del romanzo della nostra amica, collega e compagna Alessia Franco, pubblicato recentemente dalla casa editrice indipendente Eretica Edizioni. Recensire questo libro avrebbe significato “valutarlo”, dare un giudizio che dubito sarebbe stato oggettivo. Tuttavia, penso non sia affatto sconveniente utilizzare questo nostro spazio per promuovere l’attività di una giovane scrittrice emergente che, come tutti gli emergenti, fa fatica a trovare una collocazione nel mondo editoriale, egemonizzato da criteri economici e consumistici, che vede l’arte meramente come merce. L’autopromozione è l’unica possibilità per i giovani scrittori di farsi conoscere, e in quanto blog letterario, riteniamo doveroso far conoscere questo libro ai nostri lettori, che qualitativamente supera di gran lunga il livello di tanta merda che troviamo sugli scaffali delle librerie. Fatta questa premessa, mi accingo a mostrare quelli che, a mio avviso, sono i punti essenziali del romanzo di Alessia Franco, un romanzo che cerca di parlare della condizione in cui versano i ventenni del Duemila dall’interno, senza retorica o luoghi comuni.

Maschere.
Le maschere ammorbano i miei occhi, offuscano le mie pupille. Si frappongo fra me e lo sfondo. Mi stancano.
Scivolo tra esse, furtivo. Cerco di non farmi notare. Mi sento minacciato.
Sono mascheroni bianchi, inespressivi. La morte del volto.
Sguscio fra loro, alla ricerca di un vero volto, un volto che sia vero. Non il mio, non posso guardare il mio stesso volto. Me ne serve un altro, quello di un altro stronzo come me, che giri in questa turba spettrale a volto scoperto. Una faccia pallida o rubizza o olivastra, quello che sia, purché una macchia di colore vitale in questo bianco sporco, in questo affastellarsi di facce-senza-faccia.

Il romanzo racconta diverse storie di studenti universitari alle prese con i problemi, le difficoltà, le gioie e i dolori che caratterizzano la vita quotidiana dei ragazzi della nostra epoca. Storie diverse tra loro, ma che si intrecciano in un filo conduttore che definirei “senso di vuoto”, vertigine, assenza. La vita quotidiana di questi ragazzi oscilla tra i due poli dell’assenza di significato e della disperata e speranzosa ricerca di un significato, di un qualcosa. Nelle loro diverse esperienze, il rimpianto e il rimorso si intrecciano: da un lato si rimpiange un tempo futuro che si considera già irrimediabilmente perduto, e dall’altro i protagonisti di questa storia sono attanagliati da un profondo senso di colpa, accusano se stessi di incapacità, di non aver saputo cogliere quel futuro che viene loro negato.

Il fumo
si alza dalla mia carne
putrida,
gravido di moscerini.
Pesantezza.
Sfoglio ogni pagina della vita,
questo capitolo è solo una sfilata di parole,
lo strascico sfilacciato di un passato
che prometteva
colori accesi.
Anticipo il finale
- o almeno ci provo -
ma vedo solo pagine bianche.
 Pagine bianche fino alla fine del libro,
decine di pagine bianche.
Non intonse,
non fogli nuovi
che aspettano di essere scritti,
ancora conservati nella risma.
Fogli bianchi ma già vecchi,
già rilegati col resto del libro,
con le pagine già scritte.
Fogli vuoti
su cui non si può scrivere più niente
- o forse quel lucore che ferisce gli occhi,
quel pallore mortale della pagina
è già una scritta, è tutto quello che ci si può aspettare -
e che stanno là.
Tutto ciò che ho,
tutto ciò che si può leggere se provo a saltare le pagine.
Il vuoto.
Leggevo l’incipit,
da bambino,
e da ragazzo sognavo col protagonista,
aspettavo il suo avvenire.
Sto leggendo
- scrivendo -
un capitolo confuso,
intricato di parole futili e chiassose.
Manca poco al vuoto di quelle pagine
bianche come un sudario,
il finale trafugato di una storia.

Ogni protagonista vive questa contraddittoria polarità in modo diverso. Contraddizione nella quale ogni ragazzo, o quasi ognuno di noi, può sentirsi stretto, come in una morsa: da un lato il diritto allo studio, il dovere che diventa piacere, che dà senso, pienezza, consistenza alla vita quotidiana, e dall’altro, la consapevolezza che tutto questo ti sarà sottratto. La consapevolezza di un condannato a morte che questo senso svanirà nel momento in cui il Presidente della commissione di laurea ci proclamerà “Dottori in aria fritta”: il dopo è un mondo caotico, anarchico, in cui c’è solo spietata e sleale concorrenza, in cui si è soli e sperduti, in cui tutto ciò che nel piccolo e accogliente mondo universitario era di fondamentale importanza, non ha alcun senso, è considerato superfluo, improduttivo, inadeguato.
I ragazzi descritti da Alessia Franco, vivono questo passaggio come una spada di Damocle sulle loro teste, sentono già in anticipo che saranno gettati, che saranno inutili. Questo senso di vuoto e inutilità si declina nelle diverse vicende dei protagonisti: Alyssa è una ragazza alle prese con seri problemi economici. Studia, lavora, ingolla continuamente “caffè di caffè”, l’elisir miracoloso che la tiene sveglia, permettendole di conciliare tutti i suoi impegni. Vive un rapporto conflittuale con sua madre, a cui non fa sapere nulla dei suoi sacrifici: Alyssa è ossessionata dall’idea di dover essere sempre eccellente, ineccepibile di fronte ai suoi genitori, perché è nata per caso, per errore. Trematerra è un ragazzo che ha abbandonato gli studi per lavorare in fabbrica. Dopo un periodo di frustrazioni e fatica, perde il lavoro, ritrovandosi a dover ricominciare tutto daccapo. Tutto ciò che gli resta è il suo sogno di partire, andare il più lontano possibile dall’Italia. Maria è una ragazza insicura, bloccata dalla sua timidezza, incapace di agire.  Cerca di lavorare in un call center, ma alla  prima telefonata la voce resta bloccata nella gola. È soffocata dalle sue paure, asfissiata dal senso ineluttabile e doloroso della sua mediocrità. È innamorata di un ragazzo, Cantatore, ma non riesce neanche a porgergli un saluto: si rifugia nella lettura, unico luogo in cui lei si senta sicura e a suo agio, per il semplice fatto che lei non c’è, che nessuno lì può vederla. E poi c’è Cantatore, il narratore, il poeta della nostra storia. È Cantatore che ci proietta nell’interiorità di una generazione profondamente scossa dalla crisi economica, dal crollo definitivo di tutti i paradigmi politici e culturali, dalla perdita di punti di riferimento: le sue poesie, le sue riflessioni, costituiscono i passaggi del romanzo in cui si abbandona la narrazione per scavare nelle profondità di questa condizione, che è banale definire “disagio giovanile”. Non a caso, a mio avviso, Cantatore soffre di una grave balbuzie: non riesce a parlare con gli altri, come Maria, è bloccato da un impedimento fisico e psicologico allo stesso tempo. Se Maria si rifugia nella lettura, Cantatore si rifugia nella scrittura: si rifugia nel suo mondo fatto di versi, di immagini, di concetti e sentimenti. Siede curvo, sempre in disparte, guardando gli altri da lontano, e il nutrimento che trae dall’umanità diventa poesia, ispirazione.
Vivo uno strano disagio.
Mi tallona. Mi rifugio nei sogni, nelle pagine che da bianche diventano fitte di lettere, gravide di pensieri, stillanti parole vibranti. Ma quando si rompe la comunione con la tastiera o con la penna, quando mi sveglio e mi ritrovo solo, il disagio affonda le unghie nel mio braccio. Mi costringe a guardarlo in faccia.
Che farai dopo?
Dopo cosa? Dopo aver finito questo paragrafo? Dopo aver scritto la nuova poesia? Dopo aver cenato? Dopo cosa?

Maria e Cantatore sono due personaggi simili, vicini, le loro personalità si intrecciano e si compensano: entrambi isolati, incapaci di stare al mondo, esseri troppo delicati e sensibili, finiscono con l’incontrarsi, con l’innamorarsi. L’amore di Maria e Cantatore è un amore che nasce con un semplice sguardo: lo sguardo dell’avida lettrice che cerca uno scrittore nel quale rifugiarsi, e lo scrittore, che ha bisogno di qualcuno che posi lo sguardo su di lui, che lo legga. La lettrice e lo scrittore sono due metà che si cercano disperatamente. Nel momento in cui si incontrano, in quel muro spesso e opaco di solitudine e insensatezza si apre una crepa, irrompe la speranza del domani.

Non so cosa sarà della mia vita. Forse finirò a mendicare sotto un portico, ultimo tra gli invisibili, oppure mi ridurrò a morire solo come un cane in preda al delirium tremens. Forse concluderò qualcosa di buono.
Una cosa è certa: quando rivedrò la ragazza con gli occhiali, la saluterò. Le tenderò la mano e mi presenterò. E la effe del mio nome non mi spaventerà, e io la pronuncerò, balbuzie o meno.
Ho trovato il mio grumo di reale. Mi ci sono issato sopra. Quello che mi strangolava non era un bianco nulla, era solo un mare pallido di nebbia. Da qui si vedono delle cime affioranti al di sopra di esso.
Da qui si vede la speranza.

Ciò che sembra emergere dalle righe di questo romanzo è che non c’è via d’uscita dall’insensatezza, se non il rabbioso rifiuto di una vita inautentica e l’ostinata ricerca di qualcosa che dia senso: di un volto, di un amore, di un amico. Il movimento incontrollabile che prepotente ci spinge verso gli altri è l’unica forza per rompere il muro della solitudine. Muro invisibile quanto spesso, eretto da una società in cui vige l’individualismo e la competitività. Oltre ad essere uno spaccato della nostra epoca, questo romanzo costituisce, a mio avviso, un inno all’amicizia, all’amore, alla solidarietà.


Se siete interessati all’acquisto del libro, allego il link dal quale è possibile effettuare l'ordine. Sempre per ragioni di autopromozione! Buona lettura…

sabato 8 agosto 2015

La storia della principessa splendente: racconto tradizionale, soggettività e libertà

La protagonista non viene mai chiamata per nome: i genitori adottivi, gli amici della breve infanzia in montagna, i pretendenti, tutti i personaggi la chiamano Gemma di bambù, Principessa o Principessa Splendente. Però sappiamo che si tratta di Kaguya-hime, la principessa splendente del flessuoso bambù , la cui storia è raccontata da un monogatari del X secolo.
A noi, poco esperti di letteratura giapponese ma avidi spettatori di anime, la storia della principessa appare familiare anche grazie alla mediazione di Inuyasha: il secondo lungometraggio sul demone-cane infatti, Il castello al di là dello specchio, è ispirato proprio al Taketori monogatariIl racconto del tagliabambù. Meno familiari ci appaiono i doni dei cinque pretendenti, i cui nomi sono tradotti in maniera piuttosto diversa dai due film d'animazione (l'assurdità che balza all'occhio riguarda la Veste del Topo di Fuoco che senza ragione, o forse per una non necessaria connessione col demone-cane protagonista, nel film di Inuyasha viene attribuita appunto ad un Cane di Fuoco).
La versione firmata da Isao Takahata per lo Studio Ghibli è naturalmente non comparabile

con Il castello al di là dello specchio, e a dire il vero è comparabile con pochissimi film d'animazione per una serie di sue peculiarità che lo rendono eccezionale. Chi si aspettava, come me, i disegni puliti e fluidi tipici dello Studio Ghibli (e dello stesso Takahata, che nel suo capolavoro Una tomba per le lucciole ci offre un realismo tanto crudo da non avere omologhi nei film d'animazione mainstream) sarà rimasto molto stupito. La storia della Principessa Splendente è raffigurata con degli acquerelli rari e inaspettati, che concedono poco e nulla al dettaglio, escluse poche scene che si soffermano sulla miniatura dal vero, come la sequenza che mostra la fabbricazione delle tazze di legno o quella dedicata alla complessa preparazione delle dame giapponesi dell'epoca, tra la vestizione e il trucco che comprende l'epilazione delle sopracciglia. Le montagne, le strade, gli interni delle dimore si sciolgono in pochi tratti significativi e un delicatissimo stemperarsi dei colori. Il disegno è vago e sfumato come può esserlo un racconto orale, come può esserlo l'immaginazione nel soffermarsi sulla bellezza della protagonista lunare, contornandola di una cornice solo per non lasciarla sospesa nel foglio bianco. E questo modo di narrare che sfiora ogni cosa senza prestarvi troppa attenzione per concentrarsi solo su ciò che è importante colpisce anche i caratteri: servitrici, invitati, passanti sono poco più che abiti sormontati da capoccioni incolori. Due tagli orizzontali come occhi e una macchia scura di capelli sono il massimo che il disegnatore abbia voluto concedere alle comparse. Anche i personaggi che hanno la parola, i cinque spasimanti della principessa, la sua stessa madre adottiva sono poco più che scarabocchi caricaturali. Proprio come in un racconto orale, in cui si spende una sola parola per nominare i personaggi e ci si sofferma con ogni scusa su quanto la protagonista sia bella. Così Kaguya è deliziosa e piacevole, e semplicemente dalla maggiore definizione del viso e dei dettagli dell'abbigliamento si può costruire una gerarchia degli altri personaggi: il Mikado, che possiede un volto preciso e un mento imperiale, il tagliabambù che in preda ai sentimenti si fa spesso paonazzo, il fratellone Sutemaru che annuncia un suo importante ritorno nella chiusura del racconto semplicemente perché fin dall'inizio disegnato con più cura degli altri.
Così, il punto di forza di questo film d'animazione risiede, più che nella raffinatezza dei disegni o nella messinscena di un racconto celebre (o nel festoso Carnevale di Rio che scoppia a un certo punto, meravigliosamente stonato rispetto alla serietà del momento, a mostrare la lacerante distanza tra la gaia emozione di alcuni e la contemporanea disperazione di altri), nella soggettività della narrazione visiva. A dipendere dal punto di vista del soggetto non è la storia: non ci sono diverse versioni sostenute da diversi interessi (rimando all'inno ermeneutico di Kurosawa, Rashōmon), né c'è un'unica storia raccontata prima "frontalmente" dal protagonista, poi in modo angolato dai suoi vicini, poi di scorcio dai passanti. No, ad essere piegato all'irriducibile soggettività della visione è lo stesso discorso grafico, è la stessa forma delle cose. La scena più alta è forse quella che conclude la festa e che vede la Principessa Splendente fuggire furiosa, lacerandosi le preziose vesti, arruffandosi i capelli: a farsi brutto è perfino il cielo, le sagome intrecciate dei rami diventano scarabocchi rabbiosi, rigacce nere sostituiscono l'orizzonte, il paesaggio tutto sembra uno strofinarsi

sadico di pastelli asciutti su fogli ruvidi. La principessa è una macchia di furia e dolore, orribile, che si perde in un silenzio attonito e un buio opaco. Molti cartoni animati ci hanno abituati ai colori spenti nei momenti di tristezza, ai filtri bluastri sulle scene malinconiche, alla spaventosa anarchia degli elementi durante le scene dolorose o violente: gli esempi sono infiniti, dal cielo perennemente nuvoloso sul regno del tristo zio Scar nel Re Leone ad infiniti incendi e fortunali nei più disparati e classici cartoni Disney. Ciò cui assistiamo ne La storia della principessa splendente è tutt'altra questione. Non ci sono mostruosità climatiche o oscurità improvvise a dare il tono di giusta tristezza alle scene che lo richiedano, filtri scuri per lasciarsi improvvisamente alle spalle i gioviali balletti di un attimo prima. Non si tratta di inserire toni e oggetti che si intonino al momento (la carcassa che la pioggia trascina via quando Simba rivendica il trono e rimpiazza lo sprovveduto nonché fratricida zio Scar). Ciò che vediamo nell'ultimo film di Takahata è, per qualche minuto, la stessa soggettiva emotiva della principessa: il mondo si fa brutto intorno a lei, la bruttezza è nella sua stessa Weltanschauung, deformata dal primo impatto con le brutture dell'umanità, con il cinismo, la calunnia, la brutalità che non aveva conosciuto nel suo mondo lunare. L'alterata percezione della realtà (per così dire; l'alterata riproduzione della realtà in corrispondenza del momento buio) è radicale, investe le proporzioni, i colori e il tratto del disegno, è totale, e lascia l'impressione di recuperare una presa d'aria quando gli acquerelli leggeri riprendono il loro posto. Il disegno non è l'asettica fotografia di un paesaggio opportunamente agghindato secondo il sentimento: è la raffigurazione di una realtà che è tale esclusivamente perché vissuta da un determinato soggetto.
La storia della principessa splendente, a differenza dei maggiori classici dello Studio Ghibli, è un po' carente quanto a coinvolgimento emotivo e a caratterizzazione dei personaggi, ma non perde l'occasione per soffermarsi sulla superficialità di alcuni meccanismi sociali, sulla concezione della donna come proprietà che col matrimonio si aliena ad altro acquirente, sulla classica alternativa tra la felicità/autenticità della parca vita nei boschi rispetto all'infelicità dell'arida vita della classe alta, fatta di etichetta e forzature. Bella la rivendicazione di libertà di Kaguya, bello il suo piccolo orto custodito nel cuore del palazzo, bellissimi i disegni rari e strani. Un film poco personale ma curato ed elegante.